La lotta contro Ilva e Inail di un operaio malato di asbestosi.
di Antonietta Demurtas
da Lettera43
Odissea. Battaglia di Pirro. Davide contro Golia. I suoi ultimi 17 anni di vita li ha chiamati in tanti modi, anche per esorcizzare la realtà. Ma alla fine quella di Cosimo Semeraro (vedi intervista video) è stata una vera e propria guerra contro l'acciaieria Ilva di Taranto e soprattutto contro l'Inail (Istituto nazionale infortuni sul lavoro). Tutto per ottenere il riconoscimento assicurativo per l'esposizione all'amianto che gli spettava.
DAL 1995 LOTTA SENZA FINE. Una lotta a suon di avvocati, carte bollate, certificati medici e sentenze. Tutti documenti che Semeraro, operaio Ilva ora in pensione e malato di asbestosi dal 1998, si porta sempre dietro dentro una cartella alta almeno 15 centimetri. E che in una mattina soleggiata, in un bar della Taranto nuova, apre a Lettera43.it per raccontare una storia tutta italiana: «Dal 1995 ho dovuto lottare per i miei diritti», dice, «e ancora aspetto. L'ultima udienza civile per avere almeno il risarcimento economico è fissata per il 6 giugno».
La lotta per il certificato di esposizione all'amianto
Risarcimento che certo non basterà a cancellare l'amarezza e la sofferenza di un operaio che dal 1971 ha lavorato nell'azienda di Stato, Italsider ora Ilva, senza mai sospettare che quei padroni sarebbero diventati un giorno i suoi detrattori.
«La mia rabbia più grande è che l'azienda era dello Stato, e tutti sapevano che l'amianto uccide». Tanto che la stessa Italsider nel 1984 aveva assicurato contro la silicosi e l'asbestosi lo stesso Semeraro. Che di amianto ne aveva respirato tanto quando lavorava come elettricista nell'impianto siderurgico.
PRIMA DOMANDA DI PENSIONE. Così quando nel 1995 i sindacati fecero compilare ai lavoratori la prima domanda di pensione per amianto, Semeraro fu uno dei primi a farla. Ma l'Inail perse la sua pratica, e quando nel 1996 rifece la domanda l'ente non la accettò: «Dicevano che dovevano verificare l'effettiva esposizione all'amianto».
Un riconoscimento sul quale, anche se non direttamente, gravava il fatto che lo Stato aveva stanziato risorse solo per 1.500 lavoratori. E così quando l'ente preposto per i rilievi, la Contarp, entrò in azienda, «i sindacati fecero visitare prima i reparti dove contavano più iscritti in modo da far riconoscere l'esposizione all'amianto ai loro tesserati», racconta Semeraro.
ESPOSIZIONE SOLO PER NOVE ANNI. I lavoratori esclusi però si ribellarono e così nel 1998, l'azienda, ormai passata nelle mani dell'imprenditore bresciano Emilio Riva, riconobbe che quel materiale micidiale era presente anche nelle zone dei bruciatori e dei ventilatori. Semeraro tirò così un sospiro di sollievo. Che durò solo sino a quando l'Inail gli consegnò il tanto agognato certificato di riconoscimento dell'esposizione all'amianto.
Era di nove anni. Ma la legge (271 del 1993) prevedeva un risarcimento solo per chi era stato esposto per almeno 10 anni. E Semeraro in azienda aveva trascorso ben 27 anni, visto che fu assunto nel 1971.
RICONOSCIMENTO REVOCATO. A far cambiare idea all'Inail non bastò neanche un certificato dell'Asl che certificava l'esposizione di Semeraro all'amianto. Anzi all'operaio l'ente assicurativo revocò pure il riconoscimento dei nove anni.
Semeraro contro l'Inail, in lotta dal 1998
Fu allora che l'operaio iniziò a pensare a un accanimento, una volontà precisa di ostacolare la sua pratica per evitare risarcimenti onerosi. E così scese in piazza a protestare contro un ente come l'Inail che proprio in quel periodo anziché fare il suo lavoro era coinvolta in uno scandalo per truffa.
Nel 1998 fu scoperto, infatti, che alcuni funzionari truccavano certificati di indennità e pensioni.
E Semeraro per aver acceso i riflettori sul caso fu punito: «Il direttore Giovanni Sulpizio mi disse che se avessi avuto la malattia, me l'avrebbero pagata, ma mai mi avrebbero riconosciuto i benefici legati all'amianto», ricorda. «E aggiunse: a Taranto comando io».
Era il 1998 quando Semeraro fu costretto a combattere una guerra contro l'Inail, proprio partendo da una querela nei confronti del suo direttore.
LA DIAGNOSI: ASBESTOSI. Dopo appena un anno però la previsione di Sulpizio si avverò: nel 1999 i medici di un ospedale di Padova diagnosticarono a Semeraro una placca pleurica asbestosica. Ma nemmeno quei certificati medici bastarono all'Inail. «Nel 2001 ho dovuto fare una denuncia alla Procura per chiedere al giudice del Lavoro la rivalutazione contributiva per la malattia e l'esposizione all'amianto».
Si aprì così un processo lungo e faticoso: «Il giudice chiese all'Inail la mia documentazione», ricorda, «ma l'ente negò di aver mai ricevuto la mia domanda per il riconoscimento dei benefici previdenziali».
IL FASCICOLO NASCOSTO. In realtà, come accertarono poi i giudici, ci fu una soppressione e l'occultamento di tutto il fascicolo relativo alla storia dell'operaio. Durante un'ispezione, chiesta dalla Procura, nella sede dell'Inail fu infatti ritrovata tutta la documentazione di Semeraro, chiusa nell'armadietto personale di Sulpizio. Che nel frattempo era anche stato promosso e mandato a Roma come responsabile degli ispettori Inail.
LA CONDANNA DEL MANAGER. Un trasferimento che non lo salvò però da un processo penale e da una condanna in primo grado di 10 mesi. «Per me fu una grande soddisfazione», racconta Semeraro. Che però ebbe breve durata. Sulpizio ricorse infatti in appello e con i tempi giudiziari italiani la causa andò in prescrizione.
Rimase però aperto il processo civile per il risarcimento, che è ancora in corso.
Abbandonato anche dai sindacati
Ma le cause e le beffe non finiscono qui: «Visto che l'Inail non dava il suo ok, neanche l'Inps mi riconosceva la pensione per esposizione all'amianto».
C' è voluta un'altra causa legale, vinta da Semeraro, per ottenere ciò che gli spettava. «Andarono in Cassazione per evitare che il mio caso facesse giurisprudenza per gli altri operai, ma perdettero anche lì», spiega.
ODISSEA IN TRIBUNALE. Senza considerare che, se l'amministrazione pubblica avesse operato regolarmente sin dall'inizio, Semeraro avrebbe potuto andare in pensione nel 1995, anziché nel 2000. «Un calvario che ho dovuto affrontare solo perché lo Stato non ha fatto bene il suo lavoro», aggiunge con rabbia.
Ci sono volute due sentenze per ottenere il riconoscimento all'esposizione all'amianto, tre per poter usufruire dei benefici previdenziali legati alla malattia e altre tre per la causa penale. A cui si aggiunge quella civile ancora in corso.
IN LOTTA DA SOLO. Anni trascorsi tra tribunali e ospedali che hanno solo aggravato le condizioni di salute di un operaio che si è ammalato lavorando e ha dovuto faticare ancora di più per vedersi riconosciuta la malattia professionale. «Sono stato deriso e abbandonato da tutti, anche dai sindacati», dice con amarezza, «alcuni dicevano che ero un pazzo a lottare per i miei diritti».
AL CENTRO MENTALE: DEPRESSIONE. Ma a farlo impazzire invece sono stati gli impedimenti burocratici e le ingiustizie: «Sono finito al centro mentale per un crollo psicologico, pensavo al suicidio». Si sentiva solo e disperato Semeraro, in lotta contro Titani, «ma per fortuna sono riuscito a uscire dalla depressione».
Come Semeraro però ci sono tanti altri colleghi che ogni giorno vivono appesi a un filo, malati non solo di asbestosi, ma di leucemia che ancora non è riconosciuta come malattia professionale.
SCONTRO GENERAZIONALE. Anche per loro continua a lottare Semeraro, che ha fondato il Comitato 12 giugno proprio per ricordare ogni anno le vittime sul lavoro.«Quando siamo entrati all'Ilva non sapevamo di tutte queste malattie, abbiamo lavorato per portare un pezzo di pane a casa. Non ci siamo arricchiti. Perché gli altri devono farlo sulla nostra pelle?», si chiede.
E all'ex azienda di Stato Italsider, ora Ilva, una cosa non perdonerà mai: «Che ha messo padri contro figli», dice Semeraro. Che dopo aver lavorato una vita in acciaieria e aver capito troppo tardi quanto male faccia quello stabilimento ai lavoratori e a tutti i cittadini di Taranto, deve ora accettare che suo figlio per una sua scelta personale, stia lavorando in quella stessa azienda.
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