giovedì 12 aprile 2012

Migrazione al centro dalla periferia tarantina di Salvatore De Rosa

Salvatore De Rosa nelle sue parole, Taranto e tanto altro.


Adesso sono nella casa nuova, più vicino al mare. Ma, più che la vicinanza della superficie d'acqua, a ricordarmi le nuotate dell'estate sono le mie discese sulla strada principale. Che è in parte alberata, con vecchi e frondosi lecci, mentre nel tratto successivo la luce, favorita dalla bassa altezza media dei palazzi della zona, rasserena e rallegra tutto ciò che rischiara; alleggerendomi l'animo, potrei dire, nella stessa misura in cui la vedo riempire lo spazio. Nella strada c'è qualche negozio interessante, dei marciapiedi più larghi rispetto al normale in città, dei caffè con buona pasticceria, una bella bougainvillea pendente da un muro sopra un chiosco di giornali e un passeggio che un tempo detestavo, ma in cui ora mi capita spesso di incontrare qualcuno che conosco. Così si forma la similitudine col nuoto: per questo muovermi in un posto dove si riaffaccia il piacere di guardare, per l'immersione nella luce, per la gradevolezza di alcuni particolari della strada, per gli incontri, che non sono più con flora o fauna marina ma con persone; per l'attenuarsi dei rumori nella zona pedonale, per il ritrovarmi senza desideri a stupirmi di tutto. L'interesse di esplorare mi ha ripreso come quando ero ragazzo; qualcosa dell'atmosfera del centro storico europeo qui nel Borgo si rintraccia ancora. Con le sorprese: una mattina, inaspettato, trovo il mercatino ambulante delle cose vecchie, che è un po' come un tratto di mare del passato in cui galleggino scompostamente mille ricordi fatti oggetto. Ci vedo libri che non si stampano più, avventure che avrei voluto leggere da piccolo, mobili compagni a lungo di vicende umane, paccottiglia di passate vergogne politiche nazionali. Poi la fantastica bancarella di un britannico, uno scozzese. Che ha bastoni da passeggio, animati e non, con manici molto fantasiosi: una testa umana che andava impugnata dal lungo naso; un pomo d'ambra a forma di teschio; un manico d'osso di balena su cui sono raffigurate per incisione delle sirene che, sedute sugli scogli, asciugano al vento le capigliature; e poi un fusto che pare una canna di bambù su cui sono intagliati a rilievo libellule, cetonie e ranocchie, ma così bene da dare l'idea che vi stiano sostando temporaneamente. Sono però le scatolette d'osso di balena ad attirare maggiormente la mia attenzione. Sui coperchi sono incisi velieri, scene di caccia ai capodogli, sirene solitarie. Scatole piccole, ma precise nella costruzione e nelle decorazioni, prendono un grande spazio emotivo con la loro narrazione; rimandano all'inizio dell'arte, la descrizione della caccia che si ammira nelle grotte preistoriche, dove l'uomo mostra di osservare sé stesso nel mondo. Sono vere, sono riproduzioni? Vere, afferma pacatamente mister Jackson, il commerciante, baffi e capelli brizzolati, occhi chiari e quel comportamento molto composto che caratterizzava i suoi compatrioti prima dell'olocausto culturale. Ma non sa dirmi nulla sulla loro origine, le ha acquistate da altri commercianti, sa solo che provengono da collezioni. Che ora, purtroppo, si scompongono. Me ne regalo una. Per guardarvi, alternativamente, gli uomini soli col mare e col rischio, il grande nuotatore solo con gli uomini.
Nei giorni freddi di dicembre, sulla stessa strada, madonne siedono sole col proprio bambino. Avendo sperimentato la latitanza di Giuseppe e l'inesistenza dello Spirito Santo, chiedono una moneta al passante. Provano a nutrirsi, cioè, come le conchiglie: queste raccolgono col flusso del mare, loro da quello della folla.
La strada principale, proseguendo verso il centro, va ad aprirsi nella piena luce di una piazza di palme e magnolie che un tempo ebbe il nome di un filosofo coraggioso. "Chi muore per il libero pensiero onora la patria, appartiene al mondo": lo si ricordava così su di una targa che non c'è più, e toglierla fu un altro piccolo, clandestino rogo. Arrivando a quella piazza si passa su di un'altra cancellazione, quella del racconto dell'antichissima prosperità che in quel punto, vien scritto, aveva formato un prorompere di terrazze affacciate a guardare i mari e a inondarsi di luce. Le ipotesi su ciò che fu cancellato, su che cosa fosse "il Borgo prima del Borgo", le ho trovate nel libro di uno studioso locale che narra come i resti della città magnogreca fossero stati sepolti dal tempo, compresi in quella collina che fu poi chiamata Montedoro. Mi è facile fantasticare che quest' altura prendesse nome dal fatto che i raggi del sole ne dovevano indorare alternativamente i lati, al tramonto e all'alba; dalla sua sommità si saranno potuti contemplare, semplicemente volgendo il capo, l'uno e l'altro mare. Dopo che, nel 927, la città fu assalita e, malgrado tenace difesa, depredata e distrutta dai Saraceni – con la sorte che lasciò vivi e liberi pochi pescatori, che si erano avventurati al mare come imponeva il loro mestiere – trascorsero quarant'anni in cui sulle sue macerie nulla più voleva risorgere. La città rinacque per necessità strategica decisa altrove, ma lo fece avendo paura di ciò che avrebbe potuto scorgere all'orizzonte. Si rinchiuse nell'area dell'antica rocca facendola, nel secolare perfezionamento delle sue difese, diventare un'isola per difenderla meglio, e organizzando le sue strade in forma di contorte e a tratti strettissime viscere per digerirvi mortalmente qualsiasi invasore. Sacrificò così anche il rapporto che un tempo aveva con la luce; si chiuse al mare, ed era da aperture nelle mura che i pescatori uscivano per strappare ai flutti i pesci. Tutto il resto diventò campagna.
La collina di Montedoro, alba dopo alba e tramonto dopo tramonto, custodì per secoli il suo segreto. Ma quando, dopo, l'unità d'Italia, la città risolse di espandersi nuovamente tornando nei luoghi dove era già stata, la collina fu frettolosamente sbancata. I poteri locali del tempo coniugarono la speculazione edilizia con le esigenze della propria sicurezza e crearono, secondo l'uso di allora, una rete di strade che si tagliavano ad angolo retto, facilmente percorribili dalla truppa, di modo che le uniformi avrebbero potuto celermente affrontare i cittadini, laddove necessario. Il racconto, allora, si perse. Ma, camminando verso la piazza che fu del filosofo, guardando dai lati laddove la strada principale, che scorre dove fu la collina, incrocia altre vie, si può notare, stando attenti, ancora una leggera sopraelevazione della zona, una piccola traccia di ciò che fu.
Ciò che fu fu tanto, in un sito benedetto dalla natura: quando, laddove io sono adesso, vi erano solo alberi sorvolati dal grido dei gabbiani sarà stato un paradiso di facile caccia e pesca; però il fortunato abitarvi, che qui formò una città molto prima che si abbozzasse Roma, si trasformò periodicamente in grave sfortuna, ché di ferro in ferro fu conquistata fino all'attuale acciaio. Ma la mia fantasia va più spesso al periodo dei Greci, o anche all'anfiteatro romano che guardava il mare, ma più a quella piazza irregolare che, sempre come ipotizza lo studioso, si apriva laddove i due mari erano più vicini e laddove il pensiero umano, che aveva per la prima volta raggiunto la maturità e la libertà di spaziare per tentare di indagare l'intera esistenza, si sarà fatto discussione tra uomini, insieme a liti, seduzioni, vanità e a tutti gli altri fenomeni di relazione che una piazza avrà potuto allora vedere. Anche la forme dei luoghi di quel tempo mi incuriosiscono particolarmente, perché credo siano state quelle più armoniche che, come spazi ormai umani, abbiano potuto avere nel loro rapporto col mare. Mi capita di vagare col pensiero in quella piazza, di figurarmene a volte così vividamente le forme che, immaginandovi anche i modi della sua indubitabile animazione, ho come una sensazione di solitudine. Fu una fortuna sorretta dagli schiavi, e quando finì per la città iniziarono una chiusura e una sudditanza che, cambiando via via le forme, non hanno ancora fine. Ebbe però, la città, pure degli sfortunati difensori che caddero sotto il ferro dei Romani, dei Saraceni o di altri viriliter pugnando. Sarebbe stato meglio per lo spirito cittadino conservare i loro ricordi collettivi invece di quello dello smidollato Filonide, che oltraggiò con la propria urina gli ambasciatori romani quando la città già da tempo non si riteneva più in grado di difendere da sola la propria libertà. I due mari, da allora, furono solo per i pesci e per le rischiose funzioni militari a cui furono sottomessi durante i secoli, dal probabile "daar sarah", arsenale per i corsari arabi, all'odierna base navale del Pentagono. Così, mentre altre città di mare italiane poterono sperimentare forme repubblicane, i tarantini affrontarono una vita gravata da pesi altrui, cercando in qualche occasione di allentare le proprie catene. Ma dalla prima caduta della città greca tutti gli sforzi per risollevarsi furono vani; con la brevissima parentesi della ribellione ai Romani, quando si seppe loro infliggere una sconfitta sul mare e si fu poi persi da un tradimento.
Finalmente un pomeriggio mi avvio verso il lungomare. È una giornata grigia, non ci trovo nessuno. Sugli scogli vedo un airone che strofina il becco sulle penne. Più in là ecco le sagome scure di un paio di uccelli acquatici, che ogni tanto si tuffano e spariscono completamente per un tempo che mi pare lungo. Poi riemergono più in là. Quando guardo di nuovo gli scogli dove c'era l'airone non lo vedo più, e neppure in cielo; mi dispiace di aver perso il momento in cui ha spiccato il volo. Mi stupisce vedere questi uccelli, mi sembra che non facciano parte della logica che ora informa il lungomare: i rifiuti disseminati sulla scarpata, evidenti mentre scendo i gradini, la plastica sugli scogli.
Scendo ancora, tra due alberi grigio chiaro spogliati completamente dall'inverno, poi cammino vicino allo sciacquìo. Dappertutto i resti di attimi di trascuratezza dissennata e proteste di plastica rese dal mare. E, negli attimi in cui mi fermo sulle scale mi nasce una fantasia dove ci sono persone di mezz'età, i vestiti da pescatori, che si danno voce in dialetto, che scendono giù a raccogliere tutti quei resti abbandonati con gesti pregni del senso di necessità; e poi, dopo quella frazione di secondo che basta al sogno per mutare, ecco dei signori con cappotto, delle ragazze, dei ragazzini, chi con guanti, chi senza. La forza sposta il grosso, l'agilità si impadronisce del minuto. L'animo mi diventa inaspettatamente leggero, mi si affaccia il pensiero "sono tornati gli uomini". Poi la scena diventa estiva, con persone che escono dai palazzi del lungomare, in costume da bagno e col telo da mare sottobraccio, e scendono le scalinate per andare a bagnarsi. Qualche giorno dopo sento che il sindaco, con una squadra di volontari, ha ripulito la scarpata del lungomare. È un bel gesto, certo, ma non è il mio sogno. Il mio sogno è fatto di gente comune che volta pagina, anzi, che la pulisce.
Capita anche di incontrare un cembalista alto e biondo, che suona in strada melodie appassionanti, profondamente europee: si direbbe, a prima impressione, la malinconia vitale irlandese ben combinata con una serena, a tratti allegra, solarità italiana. Ogni tanto, mentre suona, dice agli ascoltatori: "Questo strumento si chiama cembalo". Spiega che è uno strumento di origine persiana, che è l'antenato del pianoforte, che fu portato in Europa dai crociati. Lui è generoso del suo sonare e ne ha piacere. Viene dagli "States".
Quando ho un po' di tempo preparo del pesce. Stupisco i pescivendoli evitandogli di pulirlo; al massimo, qualche volta lo faccio squamare. Mica può un discendente di pescatori rifiutare di far da sé. Ricordo che mio padre, dopo aver eviscerato il pesce da zuppa, recuperava il fegato e le eventuali uova, apriva e puliva lo stomaco e rimetteva in sede. Quale pescivendolo lo farebbe? Uno, giovane, che mi aveva pesato una pescatrice, mi ha domandato se sapevo pulirla. "Mica è difficile", ho risposto. "Ma tu la pelle la mangi?" L'ho guardato stupito e ho risposto: "Certo, perché?" Mi ha mostrato un esemplare spellato e decapitato. "Puveredde", ho commentato. Da allora mi ha sempre trattato con un rispetto particolare. I pescatori non preparerebbero mai così una pescatrice per la loro cucina: sanno che quella testa dalla bocca larga, irta di denti, ha più sapore del corpo – che non spellano. Ma molta gente ora vuole così. Le preparazioni tradizionali, insieme coi nomi dialettali dei pesci, lottano contro un nuovo sempre più insipido.
Egidio, arsenalotto, mi ha aiutato a sistemare l'illuminazione in cantina, ed è venuto portandomi un regalo per la casa: delle conchigliette in un piccolo contenitore pieno d'acqua. Lui è un po' artista e anche un po' bizzarro; le sue conchiglie rimangono a mollo diversi giorni nel loro contenitore. Poi, finalmente, ho un po' di tempo e le estraggo per guardarle, decidendo di tenermi le più belle. Le prendo a una a una e le dispongo ad asciugare sullo spazio di piano tra la cucina e il lavello. Sono pettini giacobei, conchiglie col dorso che si apre a ventaglio. Ma qual è la più bella? Non lo so decidere. Ce ne sono di bianche, un bianco lattiginoso, altre hanno sfumature di nuvola e di scoglio. La disposizione che hanno assunto sul piano mi piace, tanto che non riesco a scomporla. Dopo qualche giorno vado da un falegname, mi faccio tagliare una tavoletta e ve le incollo nella stessa disposizione. I ventagli sembrano ascendere lentamente come se una mano misteriosa li avesse aperti a uno a uno rendendoli, così, leggeri e mobili. Ci scrivo a matita "Alba dall'Arsenale". Quell'alba dietro il muro, sul Mare Piccolo, che non si può vedere.
In un primo pomeriggio di tramontana, col cielo rannuvolato, ridiscendo la scalinata del lungomare; passo tra la bella coppia di alberi grigi che commentano i colori di mare e cielo coi loro rami spogli. Qui, penso, non sono sceso mai con nessuna donna. Arrivo in fondo, scendo ancora, fino ai massi chiari sotto cui è stato sepolto il sottile lembo di spiaggia. L'acqua è miracolosamente limpida e avvolge delicatamente gli scogli in mare, gli scogli neri di residui catramosi che nessun flutto è riuscito finora a lavar via. Adesso sento anche il suono del mare, del suo possente respiro, non è più solo lo sciacquìo vicino agli scogli, e ascoltare qui questo rumore mi sorprende. Prima non lo sentivo; forse erano i colori del degrado a rendermi sordo. Tra i massi chiari scorgo una busta di plastica piena solo di vento; la afferro per riempirla di pezzi di polistirolo, resti di una cassetta dei pescatori – ora sono fatte così. Perfino batterie usate di auto sono state trovate qui dal sindaco e dalla sua squadra.
Sotto il polistirolo compare la solita siringa, ma anche la corazza di un granchio di sabbia, un murice sbiancato e forato da decenni di abbandono nelle onde – sous le pavé la plage .
Mentre risalgo, guardo lo spettacolo di quello che sarebbe potuto essere "il lungomare più bello d'Europa". Ora
... Troppo tardi
se vuoi esser te stessa! Dalla palma
tonfa il sorcio, il baleno è sulla miccia
Ricordo un signore anziano che si è avvicinato al gruppo, dov'ero, in strada per distribuire volantini e raccogliere firme contro il rigassificatore. Incurante dell'impazienza della moglie, che ha lasciato allontanare, lui ci ha accennato il suo ricordo della Taranto senza le grandi industrie. Qualcuno gli ha domandato se la città allora era bella, e ho ancora impressa la sua risposta muta, resa ruotando il capo e chiudendo gli occhi, per significare assoluta bellezza e assoluto rimpianto. Ma non ha voluto diffondere ricordi; ci ha raccontato invece di aver visto un nostro concittadino gettare per strada non ricordo che cosa, a poca distanza da un cassonetto. Al che aveva esclamato, disperato: "Non ge vogghie sta' cchiù a qua! Non ge voggie sta cchiù!" E si è sentito rispondere, da un altro passante: "Ah, non ge vuè sta'? E vatinne."
Guardo ora il mare dalla ringhiera. In fondo a destra lo sguardo si scontra con le strutture del siderurgico; laggiù a sinistra c'è la nuova base navale militare. Io faccio parte di quella metà di cittadini che gettano i rifiuti nei contenitori appositi. Ma quelli che li gettano in strada vogliono forse dirsi: "Io non sono qui." Io a volte mi protendo ancora verso la promessa di un futuro magico; a volte penso che non ne ho più.
Volgendomi al ritorno incontro mister Conaway, il cembalista, che cammina libero come una volta era l'aria, e mi saluta. "Che cosa le piace dell'Italia?" gli domando. Mi risponde che è tutto: i paesaggi, il clima, la lingua, la gente, il cibo. Il cibo è buonissimo, dice, gli ricorda sua madre italiana; il padre era di ceppo irlandese. Lui ha visitato l'Irlanda, la Francia e altri paesi europei, ma preferisce l'Italia, qui compone meglio. L'ho sentito ringraziare per ogni spicciolo fatto cadere nella custodia del cembalo. Negli Stati Uniti, invece, fa concerti. Gli mostro il contenuto della mia busta e gli dico che è un raccolto che ho fatto tra gli scogli. Lui guarda, fa un'espressione disgustata, poi mi augura buona fortuna. Gliene auguro anch'io.
Mi viene in mente che col gesto di riempire questa busta ho superato il dadaismo. "Il dadaismo ha liberato l'arte", mi diceva un bravo pittore, giovanissimo, "ora però dobbiamo uscire dal dadaismo." Quante volte ho riso dentro di me, ripensando a quella frase; significherebbe superare la trasgressione. Sono uscito dal dadaismo. Ma a chi lo dico?
Mentre scrivo sto ascoltando il dischetto di Conaway. Non si direbbe composto da uno così giovane. Mi piace proprio. Mi fa pensare che, tra coloro che non ho conosciuto, mancano anche quei forestieri che avrebbero fatto tutto ciò che avrebbero saputo per restare se la città fosse riuscita a mettersi in condizione di decidere le proprie sorti.
La traduzione è una delle attività che stimo di più. Far passare nella lingua che più si padroneggia parole ed emozioni che vivono in un'altra lingua, salvando così la biodiversità del pensiero. In italiano potrebbe dire Baudelaire:
Uomo libero, sempre ti piacerà il mare!
Il mare è il tuo specchio; vi contempli l'anima
sullo svolgersi infinito dell'onda,
e il tuo spirito non è abisso meno amaro.
I giornali riportano in spazi secondari notizie vitali. In mare finiscono inquinanti industriali che entrano nella catena alimentare. Sul fondo giacciono sostanze tossiche e radioattive, in contenitori che vanno degradandosi.
Ti piace tuffarti nella tua figura,
l'abbracci con lo sguardo, con le braccia, e il tuo cuore
si distrae un po' dal suo rumore
col rumore di quel lamento indomabile e selvaggio.
Nell'oceano esistono zone morte, ampie distese di plastica accumulata dalle correnti.
Siete entrambi tenebrosi e discreti:
uomo, nessuno ha sondato il fondo dei tuoi abissi;
nessuno, mare, conosce le tue ricchezze nascoste
tanto gelosamente custodite i vostri segreti.
Sott'acqua vagano sommergibili a propulsione nucleare;
Pure, non c'è misura del tempo
da cui vi combattete, senza pietà né rimorso,
in superficie, petroliere e metaniere.
talmente amate carneficina e morte,
o lottatori eterni, fratelli implacabili.
Ricordo che Daniele, quel compagno di scuola con cui bruciai dei rifiuti che trovammo sulla spiaggia, non voleva che sul fuoco mettessi la plastica. Diceva che era nocivo bruciarla. Ma non gli diedi retta, non sapeva spiegare perché, e poi la plastica era il rifiuto peggiore a vedersi.
Nei mari in cui, nel mio tempo da ragazzo, il mio pensiero spaziava sognando avventure ora naviga tra le angosce per le notizie sul loro stato. L'inverno è preoccupazione per il mare; d'estate potrò andare a mare per non pensare al mare.
Verso la primavera, in un pomeriggio tiepido, i nipoti scendono con me sotto il lungomare, tentano di far rimbalzare piccoli sassi piatti sulla superficie dell'acqua. Poi risaliamo e corrono sullo spazio della Rotonda, e mi parlano di future nuotate.
Dal lungomare, in una domenica che inizia con una mattina di brezza, osservo un mare limpidissimo; il piccolo slargo di sabbia verso la zona dei palazzi è quasi del tutto pulito. Si riaffacciano i ricordi della mia adolescenza, quando guardavo il mare dalla zona vicino a Chiàpparo, dov'è ora la nuova base militare marittima. Mi afferra una sensazione intensa, insieme familiare e sorprendente. Celeste e cristallino, e mobile d'un movimento ampio, abbracciante, animato da infinite sue scaglie scintillanti sotto il cielo terso, il mare oggi è bellissimo, di una bellezza che da qui non ricordo di aver mai veduto, una bellezza che fa male. Qualche topo pare affaccendarsi, qualche altro guarda il cielo.

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