Taranto, una città che non vede il cielo
Il rischio cancro è moltiplicato dall'inquinamento
Il rischio cancro è moltiplicato dall'inquinamento
Tiranneggiato dai 220 metri di altezza (il doppio del Duomo di Milano) del camino E-312 o «testa del drago», l'immane agglomerato dell'acciaieria Ilva - gli altri 214 camini, gli altiforni, le cokerie, la discarica detta «Mater Gratiae», le montagne di polvere ferrosa dei «parchi minerali» - sembra strangolare, quasi fagocitare l'intera città di Taranto. Sintesi di questo amplesso forzato, il vicino quartiere Tamburi, protetto in teoria dalle «collinette ecologiche» e invece sottoposto a una mostrificazione cromatica: i muri rosso-ruggine, le lenzuola nere ai balconi, il cimitero ruggine e nero insieme, coi becchini che a fine giornata devono lavarsi come gli operai dell'acciaieria. Una simile alterazione è il segno di un inquinamento chimico (benzoapirene, mercurio, soprattutto il più alto tasso europeo di diossina) di cui l'Ilva è l'attore principale, «comprimari» il cementificio Cementir, la raffineria Eni, l'inceneritore di Massafra. Un inquinamento che test genotossici hanno ricondotto a co-fattore ambientale nell'aumento del 30 per cento di neoplasie cittadine negli ultimi anni. Indagando sulla Città delle nuvole (Edizioni Ambiente, pp. 160, Euro 14, titolo allusivo a un cielo ormai perennemente opacizzato), Carlo Vulpio ci offre un libro-inchiesta che sembra scritto da un allievo di Zola e di Gogol: di Zola per la visionarietà costante che accompagna il realismo duro della denuncia, di Gogol per gli aspetti surreali e grotteschi di tanta malapolitica e malasanità. Per un verso, vediamo così emergere i nessi causali tra un percorso molto italiano di storia industriale («quello che va bene per l'Italsider - si diceva a proposito dell' antefatto dell'Ilva - va bene per Taranto») e le sequenze dei drammi attuali, non solo al quartiere Tamburi: allevatori che devono sterminare migliaia di pecore «contaminate»; donne che non possono allattare i figli per il tasso di diossina nel sangue; bambini col carcinoma rinofaringeo come fossero fumatori adulti. Drammi biologici a cui se ne aggiungono di strettamente «psichici»: scioccante la zoomata sul capannone-lager dell'Ilva, dove un management sadico ha concentrato i dipendenti «degradati», facendone - come ha registrato una psichiatra - degli ebeti vaganti, soggetti psicotici ora aggressivi ora gravemente depressi. Per un altro - ecco i toni gogoliani - vediamo come le responsabilità imprenditoriali e quelle politiche, a livello locale e nazionale, abbiano prodotto patafisici conflitti di interessi (il dottor Nicola Virtù, capo del Presidio di prevenzione dei controlli e presidente dell' Imcor, fornitrice dell'Ilva), crudeli paradossi (l'ospedale Testa, fondato come «colonia elioterapica» per la Tbc, chiuso per le polveri silicee e ora sede dell' Asl) e repressioni strabiche (sequestri di auto senza marmitta catalitica e ispezioni omissive nelle fabbriche). Chi pensasse, però, al libro di Vulpio come a un concentrato di nostalgia anti-industrialista sbaglierebbe. Anzi: uno dei ritornelli consiste proprio nell' invocazione di standard «europei» nelle emissioni e soprattutto di tecnologie meno obsolete a tutela di mansioni suicide: vedi gli operai del «piano coperchi», che inalano - secondo un' indagine chimica disposta dalla procura - l' equivalente di 7.278 sigarette al giorno. E pensare che per «modernizzare» l'acciaieria basterebbero 100 milioni di euro, il 5 per cento degli utili di due anni. La domanda brutale del libro è allora chiara. Se gli imprenditori agitano il ricatto dello spettro-disoccupazione e i politici (ma anche i sindacati e un'inerte società civile) li assecondano passivamente, ne dobbiamo concludere che la sicurezza e la salute sul lavoro siano degli optional? O meglio, dobbiamo rassegnarci al fatto che la vita dei lavoratori sia solo una variabile della produttività? Che «i morti che camminano» siano la condizione inevitabile di un sistema senza alternative?
Una precisazione di Peacelink:
Sull'eccellente elzeviro di Sandro Modeo dal titolo "Taranto, una città che non vede il cielo" (pag. 41 di Corsera di sabato 11 luglio 2009) ci sia consentita una precisazione, piccola ma molto importante per quanti a Taranto sono da sempre "in trincea" ed hanno vissuto direttamente anche le vicende narrate nel bellissimo libro di Carlo Vulpio "La città delle nuvole". Una parte importante della società civile di Taranto non è stata e non è inerte: il mondo delle associazioni e dei comitati cittadini ha fatto analisi, ha presentato denunce, ha sollecitato le autorità locali e nazionali, ha scosso l'opinione pubblica locale e regionale ed ha interessato i media nazionali sull'enorme problema dell'inquinamento di origine industriale che ha compromesso e continua a compromettere l'aria, l'acqua ed il terreno di Taranto. Carlo Vulpio l'ha incontrato questo piccolo mondo e nel suo libro ne ha ricosciuto l'impegno e la spinta decisiva. Il culmine della presenza di questa importante parte della società civile di Taranto contro l'inquinamento ambientale è stato raggiunto da "ALTA MAREA contro l'inquinamento" nella "Marcia dei 20.000 del 29 novembre 2008" nella quale i tarantini hanno reclamato il diritto di vivere in una città meno inquinata. Questa parte importante della società civile di Taranto è ancora più attiva nella difesa della salute e del futuro di tutta la città e soprattutto dei suoi bambini.Per PeaceLink
Alessandro Marescotti - presidente nazionale
Biagio De Marzo - portavoce nodo di Taranto
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