giovedì 27 ottobre 2011

Eccola là, ogni tanto rispunta l'inchiesta. Poi?

Il reportage - INCHIESTA SUL PIÙ GRANDE CENTRO SIDERURGICO D’EUROPA
Taranto si protegge dai veleni dell’Ilva. La rivolta contro l’inquinamento da diossina ha dato i primi frutti. Ma la città chiede ulteriori iniziative

Cinquant’anni e poco più del centro siderurgico Ilva possono bastare per tracciare un bilancio e parlare del suo rapporto con la città di Taranto. Del resto, spesso e volentieri, nei bar e nella centralissima via D’Aquino, il corso dello struscio tarantino, non si parla che di lei, dell’Ilva, quasi fosse una donna di facili costumi. Sulla bocca di tutti. E che, secondo un report della Banca d’Italia del 2008, costituirebbe il 75% del Pil di Taranto e della sua provincia. E allora, una prima forte risposta la città, all’acciaieria in casa, la doveva dare. E l’ha data con due marce di protesta, sommando quella del 2008 e del 2009: 40 mila uomini in corteo contro il polo siderurgico. Stesso numero della mitica marcia dei colletti bianchi della Fiat nel 1980. E i numeri, si sa, non tradiscono mai.
A proposito, all’interno del più grande centro siderurgico d’Europa ci lavorano 11.500 operai, più di mille impiegati e tremila anime nell’indotto. Certo, l’errore, per usare un eufemismo che agli ambientalisti farebbe tornare il buonumore, fu quello di costruirla a ridosso di un quartiere della città, i Tamburi. Ma il tempo aiuta ad analizzare i problemi da diversi punti di vista. «Per decenni Taranto ha sopportato l’insopportabile, subendo lo stabilimento. Ora, a seguito di una maggiore sensibilità delle istituzioni, l’Ilva ha cominciato ad occuparsi di problematiche ambientali; del resto, per farlo, la legge 59 del ’95 costringeva anche il polo siderurgico a dotarsi delle migliori tecniche disponibili». Giorgio Assennato - direttore dell’Arpa pugliese - tra i più validi esperti di questioni ambientali, non è tipo da credere agli slogan o alle contestazioni tout court che non portano da nessuna parte. Sul rapporto tra Ilva e città, la pensa così: «L’unica forma di dialogo può avvenire su basi tecnico-scientifiche». Ma cosa è cambiato in questi ultimi anni? Bene, subito una sorpresa: un piccolo mea culpa da parte del gruppo Ilva. «Possiamo affermarlo senza problemi: siamo stati in silenzio, non abbiamo raccontato ciò che avveniva in questi anni all’interno dell’azienda, ma non appena ci siamo aperti, non è che dall’altra parte l’accoglienza sia stata così calorosa», osservano dalle relazioni esterne. Sul tavolo molte le novità, come questa: «Vogliamo essere un modello di ecocompatibilità». E se non fosse per il gioco di parole, potremmo aggiungere: compatibilmente con la diossina. «L’8,8% dell’inquinamento europeo da diossina proviene dall’Ilva di Taranto»: dai titoloni sparati nella primavera del 2005. E oggi che accade? «Beh, grazie alle due marce storiche della città, siamo riusciti a far approvare dalla regione Puglia l’abbassamento della soglia di diossina fino a 0,4 milligrammi al metro cubo», ricorda Leo Corvace, storico rappresentante di Legambiente della provincia tarantina.
Bisogna ammetterlo, però: al di là del muro, tra camini e nastri trasportatori, si è lavorato parecchio. «Sono stati spesi 4,4 miliardi di euro per migliorare gli impianti di produzione, e di questi, il 25% solo per la compatibilità ambientale. Per le emissioni di diossina, per esempio, siamo riusciti ad arrivare, in un anno e mezzo, da 2,5 a 0,4 nanogrammi al metro cubo», ricorda Adolfo Buffo, responsabile per le politiche di qualità, ambiente e sicurezza dell’Ilva. Ci sarà lui, nella seconda metà di novembre, ad illustrare alla città il terzo rapporto ambiente e sicurezza made in Ilva. «Certo, c’è stato qualche piccolo problema, all’inizio del 2011, con fuoriuscite dello 0,7 ma ci stiamo lavorando». Così come sarebbe alle porte quel referendum consultivo, pensato da Taranto Futura, nel quale verrà chiesto alla città se vuole cancellarla del tutto, l’Ilva. «È chiaro che proposte di questo tipo destabilizzano e confondono», osserva ancora Buffo, il quale fa notare quanto iniziative come quelle di «Porte aperte all’Ilva», del progetto «A scuola senza zaino», o della chiesa restaurata nel quartiere Tamburi ricostruiscano i rapporti col territorio. Il dubbio: ma un’azienda da sei miliardi di euro di fatturato come mai non riesce ad utilizzare una piccola somma per costruire un teatro comunale, un centro polifunzionale, qualcosa
che dia lustro alla città? La risposta è in altre piccole cose fatte, anche se il cambio di passo dovrebbe essere annunciato dall’Ilva molto presto. Al massimo le basterebbe sapere se è vero che, stando ai rilevamenti di metà ottobre 2011, è stato sforato il limite annuo delle polveri sottili nel quartiere Tamburi ossia quelle più vicine all’Ilva. «Siamo a 40 superamenti del limite di legge in via Machiavelli e 37 in via Archimede, quando la normativa ne ammette massimo 35 ihttp://www.blogger.com/img/blank.gifn un anno», dice Alessandro Marescotti, ambientalista e presidente di Peacelink, uno di quei tarantini a cui non dispiacerebbe mettersi intorno a un tavolo e discutere di Ilva, città e ambiente. (CdM)

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