giovedì 27 ottobre 2011

Beh, beh. Non esageriamo...

E dal pianeta Marta parte la rinascita culturale
Il Museo nazionale archeologico è diventato la calamita per turisti e appassionati di tutto il mondo

«La città che vogliamo», per usare uno slogan di una kermesse locale, a Taranto l’hanno capito quale potrebbe essere. Buttatisi idealmente alle spalle l’impianto siderurgico Ilva, l’Arsenale, oltre ad una serie di industrie che ormai hanno raggiunto il massimo di sopportazione dialettica, si avverte una palpabile voglia di rinascita culturale. Pronta a ripartire dall’asse via Duomo, che spacca in due la città vecchia, l’ex acropoli di una realtà che è stata capitale della Magna Grecia, prima di trovarsi a fare i conti con un Borgo - la «città nuova» - nato con l’Unità d’Italia. In mezzo, con il ponte girevole, il Castello Aragonese, avamposto militare e oggi nella nuova versione di acchiappaturisti del simbolo culturale della città, il Marta (da pronunciare con l’accento sulla a finale): il Museo nazionale archeologico. «Ma sarebbe da pazzi farsi la guerra, dopo decenni di buio totale nei cunicoli della cultura». E dicendolo, l’ammiraglio Francesco Ricci, anconetano innamoratosi di Taranto, fuoriesce proprio da uno dei mille cunicoli del Castello. Qui si continua a scavare, sotto la supervisione della sovrintendenza dei Beni architettonici, per un museo a cielo aperto, visitabile notte e giorno grazie ai marinai- guide turistiche. L’arte d’arrangiarsi fa miracoli: dall’inizio dei lavori, nel 2003, ad oggi, ci sono stati quasi 180mila visitatori, stesso numero degli abitanti di Taranto. L’estate scorsa è stato superato il Marta ed un po’ di sale sulla coda è arrivato perfino a Castel del Monte, il sito più visitato della Puglia. «Quest’anno abbiamo avuto 52 mila turisti, a casa di Federico II saranno stati qualcosina in più…», racconta, sorridendo, l’ammiraglio, il cui chiodo fisso resta la ricerca dei fondi: «C’era da pagare l’archeologo Federico Giletti, che è riuscito, aiutato da un team di ragazzi laureatisi in Beni culturali, qui a Taranto, ad individuare il blocco di pietra di carparo su cui è stato costruito il castello, oltre alla scoperta delle mura d’accesso per l’acropoli». Come dire, ci sono sotto i piedi tremila anni di storia e non si riesce a trovare un’anima pia tra gli imprenditori? Più di qualcuno ha invece riposto all’appello, come Franco Marangi - presidente del consorzio Interfidi - il quale ha garantito un altro anno di ricerche. Ma se il restauro del secondo piano dell’edificio militare, nato su progetto di Francesco di Giorgio Martini, porterà alla creazione di un museo dedicato al periodo medievale, l’arte classica che si respira, entrati al Marta, resta qualcosa di unico. Gli ori di Taranto o il sarcofago dell’atleta, per citare due pezzi forti, farebbero la fortuna di qualsiasi città nel mondo. Taranto ha i suoi tempi, dettati anche dalla riapertura del museo nel 2007, dopo dieci anni di chiusura. «Ma tra prestiti e mostre all’estero, non ci siamo fermati», ricorda Antonietta Dell’Aglio, direttrice del Marta. Nel 2010, il Cratere con Dioniso e menadi danzanti, del V secolo a. C., è stato richiesto dal Getty Museum di Malibu; così come il diadema in oro e smalti e l’orecchino a navicella in oro, all’Expo di Shangai hanno brillato davanti a 40mila visitatori al giorno. E per l’Expo di Milano? «Beh, il tema dell’alimentazione farebbe al caso nostro, esponendo tutta una serie di piatti di terra sigillata del IV secolo, o le anfore a staffa del periodo miceneo», osserva Dell’Aglio. Ma la partita si gioca fra Berlino e la Città dei due mari, dopo una guerra dei cent’anni prossima ad una svolta: la restituzione virtuale della Persefone del Pergamum Museum. «Scoperta a Taranto, fu subito portata a Berlino nel 1912; ma per il prossimo anno dovremmo averne una copia in polvere di marmo». Scippati e derubati i tarantini, nel corso dei secoli, anche dalla Chiesa, con qualche piccola eccezione. Vedi l’arcivescovo di Taranto, Lelio Brancaccio, che alla fine del Cinquecento fu quasi un «profeta amaro», come lo definisce Piero Massafra, fondatore, 25 anni fa, della casa editrice Scorpione. «Abbiamo pubblicato tutto il pubblicabile su Taranto, accompagnandola pagina dopo pagina, ma ho l’impressione che non tutti abbiamo compreso che il museo, così come il castello o altri poli culturali, non appartengono a un ente in particolare ma alla stessa città», dice Massafra, teorizzando una rete di impresa culturale. Della quale farebbe parte il Museo diocesano di arte sacra, nel cuore della città vecchia, inaugurato cinque mesi fa. Vi sono conservati mille anni di storia religiosa: dal tesoro del santo patrono Cataldo, alla sezione dedicata alle missioni pastorali dei vescovi. Confessa don Francesco Simone, direttore del Mudi: «Vorremmo che il museo si
Il Castello Aragonese visto da corso Due Mari
aprisse alla città, con mostre temporanee ed eventi: probabilmente il prossimo anno avremo qui il festival di Paisiello». Già, un appuntamento seguitissimo dai giovani, svoltosi nell’ex convento San Francesco, in via Duomo, sede dell’università. Si ritorna sempre lì, nell’acropoli, ma anche nella Taranto più recente, dove, sotto i palazzi anni 70, se scavi, trovi tombe a camera e cinte murarie. Solo che qui, in attesa di fare sistema, si spazza il superfluo con scopa e paletta: due settimane fa, i giovani di Ammazza che piazza, gruppo Facebook, hanno festeggiato e ballato sulle pietre di Archita.

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