giovedì 8 luglio 2010

Compleanno o trigesimo?

50° compleanno dell'Ilva, ma Taranto non festeggia
I retroscena di 50 anni fa: Napolitano grande sponsor


«Sono stato assunto il primo settembre del 1960, cartellino numero sette, in ordine alfabetico. Provenivo dai cantieri navali. In 15 siamo partiti per Cornegliano per la formazione. Poi sono arrivati gli altri e in 40 dovevamo partire per gli Stati Uniti per addestrarci nel laminatoio di una fabbrica nell’Utah, ma io rimasi a casa, sapevano che ero del sindacato. La grande fabbrica apriva orizzonti, cambiava la storia, come si diceva». Cosimo D’Andria, 76 anni, ex operaio Ilva, dirigente sindacale della Cisl, è un testimone di 50 anni (la prima pietra fu posta il 9 luglio 1960).
«C’era un clima di festa, eravamo orgogliosi di far parte di un progetto», ricorda. «Eravamo tanto poveri che la fabbrica l’avremmo costruita anche in piazza della Vittoria» rivelò qualche anno fa, prima di morire, Angelo Monfredi, all’epoca sindaco di Taranto.
Piazza della Vittoria è il salotto della città, a pochi passi dal ponte girevole, circondata dai palazzi di fine Ottocento. Invece, il quarto centro siderurgico a ciclo integrale, che con il raddoppio doveva diventare il più grande d’Europa, fu realizzato tra gli ulivi e i vigneti a Nord della città, oltre il Mar Piccolo e con una parte degli impianti sul Mar Grande, con l’attracco per le navi che trasportano materiali ferrosi e carbon fossile. Cinque altiforni, tra i quali l’Afo5, tra i più alti al mondo, due laminatoi, due treni nastri, in un’area di 15 chilometri quadri, due volte e mezzo la città, attaccati al rione Tamburi.
Giuseppe Carucci, 36 anni, quattro figli (due gemelli nati ieri), perito elettrotecnico, 13 anni in Ilva, assunto con la gestione Riva : «Lavoro al treno nastri uno, dove le bramme diventano rotoli di acciaio destinati all’industria automobilista. All’inizio ero disorientato: tutto era enorme, alle prese con macchine mai viste. Poi la tua vita cambia, entra nelle macchine e queste penetrano nella tua esistenza. Fai parte del ciclo vitale della fabbrica, malgrado la fatica pensi insieme ai suoi ingranaggi e ai suoi ritmi. Anzi, fai di tutto per aumentarli questi ritmi. Di questa energia Taranto ha bisogno».
Oggi l’Ilva funziona al 50 per cento, con tre altiforni, un laminatoio e un treno nastri. Da 18 mesi c’è la recessione. Dei 12mila operai diretti e dei 5mila dell’indotto, la metà è in cassa integrazione. Taranto è in simbiosi con la siderurgia. Più che con l’Arsenale, con i cantieri navali e le altre fabbriche. Una simbiosi, però, da separati in casa, che si disarticola in un rapporto di amore e odio. Amore perché dà lavoro a migliaia di persone (nel 1982, il record di 29.459), odio per i guasti ambientali e i danni alla salute, a causa delle emissioni di metalli pesanti, polveri sottili, diossina e altro ancora.
D’Andria e Carucci sono portatori di due visioni distanti. Due idee di fabbrica opposte. D’Andria e la sua generazione parlano della classe operaia che dal ‘68 determinò molte riforme, dallo statuto dei lavoratori alla riforma sanitaria. Il siderurgico, non solo come luogo di lavoro, ma di cambiamento della società. Una classe capace di egemonia che eleggeva sindaci e parlamentari, sia nella Dc che nel Pci, e promotrice di solidarietà. Walter Tobagi, il giornalista ucciso dalle Brigate Rosse, nel 1979 venne a Taranto e scrisse un articolo per il Corriere della Sera sui «metalmezzadri» e sul fondo sociale con il quale si comprarono i pullman per i pendolari. Un vecchio mondo venuto meno.
«Ciascuno pensa a se stesso», dice invece Carucci. «Il nostro pensiero è alla rata del mutuo per la casa, alle bollette, all’auto, alla famiglia». In fabbrica si lavora e basta. Non c’è la classe operaia. Forse non ci sono neanche gli operai. Tutto evaporato, dai partiti ridotti a comitati elettorali ai sindacati e alle organizzazioni collettive.
Taranto, in cuor suo, vorrebbe superare la siderurgia, o almeno ridurne la dimensione. Ma ci vorrebbero idee e progetti, risorse culturali e tecnologiche. Cose che latitano, con la classe politica post- dissesto finanziario costretta al basso profilo. In alternativa, valgono le scarne parole di Giuse Alemanno, operaio-scrittore della grande officina: «Qui lavorano più di 11mila persone. E’ una verità insopprimibile. Occorre ridurre l’inquinamento e migliorare la fabbrica. Il resto è fantasia». (GdM)

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