domenica 13 ottobre 2013

Opinioni di un ibrido

Le Repubblica in brodo di giuggiole per l'elogio del cerchiobottismo medioborghese.
A prescindere dalle ragioni dell'Autore.
L'articolo sottolinea tutto quello che piace al popolo degli aperitivi!
Se poi, è metà operaio e metà giornalista...
E' un idolo! 

L’Ilva una, nessuna e centomila di Giuse Alemanno


Per Giuse Alemanno l’Ilva non esiste. O meglio, ce ne sono mille, non una sola.  E comunque la sposterebbe. Ma non più in qua o più in là, non in Tunisia, in Ucraina o in Groenlandia. La solleverei sopra le nuvole, dove finisce lo sbuffo più alto dello slopping velenoso delle ciminiere. E qui è l’operaio dell’acciaieria che scrive. L’Ilva comincerebbe da lassù, in un luogo dove l’acciaio ha la stessa consistenza dei sogni, dove buongiorno vuol dire davvero buongiorno, dove gli operai andranno a lavorare volando sulle scope rubate ai netturbini. E qui è lo scrittore che parla. Vorremmo vederli i metalmeccanici del siderurgico, strappare le saggine agli spazzini (valli a trovare) e cavalcarle per decollare verso il cielo, in una versione tutta tarantina  del “Miracolo a Milano” di Vittorio De Sica. In volo, per raggiungere gli altoforni, non la felicità. In un luogo non ammorbato dai parchi minerali, però, ma nel quale il minerale si muove senza disperdere nemmeno un granello di polvere nell’ambiente, le cokerie danzano nello spazio, tutti i macchinari servono a far giocare i bambini, cui sono negati i giardini di Taranto. E gli operai sono soltanto uomini liberi. Sì, Giuse Alemanno, cinquantadue anni a febbraio, da Copertino (ma staziona a Manduria) è un dipendente Riva Acciai da metà 2000, ma prima è stato disoccupato e da qualche tempo è giornalista – vicedirettore de “La Voce del Popolo” – da non poco anche autore di romanzi e testi che raccontano l’azienda, i lavoratori, il nodo Taranto, da un punto di vista originale. Ora, con “Io e l’Ilva. Monologo metalmeccanico” (Lupo Editore, luglio 2013, 54 pag. 5 euro) ritorna a raccontare la fabbrica, allargando la prospettiva di “Invisibili. Vivere e morire all’Ilva di Taranto”, pubblicato nel 2011 in coppia con Fulvio Colucci.
Vedete, i ruoli si sono confusi, scrive – anche in inglese, perché la seconda metà di “Io e l’Ilva” è la traduzione del breve testo nella lingua internazionale – un operaio che parla come uno scrittore, uno scrittore che si incazza come un operaio. Il fatto è che uno scrittore non è che un osservatore: io mi sono messo ad osservarla la fabbrica, a raccontarla. Perché un uomo che racconta una storia è lo spettacolo più vero che possa esistere. La racconta ad altri, che la racconteranno ad altri e questi ad altri ancora.
Il Giuse scrittore invoca spiritosamente e fin troppo ripetutamente (C’è mica uno psichiatra in sala?) una terapia di cui non necessita affatto. L’Alemanno operaio ha le idee chiare: i lavoratori sono complementari alla fabbrica e l’Ilva è complementare ai suoi operai, gli uni non esisterebbero senza l’altra. Questo matrimonio inscindibile non può andare a vantaggio solo di una parte.
Certo, l’azienda inquina, ma sia per lo scrittore che per l’operaio la città ionica non deve sconfessare la tradizione industriale che la distingue, che l’ha cambiata, l’ha guastata, ma che la fa anche essere la Taranto che è. Senza sarebbe irrimediabilmente perduta. L’obiettivo è farla vivere industrialmente secondo leggi che portano all’ambientalizzazione della produzione.
Autocriticamente, riconosce che i lavoratori dell’Ilva sono strenui partigiani dei cazzi loro, ma prende le distanze dalla legione di ottusi oppositori della fabbrica, che non rischiando una briciola sarebbero pronti a chiudere, smantellare, sigillare l’Ilva di Taranto, con uno schiocco di dita. Pensatela come volete, dice ai lettori: tra i compiti della mia vita non c’è quello di convincere che le mie opinioni siano giuste. Solo invitare a ragionare, su quello che è successo al nostro territorio. (Rep)

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