martedì 1 ottobre 2013

Colpevoli, ora stanno al fresco di casa

“I fiduciari hanno inquinato, ma non dovevano andare in carcere”

Parziale insussistenza delle esigenze cautelari per Enrico Bessone, Agostino Pastorino, Giovanni Rebaioli e Alfredo Ceriani, totale per Lanfranco Legnani, ex “direttore ombra” dell’Ilva di Taranto. In tre diversi provvedimenti depositati ieri mattina, il tribunale del riesame di Taranto ha spiegato i motivi per i quali Legnani non andava arrestato e gli altri quattro fiduciari di Riva non dovevano essere sottoposti alla custodia cautelare in carcere ma ai domiciliari, misura ritenuta sufficiente per garantire le esigenze cautelari.
Il collegio della Prima sezione penale (presidente Paola Incalza, a latere Filippo Di Todaro e giudice relatore Benedetto Ruberto) ha confermato la presenza dei gravi indizi nell’ipotizzato disastro ambientale a carico dei cinque. Secondo il riesame, nel provvedimento restrittivo eseguito dalla Guardia di Finanza il 6 settembre scorso, il gip Patrizia Todisco ha “correttamente esposto, con dovizia di particolari, gli elementi emersi a carico dei cinque indagati”. Il quadro indiziario non è stato scalfito dai colpi dei difensori (fra i quali figurano gli avvocati Egidio Albanese e Franz Pesare). Al contrario, i legali sono riusciti ad ottenere un pronunciamento favorevole (in un caso totalmente, negli altri parzialmente) sulle esigenze cautelari.
Riguardo a Legnani, “le indagini – si legge nelle motivazioni – hanno dimostrato che ha agito quanto meno sino al 2009 quale direttore ombra dello stabilimento Ilva di Taranto”, come emerso dalle sommarie informazioni acquisite da alcuni dipendenti della fabbrica e dalla data di risoluzione del contratto con la Riva Fire spa (il 1° ottobre 2009). Inoltre, dal 2008 al 2010 ha fatto parte di un pool di vigilanza istituito dall’Ilva “assumendo dunque – essendo direttore di fatto dello stabilimento – il duplice ruolo di controllore e controllato”. Quindi, i reati di inquinamento ambientale contestati ai Riva e a Capogrosso, secondo i tre giudici, vanno attribuiti anche a Legnani in quanto “non si è limitato ad una mera ingerenza nell’attività di direzione o al compimento di specifici atti di gestione, essendo invece evidente, dalla durevole attività svolta, relativa a tutte le problematiche inerenti lo specifico settore di competenza (non escluso il controllo del lavoro dei dipendenti), l’assunzione, non occasionale e con atti di significativo rilievo, delle attribuzioni che costituiscono il profilo contenutistico essenziale della qualifica di responsabile di una specifica area del siderurgico”.
Pur confermando la presenza dei gravi indizi, secondo il collegio, l’ordinanza del gip “va riformata sotto il profilo delle esigenze cautelari accogliendo le eccezioni della difesa”. Esigenze ritenute inesistenti per Legnani (i pm avevano chiesto la custodia carceraria), ai domiciliari il 6 settembre, messo in libertà martedì scorso dal riesame e parzialmente sussistenti per Ceriani, Bessone, Pastorino e Rebaioli. Infatti, lunedì scorso sono stati scarcerati ma sottoposti ai domiciliari.
Nelle motivazioni, giudici spiegano di non ritenere attuali e concreti i requisiti del pericolo di fuga, in quanto col loro comportamento hanno dimostrato di non volersi sottrarre alla giustizia: “Pur avendo a disposizione notevoli disponibilità economiche e pur sapendo di poter essere potenzialmente indagati non hanno lasciato il territorio nazionale e si sono messi a disposizione dell’autorità giudiziaria ai fini dell’esecuzione dell’ordinanza applicativa della custodia cautelare“.
Nulla è emerso dalle indagini, osserva il riesame, anche in ordine al rischio di inquinamento probatorio e alla capacità (contestata ai vertici Ilva) di avvicinare persone a fini di subornazione. Il riferimento è alla vicenda Liberti della quale, ritiene il tribunale, i fiduciari potevano essere a conoscenza ma una partecipazione, alla luce delle indagini, viene esclusa. Legnani in particolare aveva chiuso il suo rapporto con l’Ilva l’8 febbraio 2010, quindi prima dell’incontro fra il pr Archinà e il professore (avvenuto il mese successivo).
Infine, il riesame ritiene sia da escludere soltanto nei confronti di Legnani il rischio di reiterazione del reato in quanto, cessato il rapporto con l’Ilva, nello stabilimento non è più stata trovata traccia della sua presenza, come non c’è traccia di contatti con gli indagati nelle intercettazioni, e, evidentemente anche per ragioni anagrafiche, non ha più svolto consulenze analoghe.
Al contrario, per gli altri indagati, si profila “con solidità e concretezza, il pericolo che, lasciati in libertà, reiterino analoghi fatti delittuosi”. Il rischio di recidiva resta malgrado abbiano smesso di collaborare con l’Ilva, poichè, è la tesi del riesame, potrebbero svolgere la loro attività lavorativa in altre realtà industriali e “reiterare analoghe fattispecie delittuose, avendo dimostrato totale indifferenza rispetto alla legge”.
Il cosiddetto “governo ombra” è stato definito spesso “occulto”, pur essendo noto a dipendenti e sindacalisti (alcuni dei quali lamentavano vessazioni). Una definizione che il riesame ritiene corretta, malgrado le argomentazioni dei difensori (“la presenza dei fiduciari era nota a tutti”) in considerazione della “natura meramente fittizia del rapporto contrattuale” il cui fine era quello di “dissimulare la reale finalità della loro presenza nel siderurgico, ossia sovrintendere alla gestione dello stabilimento, impartire le disposizioni da adottare al suo interno, verificare che la condotta dei dipendenti fosse conforme alle logiche aziendali”. I fiduciari indagati, è la conclusione dei giudici, “erano i veri responsabili, verso la proprietà, della conduzione degli impianti”. (A. Latartara - Corgiorno)

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