sabato 20 luglio 2013

Uniti nel destino

Ilva, Piombino chiama Taranto

Piombino chiama Taranto. O meglio: Lucchini chiama l’Ilva. Tramite lo Stato. Quanto riportammo lo scorso mese, trova conferma nella lettera che il sindaco di Piombino, Gianni Anselmi, ha inviato al premier Enrico Letta, per richiedere un intervento urgente di fronte al nuovo paventato stop dell’altoforno Lucchini. L’idea venne fuori in un convegno organizzato da Fim, Fiom e Uilm a Roma lo scorso 24 giugno, dal titolo “Per una siderurgia ecosostenibile e competitiva”, durante il quale il sottosegretario allo Sviluppo Economico, Claudio De Vincenti, avrebbe svelato il lavoro sotto traccia in atto da parte del Governo per salvare le due realtà industriali, legandole tra loro. A precisa domanda, De Vincenti rispose che il Governo stava lavorando per verificare le possibili condizioni di eventuali sinergie fra Taranto e Piombino e che quando si sarebbe avuto uno scenario chiaro, avrebbe convocato i commissari straordinari delle due aziende per discutere le strade da seguire.
L’incontro, però, non è stato ancora convocato. Ma la situazione della Lucchini di Piombino è nuovamente ad un passo dalla chiusura dell’altoforno. Il commissario straordinario Nardi ha infatti confermato lo scorso 15 luglio che l’azienda è giunta “stremata” all’amministrazione straordinaria, e con limitate possibilità di intervento dopo aver bruciato in quattro anni 800 milioni di euro (circa 16 milioni di euro al mese, con un leggero decremento delle perdite negli ultimi mesi), e quindi si è tornati praticamente al punto di partenza. A partire dall’inizio della crisi dell’ottobre 2008 fino al 21 dicembre dello scorso anno, la Lucchini ha ridotto le vendite di laminati da 1,5 milioni di tonnellate a meno di 1 milione ed ha azzerato le vendite di bramme (allora pari a 400 mila tonnellate), azzerato il patrimonio netto a fine 2012, partendo dai 970 milioni dell’ottobre 2008, tagliato tutti gli investimenti strategici, limitandosi a quelli per manutenzioni, sicurezza e ambiente.
Ora. L’accordo commerciale al quale si starebbe lavorando, come anticipammo lo scorso mese, prevede la fornitura all’Ilva di Taranto di bramme prodotte a Piombino: il vero problema però, è che senza un intervento immediato del governo, la Lucchini si ritroverebbe a non avere la liquidità necessaria per acquistare le materie prime dall’Ilva. Un accordo “strano”, visto che l’Ilva compra dall’estero il minerale che le serve per la produzione di bramme che la rende largamente autosufficiente. In pratica, più che di un accordo, si tratterebbe di un “regalo” per tenere in vita una fabbrica che altrimenti chiuderebbe i battenti. Perché altrimenti non avrebbe alcun senso, per l’Ilva, comprare dall’estero materie prime, venderle alla Lucchini affinché quest’ultima possa produrre le bramme che terrebbero in vita un altoforno il cui ciclo vita pare finirà comunque a settembre, per poi acquistare dalla Lucchini semilavorati prodotti con il minerale da essa acquistato e che potrebbe tranquillamente produrre a Taranto: più che un accordo, pare un vero e proprio paradosso industriale.
Sino ad oggi del resto, non c’è stata una sola manifestazione di interesse per acquisire lo stabilimento di Piombino con il suo ciclo integrale. Il commissario Piero Nardi ha posticipato la presentazione del piano di programma (entro il 15 settembre), ma nell’ultimo incontro al ministero dello Sviluppo Economico ha spiegato le quattro ipotesi propedeutiche alla cessione: cedere l’altoforno insieme ai laminatoi. Oppure i laminatoi con il forno elettrico. Si è parlato anche di spezzatino, con la cessione dei soli laminatoi, oppure dei singoli impianti. Ma tutte questi ipotesi sono state bocciate dai sindacati, perché con ognuna di esse si perderebbero circa 500 posti di lavoro. Al momento, il gruppo che ha manifestato l’interesse maggiore per l’acquisto dell’impianto di Piombino è il gruppo svizzero Klesch, che nei giorni scorsi ha avviato la produzione in Italia con Leali Steel.
Oltre agli svizzeri c’è però anche una cordata italiana. Al momento però, l’unico ad uscire allo scoperto è il gruppo Feralpi e le Acciaierie Venete: ma siamo alle sole voci. Molto più interessante, anche per il “futuro” dell’Ilva di Taranto, il fatto che il progetto del fondo svizzero prevede un progetto che elimini del tutto il ciclo integrale, il quale verrebbe sostituito da un forno elettrico. Ma uno studio commissionato dalla Lucchini per valutare la fattibilità di un’acciaieria elettrica, come prevede il progetto Klesch, non ha portato esiti confortanti. A cominciare dalla bocciatura del sindaco Anselmi: l’impianto è stato giudicato troppo rumoroso e troppo vicino alla città. Dunque da un lato c’è un altoforno giunto quasi a fine vita, dall’altro un progetto che non convince.
Peraltro, impianti innovativi come i famosi Corex e Finex richiedono almeno 48 mesi per la costruzione e ben 350 milioni di euro di investimento, con tutto il rischio che esso comporti. Visto che il tutto potrebbe essere compiuto troppo tardi. Ecco perché a Piombino da tempo si chiedono se il commissariamento sia stata alla fine la soluzione migliore. A dimostrazione che i decreti leggi non sempre funzionano: lo scorso 26 aprile infatti, il governo ha approvato il decreto legge n.43 (Decreto emergenze) per il rilancio industriale dell’area di Piombino (tra cui anche il Porto), trasformato in legge a fine giugno.
In ultimo, ricordiamo che nel 2003 il gruppo Lucchini precipitò in una grave crisi finanziaria che venne affidata alle “sapienti” cure di Enrico Bondi, che trasformò la Lucchini SpA in una holding finanziaria a capo delle Business Unit operative. In economia è l’unità presa come riferimento per definire la strategia, che può coincidere con l’impresa o rappresentare solo una parte di essa. L’unità produttiva di Piombino diventò, nelle mani di Bondi, una di queste Business Unit, societarizzandosi con la denominazione di “Lucchini Piombino SpA”. Non è un caso se il decreto legge 61, rivisto alla Camera, prevede che può essere commissariato anche un “solo ramo dell’azienda”. Taranto e Piombino, quindi, potrebbero avere più di qualcosa in comune nel prossimo futuro. O in un futuro che però è già passato.
G. Leone (TarantoOggi, 20.07.2013)

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