giovedì 25 luglio 2013

Il rumore della verità

L’Ilva, i fog cannon e la Semat

Diciamo la verità: anche noi, udendo l’improvviso rumore nella notte tra domenica e lunedì, abbiamo associato l’evento al passaggio di un Boeing 787 in fase di atterraggio o di decollo dall’aeroporto di Grottaglie o ad un aereo militare proveniente dalla base militare di Gioia del Colle. Del resto, proprio nella giornata di lunedì, la Capitaneria di Porto associò un evento simile avvertito nel pomeriggio nella zona tra Castellaneta e Ginosa, al passaggio di aerei militari in grado di volare superando la barriera del suono. Mistero chiarito, dunque? Nemmeno per sogno. Perché lunedì mattina il comitato cittadino dei “liberi e pensanti” ha denunciato che il rumore avvertito era invece da addebitarsi all’accensione contemporanea dei famosi “fog cannon” dell’Ilva. Tesi che ha stranito i più, visto che il boato notturno è stato avvertito in diversi zone della città e non soltanto dai cittadini dei Tamburi, che da diverse settimane lamentano il rumore assordante proveniente dal siderurgico ad ogni ora del giorno e della notte, causato dall’utilizzo di queste “nuove” macchine.
La denuncia del comitato ha però sortito un effetto positivo. Perché nella tarda serata di martedì, la società Hi Tech International che produce in esclusiva il dispositivo brevettato “Fog cannon” usato per l’abbattimento delle polveri volatili e la società Ecology, che commercializza il prodotto, hanno diramato una nota ufficiale con la quale hanno dichiarato di non aver mai fornito all’Ilva “tali dispositivi che sono del tutto estranei all’incidente”. “Il dispositivo brevettato per l’abbattimento delle polveri volatili denominato con marchio registrato Fog Cannon -- riferiscono le due società in una nota -- è di esclusiva proprietà della società Hi Tech International che ne ha concesso la commercializzazione in via esclusiva in tutto il mondo alla società Ecology”.
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Dunque, qual è il problema? Per capirlo, bisogna fare un passo indietro: tornando al febbraio del 2012. Quando l’Ilva presentò il “famoso” progetto mirato al contenimento delle polveri che si sprigionano dai parchi minerali, attraverso la costruzione di barriere frangivento lunghe oltre un chilometro ed alte 21 metri, con cui l’azienda contava di trattenere la diffusione di polveri dal 50 al 70% (a tal proposito vi rimandiamo al sito inchiostroverde.it che ieri ha pubblicato una notizia molto interessante sul reale funzionamento di queste barriere). L’intervento, previsto dall’Autorizzazione Integrata Ambientale del 4 agosto 2011, interessava però le polveri pesanti e non quelle sottili (come più volte denunciato su queste colonne).
Eppure, sono proprio quest’ultime, denominate PM10 e PM2,5, a comportare i maggiori rischi per la salute umana perché si insinuano più facilmente nell’organismo umano. Del resto, all’epoca, da pochi giorni era stata resa nota la perizia degli esperti chimici nominati dal tribunale di Taranto all’interno dell’inchiesta sull’Ilva, che avevano messo nero su bianco come dai parchi minerali si disperdessero ogni anno in atmosfera 668 tonnellate di polveri, ricadenti soprattutto sul quartiere Tamburi. E proprio in quei giorni, tra chi chiedeva la copertura dei parchi minerali e l’Ilva che la giudicava inattuabile, sempre il sito inchiostroverde.it rilanciò l’ipotesi dell’adozione dei fog cannon.
Per i profani ricordiamo che i sistemi “Dry Fog Cannon”, riescono tramite “un potente getto di una miscela aria/acqua finemente nebulizzata che crea una nube di nebbia non tossica e non nociva in grado di abbattere velocemente le particelle in sospensione”, ad abbattere polveri volatili di almeno il 70%, e in taluni casi anche oltre il 90%, in base agli ambiti di applicazione. Per quanto riguarda il PM 10 tale sistema garantirebbe un abbattimento del 50-70% delle emissioni. Eppure, il 5 novembre del 2011, proprio la società Ecology inviò all’Ilva Spa un preventivo di spesa per l’acquisto di ben sette cannoni nebulizzati.
Nel testo (di cui siamo in possesso grazie alla preziosa collaborazione del sito inchiostroverde.it) si legge testualmente: “Facendo seguito alla Vostra gradita richiesta, allo studio condotto dal nostro personale tecnico, alla supervisione in campo svoltasi in data 27 ottobre, ci pregiamo sottoporre la soluzione per l’abbattimento delle polveri in tutta l’area denominata PARCO MATERIE PRIME o PMA. La garanzia di efficienza è di abbattere il 77%, almeno, delle polveri volatili prodotte nell’area indicata come PMA, avente dimensione di 1km per 582mt. Qualora non fosse raggiunta la scrivente ditta restituirà i soldi e si riprenderà le macchine a propria cura e spese”. Spesa totale prevista “4.430.000,00 €uro + iva, escluso opere civili e montaggio in opera”. Ma l’Ilva, dopo aver ricevuto il preventivo, non dette più notizie alla società Ecology.
A chi si è rivolta dunque l’Ilva Spa per l’installazione di questi attrezzi? Lo si può leggere già nella prima relazione trimestrale sull’attuazione delle prescrizioni (quella in questione è la numero 12) previste dall’AIA: “Sono attualmente in ordine 8 fog cannon (ordine n.1792/13 del 22.01.2013). Gli stessi saranno forniti dalla ditta SEMAT”. Azienda che si è aggiudicata tutti i lavori nell’ambito AIA in merito alla chiusura degli edifici e delle aree in cui avviene la gestione di materiali polverulenti, come la “Preparazione miscela, Cokefazione, Impianto di agglomerazione, Altoforno -- Caricamento materiali”. Ma se è soltanto la società Hi Tech International a produrre in esclusiva il dispositivo brevettato “Fog cannon”, a chi si è rivolta la SEMAT per ottenere dispositivi simili? Stando alle notizie in nostro possesso, l’azienda si è rivolta alla società Acovent di Senago (che ha sede in provincia di Milano), la quale però realizza “ventilatori sia standard che speciali disponibili a semplice e a doppia aspirazione, in grado di movimentare volumi d’aria e miscele di gas fino a portate di 1.000.000 m3/h e pressioni fino a 25.000 Pa”.
Secondo alcune testimonianze, il forte boato dell’altra notte sarebbe dovuto all’esplosione contemporanea delle ventole di questi enormi ventilatori. Sia come sia, di certo c’è che l’Ilva non si è dotata dei fog cannon originali, che avrebbero potuto quanto meno attutire lo spolverio che da decenni invade il rione Tamburi e genera fenomeni di malattie e morte negli operai e nei cittadini. Com’è possibile dunque che i tecnici ISPRA ed ARPA nella loro ultima ispezione di fine maggio non si siano accorti di questa discrepanza? Per il semplice motivo che l’ispezione è terminata il 30 maggio. Mentre l’Ilva aveva previsto le prime 5 macchine fog-cannon da installare entro il 31 maggio.
A seguire, nel mese di giugno, ne sono stati messi in funzione altri 6, mentre entro il mese corrente entreranno in funzione gli ultimi due. Ma l’utilizzo di “fog cannon” non originali, non comporta soltanto il fastidiosissimo rumore denunciato dai cittadini. Perché ciò che viene fuori è l’ennesimo danno ambientale causato da “inquinamento da percolato sotto i parchi per eccesso di irrorazione, rumore tipo aereo militare in decollo e abbattimento polveri pari a zero”, come ci hanno spiegato esperti del settore. Pare infatti che l’Ilva abbia pagato alla SEMAT la metà del preventivo elaborato nel 2011 dalla società Ecology. E questa sarebbe l’applicazione rigorosissima dell’Aia che istituzioni centrali e locali, sindacati e quant’altri si augurano e pretendono? Sarà.
Ciò detto, la Semat, azienda di proprietà di Sergio Trombini (gruppo Trombini) che ha avuto una crescita esponenziale a partire dai primi anni ’80, dentro l’Ilva la conoscono tutti. Non solo perché opera da anni nell’appalto del siderurgico. Ma perché rientra nel novero di quelle società “privilegiate” dal gruppo Riva attraverso l’ufficio acquisti dell’Ilva Spa con sede a Milano di cui abbiamo già parlato tempo addietro. Del resto, non è un caso se tra i clienti della SEMAT configurano oltre al Gruppo Riva Spa e all’Ilva Spa, la “Siderurgica Sevillana SA” di Siviglia di proprietà della Riva Forni Elettrici e l’africana “Tunisia Cier Int. Biserta” di proprietà del gruppo Ilva. Oltre al gruppo Caltagirone, che a Taranto ha la Cementir la cui produzione è legata a doppio filo all’Ilva. Di tutto quanto sopra, Confindustria Taranto e i sindacati metalmeccanici che soltanto oggi chiedono che le aziende tarantine abbiano una corsia preferenziale nello svolgere i lavori previsti dall’AIA (quando su queste colonne abbiamo già dimostrato che tutte le ditte contattate sono del nord Italia o estere), non sanno nulla, né si sono accorti di nulla.
Non conoscono questa storia dei “fog cannon”, né della SEMAT di proprietà del gruppo Trombini e della sua egemonia all’interno del siderurgico. Anzi, no. Qualcosa conoscono. Quando protestarono a settembre e gennaio scorsi, per l’annuncio della cassa integrazione per un centinaio di unità quando un’altra azienda del gruppo, che effettua lavori sugli impianti siderurgici, “continua ad assumere gruppi di giovani senza alcuna esperienza lavorativa, contravvenendo alle norme più elementari della sicurezza e adibendoli a lavori precedentemente svolti dagli stessi lavoratori edili della SEMAT”. L’altra ditta in questione, di cui non si fece il nome, potrebbe essere la Techint Spa che ha sede sulla via Appia e che si occupa della “progettazione strutturale del caricatore per navi dell’impianto di trasporto loppa d’altoforno nel centro siderurgico di Taranto”. Altri anelli che legano la SEMAT all’Ilva, sono la Sanac Spa e la Adda Energy Srl, aziende che operano nel sito Ilva di Vado Ligure. Ma su tutto questo negli anni si è lasciato fare. Quest’ennesima brutta storia è la conferma che mantenere in vita l’Ilva, vuol dire continuare a tenere in piedi un sistema che fa acqua e “rumore” da tutte le parti. E che la strada da intraprendere per il futuro porta da tutt’altra parte.
Gianmario Leone (TarantoOggi, 25.07.2013)

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