giovedì 5 dicembre 2013

La Favola da due soldi per bimbi creduloni

Ecco partire dalle pagine aranciosbiadite del Sole24ore l'ennesimo attacco alla società civile, questa plebaglia maleducata e irriverente dove imperano "gli ambientalisti e i sindacalisti radicali, i magistrati ignari dei funzionamenti minimi di un'impresa e gli amministratori convertitisi all'autoparalisi". Una massa di ignoranti! Ma come si permette questa gentaglia di attaccare con l'arco e le frecce il colosso della siderurgia? E, addirittura, di toccare il "Pantalone" numero uno di confindustria e dei governi da quando la Fiat li ha snobbati tutti?
Come si fa a pensare di fermare l'AFO5, la "Ferrari" degli altoforni? (senza filtri, ovviamente..)
Un paio di articoli ben assestati che danno qualche buffetto ai Riva per par condicio (ma sotto sotto li assolvono) e, soprattutto, difendono la tesi dell'industria nuova e necessaria, agli occhi dell'opinione pubblica piccolo borghese (quella medio-alta è già abbastanza connivente ed empatica...).
Bravi soldatini, ops, giornalisti!

Enzo D'Alò


Ilva sul filo dell'equilibrio finanziario

La superficie di accesso all'altoforno cinque è sconnessa. Falsi piani, dislivelli, scale, piccole discese, pozze d'acqua. I piedi di tutti procedono con prudenza. Le teste sono custodite dai caschetti.
L'altoforno cinque è uno degli snodi nevralgici di quel delicato organismo industriale e umano che è l'Ilva di Taranto. Mentre cala la sera uno degli ultimi bastioni del capitalismo italiano - ferro e fuoco, uomini e macchine - con i suoi fischi e i suoi rumori, le sue scintille e la ruggine delle sue strutture restituisce il senso di una storia novecentesca che, piaccia o no ai retori della cultura anti-industriale, è la nostra, non di altri.
L'altoforno cinque, però, non è soltanto una testimonianza del passato, come desidererebbero gli ambientalisti e i sindacalisti radicali, i magistrati ignari dei funzionamenti minimi di un'impresa e gli amministratori convertitisi all'autoparalisi per espiare la sottomissione psicologica ai Riva e agli Archinà. Tutti inconsapevoli che la chiusura dell'area a caldo sancirebbe la morte dell'Ilva e la trasformazione di Taranto in una nuova Bagnoli.
L'altoforno cinque è anche una delle poste in palio - produttive e tecnologiche - maggiori della partita a dadi con cui l'impegno (e la fortuna) degli uomini definirà la sorte della maggiore acciaieria europea. L'altoforno cinque è stato costruito nel 1994. Rifatto dieci anni dopo, nel 2004, adesso sperimenterà un rifacimento totale l'anno prossimo. Sarà svuotato dall'interno e verrà rimodulato pezzo per pezzo con un investimento che - da progetto - varrà fra i 130 e i 150 milioni di euro. Questo lavoro si dovrebbe svolgere dal settembre del 2014 al luglio del 2015. Contestualmente dovrebbero essere rifatte le batterie, le strutture dove dal carbon fossile si produce il coke, che poi finisce negli altoforni.
Il nuovo altoforno e le nuove batterie dovrebbero consentire miglioramenti marginali a un sistema che, sotto il profilo della pura efficienza produttiva, ha sempre avuto buoni rendimenti. Basti pensare che, secondo l'analisi mensile della Wdeh (l'associazione metallurgica tedesca), nel biennio 2011-2012 l'altoforno cinque ha conteso il primo posto nella classifica dei più efficienti in Europa al suo equivalente di IJmuiden, nei Paesi Bassi, di proprietà degli indiani di Tata Steel. Un indicatore dell'efficienza è, per esempio, rappresentato dai chili di coke necessari per produrre mille chili di ghisa: 304 a Taranto, 340 nelle acciaierie tedesche.
La complessità dell'Ilva - stretta fra la dimensione dell'efficienza industriale e la cifra della sicurezza ambientale - è ben percepibile nella torre di controllo. Da qui i tecnici verificano che gli standard produttivi e i livelli di emissione siano rispettati. Nella fisiologia dell'Ilva si tratta del sistema centrale nervoso, formato da tre primi strati di cellule rappresentati dalle procedure formalizzate, dall'audit interno e dalle società di certificazioni incaricate di vagliare i processi. Su di esse si sono addensate cellule provenienti dall'esterno. E, oggi, la torretta di controllo è metaforicamente racchiusa dalle ispezioni dell'Ispra e dell'Arpa, dai controlli dei vigili del fuoco ogni volta che qualcosa non funziona, dai carabinieri del Noe, dai sindacati che talvolta raccolgono informazioni per il retropensiero di precostituirsi una posizione giuridicamente favorevole.
La natura bifida - produttiva e ambientale, prigioniera del passato e proiettata verso il futuro - dell'acciaieria esprime poi un punto di caduta duplice nella quotidianità gestionale e nella prospettiva strategica. Nel riposizionamento dalla produzione di massa e ad alta redditività con un atteggiamento impositivo verso i clienti dell'epoca Riva all'ampliamento della gamma di offerta con la ricerca di un migliore rapporto fra qualità e prezzo della nuova gestione Bondi, l'Ilva deve confrontarsi con un mercato sempre più competitivo. Gli spread ottenibili sono di pochi punti sopra il costo delle commodity. I magazzini, assai pingui quando c'era la famiglia lombarda, vengono gestiti con grande oculatezza. Quando possibile, si operano dei destoccaggi. Il risultato, nella complessa dialettica fra conto economico e stato patrimoniale, è quello di una posizione finanziaria stabile. Dunque, di certo la situazione, per quanto ancora delicata, non è più paragonabile al dramma sperimentato da gennaio ad aprile, quando ogni mese l'Ilva bruciava intorno ai 50 milioni di euro. Anche se l'Ebitda è ancora negativo. Allo stesso modo, un'impostazione meno padronale all'esterno (verso i clienti) è coerente con un maggiore dialogo interno (per esempio, nei processi decisionali con Genova e con Novi Ligure).
Il sentimento di paura per il futuro e la fatica fisica di ogni minuto vissuti da chi lavora nelle cokerie e negli altiforni, nelle batterie e ai nastri trasportatori fanno il paio con l'impegno nervoso e la tensione quotidiana di chi - fra il management, nella palazzina blu dell'Ilva - deve intrecciare l'oggi con il domani, come fanno i pescatori con i loro cestini di vimini nella città vecchia di Taranto. Prendiamo il problema del piano industriale, affidato a McKinsey. La sua calibratura definitiva dipenderà dalla versione finale del piano ambientale. Nel prossimo futuro, andrà in Consiglio dei Ministri per trovare la forma del decreto. Dopo la firma del decreto Bondi, avrà trenta giorni per redigere un piano industriale, che andrà prima comunicato ai Riva (proprietari dell'impresa) e quindi approvato dal Mise. L'ingegnerizzazione finanziaria e la curvatura strategica del piano industriale non potranno non dipendere dall'entità delle cose da fare contenute nel piano ambientale. A quel punto si porrà la questione delle risorse. Martedì il Governo ha scelto di consentire al Commissario di utilizzare quelle sequestrate per reati fiscali e valutari ai Riva. (Sole24h)

Ed ecco, a seguire, dopo gli attacchi a testa bassa  ai nemici del "progresso" ecco la favola della "brava gente al lavoro", dell'eroe pianista e degli orchi cattivi con la toga sporca:

L'Ilva del futuro punta sul prodotto

Sentinella, a che punto è la notte? Non chiedetelo, per favore, a chi lavora all'Ilva. Hanno facce serie e impaurite. I loro profili sono contratti. Sembrano avere assorbito l'ostilità autoassolutoria e la distanza inquisitoria che li circonda quando timbrano il cartellino di uscita alla fine del turno. Una freddezza assimilabile al vento inospitale che, alle quattro del pomeriggio, batte sull'altoforno cinque, sulla palazzina direzionale blu e sulle colline minerali.
Qui lavorano in dodicimila. Ingegneri, operai, tecnici. Non fanno finta. Non sono assassini, anche se capita che ai loro figli alle recite scolastiche assegnino la parte delle ciminiere. Sono un pezzo di Italia industriale che - fra dramma ambientale, minorità della politica, unilateralità della magistratura - rischia di scomparire, contribuendo a consegnare il Paese alla fisionomia della piccola impresa: se va bene un destino da subfornitori di lusso, se va male un futuro da terzisti o da camerieri a basso costo della manifattura internazionale. Fabbricano acciaio. E si dedicano a due lavori: la produzione, perché senza di essa la fabbrica chiude, e la trasformazione dell'acciaieria secondo le prescrizioni dell'Aia, in mezzo a mille ritardi e resistenze regolamentari, nessuno che fuori dall'acciaieria firma nulla, e se poi tocca a me dimostrare di avere fatto tutto correttamente, meglio stare fermi, io in galera per quelli non ci finisco.
Tutto questo accade in una fabbrica più moderna - nella parte prettamente industriale - del rottame ultra-inquinante dell'Iri. Una acciaieria che, però, negli tempi è stata lasciata andare dai Riva, da sempre molto concentrati su una produttività industriale di grana grossa e dall'ottimo rendimento economico e, dall'agosto del 2012, più impegnati a difendersi che a gestire la fabbrica. Fuori, intanto, il gioco d'ombre smuove le acque morte, mescola nell'aria elementi diversi, provoca immagini distorte. Lo Stato ha imposto come commissario straordinario Enrico Bondi, il Mister Wolf del capitalismo italiano che - bene o male, lo giudicheranno gli storici - dai tempi di Ferfin e di Parmalat risolve problemi? No, ma lui era un uomo dei Riva, che lo avevano chiamato come amministratore delegato per cinquanta giorni. Non importa che i Riva si sentano espropriati e che ogni loro uomo di fiducia - dai gradi intermedi alle funzioni di responsabilità - sia stato allontanato. E che Bondi abbia chiesto agli acciaieri 484 milioni di euro di danni, imputandogli di avere trasformato l'Ilva in un gigantesco bancomat da cui hanno attinto per diciassette anni - secondo l'analisi di PricewaterhouseCoopers - soldi freschi attraverso finte consulenze infragruppo.
Dalla Taranto dolente, in cui i corpi hanno incominciato a logorarsi negli anni Settanta dell'Italsider della mistica irrazionale del raddoppio (da 5 a 10 milioni di tonnellate di acciaio all'anno), soffia questo vento freddo sull'acciaieria. Dentro di essa Bondi e i suoi collaboratori si esercitano nel difficile mestiere del pianista. Mano destra: i lavori richiesti dall'Aia. Mano sinistra: la gestione industriale. Lo spartito si suona con entrambe. Musica, sui lavori richiesti dall'Aia, ne è stata già eseguita. L'Ilva, da quando Bondi è arrivato a Taranto, ha realizzato opere o ha emesso ordini per 495 milioni di euro. Qualche esempio. I parchi delle materie prime? 115 milioni, 99 milioni dei quali per il parco minerale (la commessa alla Cimolai). Per gli altiforni, 35 milioni. Una cinquantina di milioni nelle cokerie. Una novantina per l'agglomerato. Nell'acciaieria, 15 milioni. Il problema è che, alla mano che sta suonando lo spartito dell'Aia, in alcuni casi è stato richiesto un ritmo furibondo e illogico: i sessanta chilometri di nastri trasportatori da coprire in tre mesi sono sempre sembrati fuori dalla logica del buonsenso; finora questo impegno è stato ottemperato al 26%, con una spesa di 36 milioni di euro. In altri casi, le dita vanno a vuoto perché qualcuno gioca a fare scomparire i tasti. A luglio l'Ilva ha presentato i primi quattro progetti per i parchi minerali. Da allora la conferenza dei servizi - nell'agile composizione di Comune di Taranto, Provincia, Arpa, Asl, Vigili del Fuoco, Ministero dello Sviluppo Economico, Ministero dell'Ambiente, Ispra e perfino Capitaneria di Porto - si è già radunata due volte e dovrà farlo una terza, forse prima di Natale, per consegnare le autorizzazioni. Almeno a Taranto, fra richieste di precisazioni e rimandi al Ministero dell'Ambiente, l'Ilva che deve costruire ha trovato degli interlocutori. Non altrettanto nel vicino Comune di Statte: alla richiesta delle autorizzazioni per coprire con legno lamellare dei semplici cumuli di pietre (tecnicamente il calcare 1 e 2) nessuno, negli ultimi tre mesi, ha risposto.
L'altra mano, quella che suona la musica della riorganizzazione industriale, prova intanto a muoversi sulla tastiera dell'organizzazione e della strategia, della finanza di impresa e della finanza straordinaria. Bondi sta attuando un riposizionamento strategico. La cultura industriale e manageriale dei Riva è sempre stata fondata sulla produzione di massa e su un controllo occhiuto dei costi, un dramma in acciaieria se si perdeva un chilo (un chilo!) di ghisa. Una cultura da price-maker. Da monopolista, in grado di riempire i magazzini e di sopportarne il peso sui bilanci.
Ora, invece, all'Ilva provano a lavorare sulla qualità del prodotto. Sulla molteplicità dell'offerta. Andando a cercare i clienti, uno a uno. Anche se, questo, non è semplice. Perché il caos innescatosi nell'agosto del 2012 (e i comportamenti dei Riva, uno dei quali è ancora latitante in Inghilterra) ha contribuito a delineare una immagine di scarsa affidabilità dell'azienda, difficile da sradicare anche nell'attuale gestione. In particolare, l'obiettivo potenziale di vendita di 700mila tonnellate al mese non è mai stato raggiunto. La nuova posizione di competitor che insegue la concorrenza e cerca i clienti è resa fragile dalla neutralità ostile della pubblica amministrazione, dallo sbandamento dell'assetto proprietario e dalle ambiguità dei sindacati che, dopo anni di collusione con i metodi neo-coloniali dei Riva, anziché contribuire alla ristrutturazione dell'Ilva scelgono una vigilanza questurina. Il tutto con la spada di Damocle della magistratura. (Sole24h)


1 commento:

Anonimo ha detto...

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