Tutti i nodi, anche se lentamente, stanno venendo al
pettine. Pur passando tra sequestri, dissequestri, decreti legge,
ricorsi, intercettazioni, arresti, sentenze, commissariamenti e
quant’altro, il problema dei problemi resta sempre lo stesso. Che tutti
conoscevano da anni, molto prima di quel famoso 26 luglio 2012: ovvero
che l’Ilva è una fabbrica irrecuperabile da un punto di vista
prettamente impiantistico. Il risanamento ancora oggi sognato, rincorso,
annunciato e preannunciato, non ci sarà mai. Certo, sarebbe potuto
essere realizzato qualora fosse stato programmato e messo in atto nel
corso degli ultimi 20 anni (ad essere generosi): ma essendo che nessuno
lo ha preteso, imporlo oggi attraverso leggi ad hoc ed un’AIA talmente
complessa da essere stata scritta e riscritta diverse volte negli ultimi
10 anni, è assolutamente illogico.
Del resto, su queste colonne lo abbiamo scritto per anni:
se Riva non ha investito un euro sull’ammodernamento degli impianti, non
è stato soltanto per rispondere al credo della logica del profitto che è
stata la stella polare di tutto il capitalismo italiano dalla sua
nascita ad oggi. Quella scelta, anche se ancora oggi nessuno ha il
coraggio di ammetterlo, è stata anche e soprattutto figlia di una
visione dell’economia dell’acciaio premonitrice e a lungo respiro: Riva
sapeva perfettamente che nel corso di poco più di un decennio il mercato
si sarebbe capovolto, soprattutto a causa della prepotente entrata in
scena di competitor mondiali a cui nessuno avrebbe potuto opporre
adeguata resistenza (specie con un impianto vecchio e non più
competitivo come è oggi l’Ilva).
E a fronte del fatto che nessuno, tra istituzioni nazionali
e locali, sindacati e Confindustria, nel corso degli anni ha preteso e
imposto il risanamento ambientale della fabbrica (per convenienze e
connivenze che l’inchiesta portata avanti dal 2009 dalla Procura di
Taranto ha potuto rivelare soltanto in minima parte), Riva ha fatto
“l’unica” scelta economicamente razionale: continuare a produrre il più
possibile (ed è soltanto grazie a questo se Bondi ha potuto mantenere
in piedi l’Ilva Spa nell’ultimo anno proprio grazie al destoccaggio) in
barba ad ogni regola in materia di rispetto dell’ambiente e della salute
di operai e cittadini. Con i danni che oggi tutti conosciamo.
E ieri, durante l’audizione in commissione Ambiente alla
Camera dei commissario Enrico Bondi ed Edo Ronchi, accompagnati
dall’assessore regionale alla Qualità dell’Ambiente della Regione Puglia
Lorenzo Nicastro, tutta la drammaticità della situazione attuale
dell’Ilva è apparsa ancora una volta chiara ed indiscutibile. Del resto,
come abbiamo scritto nei giorni scorsi, la decisione dei giudici della
VI sezione penale della Cassazione che venerdì scorso hanno annullato
senza rinvio il sequestro preventivo per 8,1 miliardi di euro nei
confronti della Riva FIRE (Finanziaria Industriale Riva Emilio) emesso
dal gip Todisco lo scorso 24 maggio, oltre ad essere stata una vittoria
per i Riva rischia di trasformarsi nella spallata decisiva che metterà
al tappeto il più grande impianto siderurgico d’Europa. E Bondi, tutto
questo, lo sa molto bene. Non è un caso del resto se ieri, durante
l’audizione, ha lasciato intendere che l’unica possibilità realistica
per far sì che l’Ilva realizzi tutti i lavori previsti dall’AIA, è un
aumento di capitale che inietti quanto prima nella casse dell’azienda
risorse liquide ingenti. Operazione che dovrebbe essere garantita dalla
proprietà: ovvero dai Riva. “Credo che sarebbe molto conveniente – ha
ironizzato con il suo accento toscano irriverente Bondi – ragionare di
aumento di capitale”. Lo ha detto sorridendo, avendo accanto Ronchi e
guardando i deputati presenti. “Il mio è un suggerimento – ha
“precisato” Bondi – ma credo che un test con la proprietà andrebbe fatto
perché se ci fosse una risposta positiva alla richiesta di
ricapitalizzare, cosa che non so, migliorerebbe anche l’atteggiamento
delle banche nei nostri confronti”. Il ragionamento è fin troppo chiaro.
La legge 89 del 4 agosto scorso che ha convertito il decreto del 4
giugno imponendo il commissariamento, prevede che quest’ultimo duri tre
anni al termine dei quali l’Ilva ritornerà nella gestione dei legittimi
proprietari.
A tutt’oggi, almeno nel campo della siderurgia italiana,
soltanto il gruppo Riva potrebbe sostenere un’operazione finanziaria del
genere. Che come ha lasciato intendere Bondi, sarebbe anche una
garanzia in più per le banche. Le quali, come è stato dichiarato anche
ieri, dovranno andare a finanziare il futuro piano industriale che “deve
ancora vedere la luce”, come dichiarato dallo stesso commissario (i
sindacati, lo ricordiamo, sono impegnati in questa caccia al tesoro da
oltre un anno). Dunque, il piano di risanamento ambientale dovrà essere
finanziato per forza di cose con altre risorse. Ma per quale motivo il
gruppo Riva dovrebbe investire per risanare gli impianti di una fabbrica
che ha gestito per quasi vent’anni, non avendolo mai fatto prima?
Operando in modo tale da potersi arricchire a dismisura ed avendo tutto
il tempo per trasportare i capitali guadagnati nei paradisi fiscali
offshore e facendoli rientrare soltanto in minima parte attraverso lo
scudo fiscale nel 2009, peraltro in maniera illecita come sta tentando
di dimostrare la procura di Milano?
Probabilmente Bondi, anche se non è dato sapere con quanta
speranza, ha lanciato un messaggio ad eventuali e improbabili
investitori esteri. Perché se i Riva continueranno a comportarsi come
sempre hanno fatto, l’unica strada per un eventuale aumento di capitale è
la cessione di quote azionarie dell’Ilva Spa ad altri investitori
interessati a subentrare alla gestione del siderurgico. Ma quello di
Bondi, molto più semplicemente, è stato un atto dovuto. Visto che lui
stesso ieri si è definito un “amministratore delegato sui generis
(dimessosi lo scorso maggio dal ruolo di ad, tutto il Cda Ilva fu
azzerato, ma attualmente, per effetto del commissariamento, è più
adeguato dire che i ruoli sono tutti congelati): ho bisogno di fare
delle cose e chiedo risorse”.
Il discorso, dunque, è molto semplice. Le risorse
finanziarie per effettuare i lavori di risanamento sugli impianti
dell’area a caldo, al momento non ci sono. Sono stati programmati
investimenti per 160 milioni sia a gennaio che a febbraio, e 6-700
milioni per tutto il 2014. Se queste risorse non saranno trovate in
tempi celeri, i lavori non si faranno. E c’è da credere che il piano
ambientale allungherà ancora di più nel tempo le scadenze di ultimazione
dei lavori previste dall’AIA.
Ma non pensiate che l’Ilva Spa navighi in acque buone.
Certo, il siderurgico produce e continua a vendere acciaio.
L’indebitamente con le banche non è aumentato, a detta di Bondi. Ma il
futuro è nero. E non soltanto perché si produce meno che in passato. La
richiesta del mercato frena, gli incassi diminuiscono (6 milioni e 230
mila tonnellate prodotte nel 2013 contro gli 8 milioni e 248 mila del
2012, con una differenza nei ricavi di 41 euro a tonnellata), e se il
costo delle materie prime diminuisce (25 euro per tonnellata), aumenta
il costo dell’energia e soprattutto della manutenzione degli impianti
(24 euro a tonnellata): i conti, quindi, non tornano. Bondi ieri è stato
infatti chiarissimo: “A gennaio non so se saremo ancora in grado di
mantenere questa situazione: c’è bisogno di un provvedimento veloce
altrimenti in gennaio faticheremo a fare tutto quello che dobbiamo
fare”.
E come segnaliamo da tempo, a breve bisognerà fare i conti
con un problema ancora maggiore. Che ieri è stato pronunciato da Bondi
quasi come fosse una condanna per tutti i presenti: “Ricordo che nel
2014 dovremo rinegoziare la cassa integrazione e la solidarietà per
diversi stabilimenti, non solo per Taranto”: a Genova si tratta di 700
lavoratori, ma a Taranto parliamo di 2.400 persone in solidarietà; con
Bondi che ieri ha chiesto ulteriori ammortizzatori per “altri interventi
minori”.
Volete fare due calcoli insieme a noi? Bene. Da sempre
all’Ilva il rapporto tonnellate di acciaio/lavoratori è di 1/1000 (un
milione di tonnellate per 1000 dipendenti): l’azienda ha prodotto 2
milioni di tonnellate in meno, dunque siamo nell’arco di almeno 2mila
lavoratori in esubero, esattamente quanti quelli di cui si dovrà
discutere a marzo, come confermato anche ieri dallo stesso Bondi. Lo
scriviamo da tempo: l’Ilva va incontro ad un notevole ridimensionamento
di produzione ed occupazione, i cui risvolti sociali saranno
pesantissimi. E mai più recuperabili. Il problema, come sempre in questo
Paese, è che siamo governati da inetti a tutte le latitudini, oltre che
“difesi” da sindacati inesistenti e “rappresentati” da una società
civile che lascia sempre più a desiderare. Un esempio sui politici di
cui sopra? Ieri, al termine dell’audizione, Ermete Realacci, presidente
della commissione Ambiente Territorio e Lavori Pubblici della Camera, ha
testé dichiarato: “Ci vogliono garanzie sui tempi e certezza sulle
risorse per il risanamento ambientale dell’Ilva: fondi, questi ultimi,
che non possono che venire dai beni della famiglia Riva”. Serve altro?