Braccio di ferro Regione-Ilva stop all'uso di acqua potabile
Fino al 2006 lo stabilimento siderurgico più grande d'Europa succhiava qualcosa come 800 litri al secondo, scesi a 600 litri, ridotti poi da un paio d'anni a 250 litri. L´assessore ai lavori pubblici Fabiano Amati contro lo spreco della risorsa utilizzata per raffreddare l'acciaio
La Regione vuole impedire che l'Ilva di Taranto continui a usare l'acqua potabile prelevata dal Sinni per raffreddare l'acciaio. Nella "Puglia sitibonda", è uno spreco che va avanti da un bel po': fino al 2006 lo stabilimento siderurgico più grande d'Europa succhiava qualcosa come 800 litri al secondo, scesi a 600 litri, ridotti poi da un paio d'anni a 250 litri. "Io voglio evitare che quell'acqua sia utilizzata a scopi industriali" dice l'assessore ai Lavori pubblici della giunta Vendola, Fabiano Amati. Parole di buon senso che, però, a quanto pare non riescono a convincere l'Ilva. La discussione va avanti da almeno tre mesi, ma inutilmente. Va in scena un braccio di ferro che per il momento si combatte a colpi di missive, tra l'arrabbiato e l'ironico.
Emilio Riva, il patron del maxi impianto tarantino, non apre bocca (né tantomeno si arma di una stilografica). Attraverso qualcuno dei suoi collaboratori si era limitato a far sapere che quella era una buona idea. Ma niente di più. Collaboratori che, come racconta Amati in una lettera indirizzata allo stesso Riva, "avevano dichiarato correttamente di non poter assumere alcuna decisione perché esorbitante rispetto alle proprie competenze". Ecco perché già "mi ero permesso di rivolgermi a lei con una garbata (suppongo) e riservata richiesta d'incontro, che invece ha voluto negarmi. Come se la questione posta riguardasse la sostituzione di un rubinetto e non coinvolgesse il diritto dei cittadini a vivere meglio".
Amati adesso ci riprova: scrive per la seconda volta a Riva "nella speranza di risolvere questa spiacevole vicenda". Il titolare dei Lavori pubblici spiega come stanno le cose: Ilva potrebbe servirsi non dell'acqua potabile, ma di quella "riciclata" dal depuratore Bellavista in quel di Taranto, "purché contribuisca alle spese di gestione dell'impianto", affidato alle cure di Acquedotto pugliese. Se fosse così, "non sarebbe più obbligata a corrispondere all'Eipli (ente per l'irrigazione) e alla Regione Basilicata la somma di circa 2 milioni 500mila euro (una specie di inevitabile "dazio" da pagare per la tutela dell'ambiente, ndr)". A quel punto "parte del risparmio ottenuto potrebbe destinarlo per contribuire a tenere in piedi il Bellavista". Ad un costo che per Ilva sarebbe di poco superiore al milione di euro.
Appare un'offerta impossibile da rifiutare, eppure non c'è traccia di assenso da parte del gruppo industriale. Soprattutto, incalza Amati, i 250 litri recuperati - "una risorsa preziosa che andrebbe adoperata con parsimonia e solo per dare da bere" - potrebbero essere invasati nella diga Pappadai tirata su sempre nel Tarantino e "per la cui realizzazione abbiamo speso diversi miliardi, ma che rischia di diventare una nuova cattedrale nel deserto". Sì, insomma, ancora non funziona.
L'assessore confessa: "Ero indignato, ma ora sono dispiaciuto. Considero quanto la mancanza di prospettiva nella riflessione degli uomini sia in grado di infliggere danni non stimabili, perché manca l'unità di misura utile a determinarne il prezzo".
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