Valsugana, le Acciaierie vogliono patteggiare per i fumi velenosi
Processo per nove ex dirigenti dello stabilimento siderurgico sotto accusa per l'emissione di fumi inquinanti. S'indaga anche per gli scarichi industriali mescolati ai terreni venduti agli agricoltori
Oli, vernici, gomme, plastiche. Bruciate ed emesse nell’atmosfera. Insieme a diossine, tante, troppe, in quantità superiori ai limiti di legge. Il tutto respirato dai lavoratori e dai cittadini. Per molti anni. Almeno venti. È accaduto nella Bassa Valsugana, nel Trentino verde e agricolo. In una parte d’Italia conosciuta dall’immaginario come incontaminata e salubre.
La storia emerge da quattro inchieste della magistratura di Trento, che si sono tradotte in altrettanti procedimenti giudiziari. La più nota, quella denominata “Fumo negli occhi” per la quale sono indagati nove ex dirigenti delle Acciaierie Valsugane, è arrivata a un bivio. Una parte del procedimento è stata trasferita a Brescia, città dove, secondo l’accusa, i laboratori avrebbero falsificato i dati delle emissioni venefiche. Gli imputati hanno chiesto un po’ di tempo per formulare un patteggiamento. «Ipotesi assurda, visto che non riconoscono il danno e quindi i dovuti risarcimenti»: a parlare è Mario Giuliano, l’avvocato che rappresenta le 530 parti civili costituite: «Sono tutti cittadini, nemmeno un operaio, perché temono di perdere il posto di lavoro. Invece i residenti della zona, che per anni hanno respirato i fumi molesti, sono interessati ad andare fino in fondo».
Le acciaierie Valsugane oggi sono parzialmente sotto sequestro: «Quando ho cominciato a occuparmi di questa storia quasi non credevo ai miei occhi – racconta l’avvocato – Il direttore dello stabilimento sapeva benissimo che tutto quanto accadeva nell’acciaieria era nocivo per chi ci lavorava ma ha soprasseduto».
Anche le carte dell’inchiesta parlano chiaro: «I dipendenti venivano a trovarsi frequentemente esposti a notevoli emissioni di fumi, gas e polveri che si diffondevano all’interno del capannone prima di uscire dalle aperture dello stesso, creando accumuli di polveri sui pavimenti, sulle passerelle di lavoro, sui muri e sui macchinari. Le polveri e i fumi generati dai processi di fusione del rottame contenevano sostanze nocive per la salute umana come, per esempio, le Diossine, gli Ipa. (idrocarburi policiclici aromatici), i Pcb (po1iclorobifenili), il monossido di carbonio, ossidi di azoto, composti organici volatili (Cot)».
Ma “Fumo negli occhi” è solo una delle indagini. I rifiuti prodotti dall’acciaieria venivano miscelati ai terreni di una cava e venduti come terra vegetale ai residenti della zona. Pian piano le verdure e gli ortaggi hanno cominciato a morire, la terra a inaridirsi e i terreni a perder valore. Non solo. Quegli stessi rifiuti mescolati al cemento hanno reso friabili anche le fondamenta delle case e il valore immobiliare della zona è precipitato. C’è scritto tutto, nero su bianco, nell’altra inchiesta, “Tridentum”: nel sito di recupero ambientale di Monte Zaccon (proprio in questi giorni è stata sequestrata un’altra discarica) venivano smaltiti rifiuti pericolosi delle Acciaierie, tra i quali rifiuti costituiti da terre provenienti dalla bonifica di siti contaminati da prodotti petroliferi quali carburanti e combustibili. Si tratta di migliaia di tonnellate di immondizia inquinante: la cava di fatto è stata trasformata in una discarica abusiva. In questo caso le parti civili sono rappresentate da tutti i proprietari immobiliari, il più vicino residente a 600 metri dalla cava, il più lontano a tre chilometri.
Lo sa bene un cittadino di Marter, cosa vuol dire combattere contro il mostro dell’inquinamento: Marter è la zona della cava. Era in trattativa per vendere la sua casa al prezzo di 250 mila euro, ma dopo i sequestri alla cava improvvisamente il valore del suo appartamento è precipitato: l’ha dovuto vendere a centomila euro.
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