domenica 1 agosto 2010

Rimbalzi in rete..

TARANTO: ILVA E VELENI. INCHIESTA DELLA MAGISTRATURA

Cinquant’anni fa per Taranto iniziava un sogno, il capoluogo ionico era stato scelto come sede del quarto centro siderurgico del paese e la città intravide in questa decisione la possibilità di superare la forte crisi occupazionale che viveva in quegli anni e l’opportunità di diventare un importante centro economico per la regione e per tutto il Mezzogiorno. Per guadagnarsi questa opportunità, Taranto dovette battere l’agguerrita concorrenza di Bari e ci riuscì anche grazie al sostegno degli onorevoli Giorgio Napolitano ed Emilio Colombo, rispettivamente membri del PCI e della DC.
La prima pietra dell’impianto fu posta il nove luglio del 1960, ma in questo mezzo secolo il sogno di Taranto non si è mai realizzato. Si è infranto, e nei tarantini ha generato risentimento verso quel mostro che con una mano sfamava (nel 1982 nella fabbrica lavoravano più di 29 mila persone) e con l’altra avvelenava.
Sì, avvelenava. E’ questo che sostengono il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio e il procuratore aggiunto Pietro Argentino che hanno messo sotto inchiesta Emilio e Nicola Riva, padre e figlio (il primo ha ceduto al secondo la presidenza dell’Ilva da pochi mesi), Luigi Capogrosso, direttore dello stabilimento, e Ivan Di Maggio, responsabile del reparto cokerie. Sono ipotizzati reati di avvelenamento colposo di sostanze alimentari, disastro ambientale colposo, getto pericoloso di cose e omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro.
Un incidente probatorio cercherà di chiarire a quanto ammontano le emissioni di benzoaapirene, di policlorobifenili (sostanze simili alle diossine) e di altri inquinanti. Emissioni a cui la città è stata esposta per decenni, una città che oggi assiste arrabbiata ad un continuo aumento di casi di tumori, alle tracce di diossina trovate nel latte materno di molte donne, alla contaminazione di animali e sostanze alimentari, ai numerosi incidenti sul lavoro, ad un orizzonte continuamente sporcato dai fumi dello stabilimento.
E la rabbia non fa che aumentare da quando le famiglie sfamate dall’Ilva non sono più così tante come negli anni ottanta. Attualmente nello stabilimento lavorano circa 12 mila operai diretti e 5 mila dell’indotto, ma da quando c’è la crisi la metà di questi 17 mila lavoratori sono in cassa integrazione.
E ancora più arrabbiati sono gli abitanti del quartiere Tamburi. Lì, a pochi passi dallo stabilimento e soprattutto a pochi metri dalle alte montagne di coke, polvere di carbone sottilissima che il vento porta nelle case, nei piatti e nei polmoni degli abitanti dei Tamburi. Sono abituati a convivere con questa polvere che chiamano u mineral – il minerale – che ogni mattina cercano di buttare fuori dalle loro case e ogni mattina inesorabile rientra.
Così da cinquant’anni. Così fino ad oggi, fino all’ordinanza emessa dal sindaco di Taranto, Ippazio Stefàno, il 23 giugno scorso con la quale, a causa dell’accertato superamento della Concentrazione di Contaminazione e di Rischio, si vieta l’accesso alle aree verdi dei Tamburi. I bambini del rione non potranno più giocare nei giardini, niente più orde di bimbi urlanti che si rincorrono o che giocano a pallone, il quartiere è contaminato.
Ogni bambino come sogno più elementare ha quello di poter giocare, magari all’aria aperta. In questa estate bollente, senza la scuola, nel rione popolare dei Tamburi i bambini non potranno passare le serate nel giardino sottocasa, rischierebbero gravi danni per la salute. E così l’Ilva, dopo aver infranto il sogno di due generazioni di tarantini, infrange quello di chi rivendica solo il diritto di essere un bambino. (P. Demilito, Mediapolitika)

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