Una replica costruttiva:
Il prof. Federico Pirro, nella sua riflessione pubblicata sul Corriere del Giorno del 2 agosto con il titolo “Il dopo dell’acciaio? Un percorso difficile”, anziché provare a delineare la sua visione della Taranto di domani, impartisce, ex catedra, la sua solita lezioncina sulla fortuna di cui questi ingrati tarantini godono per la presenza sul territorio di “mamma Ilva” che a tutto pensa e tutto fa per il bene di tutti. E questa litania si ripete, per puro caso, ogni volta che quella grande azienda avverte il fiato sul collo della Magistratura e del movimento cittadino nelle sue varie articolazioni. L’esimio cattedratico, memore delle giovanili indefettibili convinzioni che rifiutavano qualsiasi dissenso ed ormai aduso ad esercitare il ruolo del sapiente nei confronti di studenti ignoranti e silenti, si esibisce in consigli e riflessioni a senso unico. Su essi evita accuratamente il confronto pubblico diretto con chi lo contrasterebbe con dati ed argomentazioni ragionevoli. Lo fece all’epoca delle osservazioni del pubblico sulla domanda di AIA da parte di Ilva, del sedicente piano di ambientalizzazione, dell’abbattimento della diossina, ecc. Eviterà anche questa volta, per cui gli facciamo alcune domande dalle colonne del quotidiano che ha ospitato la sua riflessione.
Saltiamo a piè pari tutti i discorsi sulle sofferenze e sui lutti che l’inquinamento ambientale di origine industriale provoca nella popolazione ionica: sembrano non interessargli, emulo, in questo, del management delle industrie presenti nell’area di Taranto per il quale tali mali sono inesistenti. Sul tema gli suggeriamo soltanto di leggere i reportage di questi giorni sulle “mamme dei Tamburi e sui loro bambini” e l’articolo dal titolo “Vendola, i bambini aspettano ancora” di Luisa Campatelli, direttore del Corriere del Giorno, pubblicato il 29 luglio.
Ci avventuriamo, così, nel freddo sentiero dell’economia e delle relazioni industriali. Il prof. Pirro ha un passato di dirigente d’azienda locale e un presente di interlocutore e consulente di aziende o di organizzazioni datoriali? Se è così, non avverte nessuna corresponsabilità per i miseri risultati che la sua opera ottiene nella classe imprenditoriale che sembra non ascoltare i suoi consigli? Come fa a mettere in campo i modesti numeri della ex Belleli e della Borsci di S. Marzano mentre si parla degli immensi numeri di Ilva, ENI, ecc.? Come fa ad ignorare le grandi difficoltà che incontrano in loco anche avventurosi imprenditori non tarantini? Come fa a non capire che il rinnovo del contratto per i lavoratori Ilva, proprio in questi giorni dopo un lungo tira e molla, è una mossa nella scacchiera delle azioni che guardano al prossimo referendum su Ilva? Saprebbe spiegare perché Ilva e Sindacati hanno tanta paura di un referendum che è solo consultivo, solo emotivo e non ha nessun effetto pratico? Come d’altro canto è accaduto a referendum abrogativi nazionali vinti ma che, in realtà hanno lasciato le cose come stavano prima del referendum. Perché non dice che la chiusura dell’area a caldo o comunque il drastico ridimensionamento dell’Ilva “siderurgica” di Taranto sarà deciso dal mercato e da Riva quando lo riterrà conveniente per il Gruppo, mentre per la salute dei cittadini sarebbe necessario farlo subito? Lo sa che gli Svedesi, i più importanti produttori di acciai di qualità, hanno rinunciato da una ventina di anni all’area a caldo, lasciandola ai Paesi in via di sviluppo? Pensa sul serio che la “Taranto siderurgica” potrà reggere ancora a lungo la concorrenza di un costo del lavoro di poche centinaia di euro al mese in Brasile, India, Cina, Corea o anche Croazia? Con l’aggiunta degli investimenti richiesti da impianti che, quale più, quale meno, hanno 50 anni? E con quelli richiesti da sempre più stringenti norme di sicurezza e di salute dei lavoratori? Faccio solo un esempio: per quanto tempo in fabbrica i lavoratori e le loro organizzazioni sindacali tollereranno che nell’atmosfera in azienda ci siano livelli di benzo(a)pirene tanto elevati che quello che arriva all’esterno dello stabilimento è tre volte il valore normato?
In definitiva, sorprende, in uno studioso e nell’intera classe dirigente locale e nazionale, la sottovalutazione sia della più che probabile evoluzione del mercato dell’acciaio che avrà pesantissimi riflessi su Taranto, sia del problema ambientale e quello della bonifica a Taranto la cui soluzione è preliminare e ineludibile per qualunque ipotesi di sviluppo ecocompatibile per agricoltura, turismo, industria e commercio. Manca, infine, soprattutto la "visione della Taranto tra 5 - 10 anni", sulla quale impostare progetti, iniziative. Il "Renzo Piano" della Taranto del futuro non potrà ignorare che in questo Paese non c'è una politica industriale, che la Comunità Europea vieterà qualunque aiuto di Stato ad aziende private che operano in concorrenza con altre imprese europee, che le leggi europee su ambiente e sicurezza diventeranno sempre più stringenti (Taranto non potrà restare a lungo "colonia extra europea"). Senza un "sogno" che veda i tarantini come protagonisti diretti, mettendo in campo risorse ed impegno, dovremo giocoforza rassegnarci a vedere tutta Taranto trasformata in qualcosa di molto simile all'ex yard Belleli. Una decina di anni fa si era scatenata la corsa all'Eldorado: Gavio, Marcegaglia e "capitani coraggiosi" locali a farsi una guerra feroce per chi dovesse impossessarsi di quell'area. Dopo quasi 10 anni quello ex yard è l'esempio lampante di come si trasforma una grande opportunità in un desolante cimitero. Pittsburg, Bilbao, Valencia, Hamilton (città in situazioni analoghe a quelle di Taranto) sono esempi di "sogno" divenuto realtà. Il movimento cittadino sta cercando di far partire dal basso il disegno di un “sogno tarantino”.
Altamarea, Taranto 3 agosto 2010
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