lunedì 25 ottobre 2010

Ad Aziendam

Questa inchiesta parla di Sud, del Sud dell'Italia, ma simile alla storia di tanti Sud del Mondo.
Questa inchiesta parla di una città, Taranto, meridionale non solo in termini geografici ma sopratutto in termini di subalternità.
Questa inchiesta parla dei cittadini di Taranto e della loro vita messa a servizio di un modello di sviluppo che ha violentato la loro terra e la loro vita.
Questa inchiesta indaga il rapporto tra grandi interessi e legislazione, in particolare quella ambientale.
Questa inchiesta non ha la pretesa di essere imparziale, anzi è esplicitamente di parte, è dalla parte della gente e di una terra martoriata ma che esprime la dignità che solo una comunità sotto attacco può esprimere.
Questa inchiesta espone dei dati, questi invece oggettivi, ma sopratutto allarmanti.

Taranto è una città pugliese che affaccia sull'omonimo golfo del mar Ionio, circondata dai due mari : il Mar Grande e il Mar Piccolo - bacino di acqua salata che circonda l'isola della Città Vecchia e si apre nel Mediterraneo.
Fondata dagli Spartani,Taranto ha un passato glorioso, Capitale della Magna Grecia in età ellenica e capitale del Regno di Sicilia in epoca Bizantina, terra accogliente da sempre, dal clima mite e dall' agricoltura rigogliosa.
Terra di poeti e guerrieri, terra di pescatori e contadini, almeno fino alla metà del ventesimo secolo.
In epoca moderna infatti la Città dei Due Mari diviene capitale della siderurgia italiana ed inizia un processo di industrializzazione che vedrà sorgere alla periferia nord oltre al più grande stabilimento siderurgico d'Europa numerose altre aziende, in particolare la raffineria Eni e il cementificio Cementir.
Lo stabilimento siderurgico di Taranto nasce all'inizio degli anni '60 come “Quarto Centro Siderurgico” dell' IRI, nell'ambito della strategia di crescita delle Partecipazioni Statali.
Raddoppiato negli anni'70 e privatizzato come Ilva il Primo Maggio del 1995 dal Gruppo Riva, principale produttore nazionale di acciaio,quarto a livello europeo e decimo al mondo.
La privatizzazione fu un passaggio obbligato. Negli anni novanta, infatti, la situazione era diventata insostenibile; da un lato gli operai minacciati dall'ennesimo ridimensionamento, dall'altro uno sperpero aziendale stimato in migliaia di miliardi di debiti verso le banche.
L'Italsider si sosteneva sui contributi dell'Unione Europea che d'innanzi però a tale situazione minacciò il taglio dei fondi dando un accelerata al processo di vendita a privati di quello che era considerato il gioiello dell'industria di Stato nel settore strategico per eccellenza, l'acciaio.
In realtà il Governo già negli anni ottanta aveva affidato l'azienda al giapponese Nakamura, avviando la ristrutturazione degli impianti e dei processi produttivi con la consulenza della Nippon Steel che riuscì a portare gli utili aziendali a 500miliardi.
Il colosso giapponese tentò addirittura di acquistare lo stabilimento ionico con un offerta di duemila miliardi, offerta che fu immediatamente respinta.
I contendenti per il rilevamento dell' Italsider di Taranto erano i gruppi Riva e Lucchini, si andò alle buste e la spuntò il magnate bresciano che sborsò 1400 miliardi.
I debiti rimasero allo Stato che consegnò a Riva uno stabilimento con la produzione a pieno ritmo in cui si stava rifacendo con soldi pubblici l' altoforno-reparto fulcro della produzione- e dove erano stati avviati i prepensionamenti per l'amianto.
Un vero e proprio affare che anticipa di circa un quindicennio la strategia messa in campo dal governo Berlusconi nel salvataggio dell'Alitalia dalle grinfie dei capitali esteri e con i debiti ben spalmati tra tutti i cittadini italiani.
Caso vuole che Riva faccia parte della cordata di imprenditori che ha rilevato il pacchetto azionario della compagnia aerea di bandiera.
Con la sua imponenza l'Ilva è quindi il principale stabilimento dell'area industriale della città di Taranto e sopratutto l'azienda che maggiormente impiega la forza-lavoro locale.
Tuttavia se negli anni settanta l'Italsider contava circa ventimila addetti, con la privatizzazione del '95 si passa agli attuali tredicimila di cui molti con contratti a termine in particolare nelle ditte appaltatrici esterne.
Come detto anche altre importanti aziende oltre a quelle dell'indotto Ilva insistono nel territorio tarantino, la raffineria Eni e la Cementir insieme al colosso siderurgico costituiscono la spina dorsale dell'apparato industriale del distretto ionico.
Eppure Taranto non è considerabile una città a vocazione industriale, mentre Riva fattura migliaia di miliardi la città rimane stabile negli ultimi posti della classifica del Sole24Ore per capacità produttive e imprenditoriali.
Più che una città industriale Taranto è quindi una città industrializzata.
In termini di costi-benefici il rapporto tra grande industria e città si riduce al mero dato occupazionale, nella città con il più alto tasso di disoccupazione in Puglia sembra impossibile pensare di fare a meno di un bacino lavorativo di queste dimensioni.
Eppure i benefici dell'occupazione appaiono traballanti dinnanzi ad un modello di sviluppo che ha nel suo DNA esorbitanti costi in termini di inquinamento, impatto ambientale e paesaggistico e soprattutto di salute pubblica.
La questione ambientale e la salute pubblica hanno infatti sempre animato i dibattiti sull'Italsider prima e sull'Ilva successivamente. Già dagli anni settanta, infatti, l'associazionismo ambientalista locale muove i primi passi convocando manifestazioni pubbliche e momenti di sensibilizzazione sopratutto nel quartiere Tamburi-quello a ridosso dello stabilimento e dei suoi parchi minerali.
Nessuno però poteva immaginare la reale portata dell'inquinamento prodotto dall'Italsider e dalle altre grandi aziende dell'area industriale ma la sensazione che la situazione sfosse drammatica -è proprio il caso di dirlo- era nell' aria.
E infatti nel 1982 la Pretura di Taranto indaga i vertici dell'Italsider per getto di polveri e inquinamento da gas, fumi e vapori.
Il processo che si svolge nello stesso anno vede la costituzione di parte civile non solo di associazioni ambientaliste ma anche del Comune di Taranto, tuttavia nel corso dell'anno l'orientamento dell'Amministrazione comunale cambia e quasi alla vigilia della sentenza il sindaco dell'epoca Giuseppe Cannata -in quota PCI- annuncia la revoca della costituzione di parte civile per motivi di opportunità politica.
Il processo si conclude con la condanna del direttore dello stabilimento Italsider a quindici giorni di arresto con l'accusa di getto di polveri nell'aria ma non di fumi, gas e vapori.
Intanto nel 1986 viene istituito il Ministero dell'Ambiente che nel 1991 dichiara l'area di Taranto “Area ad elevato rischio ambientale” e tramite l'ENEA avvia il “Piano di disinquinamento e risanamento del territorio della provincia di Taranto”.
Dopo otto anni di attesa arriva il tanto agognato “Piano di Risanamento Ambientale”, ma nonostante i tempi stringenti fissati nell'Atto d'Intesa Ilva-Regione, che nel frattempo aveva assunto la competenza speciale in materia ambientale, il rispetto delle fasi di attuazione viene completamente disatteso.*
Quanto inquina l'Ilva però non è mai del tutto chiaro, solo all'indomani del 2000 dati parziali quanto spaventosi iniziano ad essere diffusi e recepiti dalla città.
I dati del disastro ambientale non lasciano nessun dubbio, i record per cui passerà alla storia l'Ilva non sono legati né alla grandezza dell'impianto né alla sua capacità produttiva ma per i livelli di inquinamento scatenati dalle sue emissioni.
Taranto viene nuovamente incoronata capitale, questa volta della diossina.
Dal camino E-312 l'Ilva emette il 92% della diossina industriale italiana secondo le stime dell'INES del 2006. Inizia cosi la battaglia di cifre e percentuali tra direzione aziendale e le istituzioni incaricate al controllo delle emissioni. L'Ilva, dopo anni di silenzio, rende noto un dato sulle emissioni di diossina: si parla di 91,5g/anno.
L'Arpa -agenzia regionale per l'ambiente- ne comunica 172g/anno.
In realtà anche il dato aziendale è spaventoso se si pensa che il totale delle emissioni dichiarate dalle aziende italiane al registro INES è di 99g/anno.
Considerando i valori assoluti, ossia i quantitativi annui di diossina che non possono essere manipolati con percentuali, l'Ilva, con i suoi 172g/anno stimati dalle proiezioni dell'Arpa Puglia per il 2008, emette più diossina di Spagna, Svezia, Regno Unito e Austria tutte assieme che ne emettono complessivamente 166,6g/anno secondo il registro europeo Eper del 2004. Tuttavia ciò che lascia senza parole è che secondo stime dell'Agenzia Regionale per l'Ambiente prima del 2000 l'Ilva emetteva valori 5 volte superiori a quelli registrati nel 2008.
I dati sulla diossina sono scioccanti per l'intera comunità tarantina, scatta un vero e proprio allarme ambientale, le dimensioni del disastro sono talmente rilevanti, che neanche il paragone con il disastro di Seveso del 1976 regge il confronto.
A Seveso, infatti, fuoriuscirono 2,5kg di diossina, a Taranto dal 1963 al 2008 ne sono stimati 7,740kg, l'equivalente di oltre 3 distastri come quello di Seveso. Gli effetti della diossina sono impressionanti, la bioaccumulazione ha portato a rilevare diossina nel latte materno e all'abbattimento di capi di bestiame che pascolavano nelle zone limitrofe allo stabilimento, ma tra gli effetti più devastanti occorre ricordare il danno genotossico con la trasmissione di un DNA “difettoso” dai genitori ai figli.
A seguito dell'indignazione per i dati emersi sulla diossina, il movimento ambientalista di Taranto trova nuovo slancio e dopo numerose iniziative di sensibilizzazione, si arriva al grande corteo del 29 Novembre 2008, con oltre ventimila persone che sfilano per le vie del centro cittadino, manifestazione che sarà ripetuta con lo stesso successo in termini di partecipazione anche l'anno seguente.
In risposta a tale mobilitazione il Ministro per l'Ambiente Prestigiacomo, a fronte di generiche dichiarazioni di interessamento sul caso Taranto, annuncia un Consiglio dei Ministri straordinario e monotematico da tenere nella Città dei Due Mari (sigh!), Consigli dei Ministri che non si è mai tenuto. Il Ministro Prestigiacomo non si limita a questo, ma mettendo in discussione l'attendibilità dei dati Arpa, si schiera di fatto con il Gruppo Riva.
Il Consiglio Regionale, intanto, approva la nuova legge sulle emissioni di diossina, imponendo a tutti gli impianti di rispettare i limiti alle emissioni di 0,4 nanogrammi all'ora, in linea con quanto dichiarato dal protocollo di Aarhus, attraverso l'adeguamento alle BAT – Best Available Techniques – indispensabili per il rilascio dell'AIA – Autorizzazione Integrata Ambientale.
Nel 2009 con l'inaugurazione dell'impianto all'Urea, l'Ilva promette di abbattere i livelli di diossina provenienti dal camino E-312 portando ai limiti imposti dalla nuova legge regionale, tuttavia tale legge mostra ancora lacune non di poco conto: il punto debole riguarda i controlli.
Il campionamento delle emissioni non è continuo, ma a settimane alterne e solo per le otto ore diurne previo avviso dei tecnici Arpa all'Azienda.
Ma non è solo la diossina a rendere preoccupanti i dati sull'inquinamento di Taranto, a tenere banco in questo momento è la questione benzo(a)pirene, elemento facente parte degli IPA – Idrocarburi Policiclici Aromatici – emesso in quantità consistenti dal reparto cockeria dello stabilimento Ilva. Anche in questo caso i dati sono disarmanti: nel quartiere Tamburi si è verificata un incidenza delle malattie legate all'apparato respiratorio di gran lunga superiore alla media nazionale. L'Agenzia Internazionale di Ricerca sul Cancro ha classificato il benzo(a)pirene al vertice degli agenti inquinanti per pericolosità, se inalato può provocare il cancro, se ingerito può insinuarsi nella catena alimentare e diventare cancerogeno. Si stima che un bambino del quartiere Tamburi che frequenta la prima elementare, nella su giovane vita, abbia già fumato l'equivalente di 5200 sigarette; l'Ilva emette 1,3 nanogrammi per ongi metro cubo d'aria di benzo(a)pirene, il 93% secondo stime Arpa di PM10 – di cui fa parte il benzo(a)pirene – rilevato in Puglia è di origine industriale.*
Questa situazione, fino a pochi mesi fa, andava contro il disegno legislativo n. 152 del 2007 che dava il potere agli enti locali di adottare qualsiasi misura – anche la chiusura degli impianti inquinanti- al fine di mantenere le emissioni di benzo(a)pirene al di sotto di 1ng/m^3. Misure che sono state prese, ad esempio, dal comune di Genova, che nel 2002 ha imposto la chiusura della sede ligure dell'Ilva a causa degli effetti che i fumi dell'impianto siderurgico avevano sullo stato di salute dei residenti del quartiere di Cornigliano.
Dal primo Ottobre, invece, il dlgs. n. 155 stabilisce che il limiti di 1ng/m^3 non è più vincolante e si trasforma in un valore-obiettivo da raggiungere entro il 2013, non solo, al giungere della scadenza il valore-obiettivo andrà rispettato solo se le misure da adottare comporteranno costi ragionevoli.
In seguito alla chiusura dell'impianto genovese si è registrato un crollo dell'incidenza dei malati di cancro nelle zone adiacenti l'area industriale, la vittoria genovese beffardamente però ricade sulla salute dei cittadini pugliesi, la produzione dello stabilimento di Cornigliano è stata infatti assorbita da quello di Taranto, costretto quindi a spingere al massimo i propri impianti.
Con una legge “ad Aziendam” è stata quindi spazzata via una precedente legislazione che poteva ritenersi d'avanguardia in fatto di tutela della salute pubblica, strano è che questa legge sia stata modificata all'indomani di un ordinanza del sindaco di Taranto Ezio Stefano - incalzato dal movimento ambientalista – in cui si intimava l'Ilva di riportare le proprie emissioni inquinanti al di sotto dei limiti di legge entro i trenta giorni.
Diossina e benzo(a)pirene costituiscono solo la punta di un iceberg di dimensioni spaventose, tra le tante sostanze inquinanti riscontrate nell'aria di Taranto, un posto d'onore va assegnato al berillio, che ha contaminato persino l'asfalto del quartiere Tamburi, dove non è possibile rifare il manto stradale, vista l'enormità dei costi di smaltimento dell'asfalto presente, che richiederebbe un procedimento speciale.
Oltre al berillio vanno citate le 2,5 tonnellate di mercurio versate in aria e acqua secondo il registro INES del 2005 – e pensare che dal 2009 il mercurio è vietato persino nei termometri – oltre a piombo, benzene, PCB e arsenico.
In questo contesto l'Ilva ha promosso e realizzato il rapporto ambiente e sicurezza del 2009 in cui, oltre a dipingere l'impianto di Taranto come ad un passo dall'eco-sostenibilità, si concede a vere e proprie provocazioni, come nel caso delle misure per mettere in sicurezza e neutralizzare le emissioni di polveri dei parchi minerali attraverso la bagnatura* degli stessi, mentre nel resto del mondo devono essere necessariamente coperti.
Intanto con la sentenza n. 38936 del 2005 la Cassazione condanna i vertici dell'Ilva per disastro ambientale, entro pochi giorni la Provincia di Taranto potrebbe inoltrare la richiesta di risarcimento danni in quanto costituitasi parte civile insieme ai comuni di Taranto e Statte che invece hanno già depositato l'istanza.
Se pur quei soldi non restituirebbero area pulita e case meno sporche di polveri minerali, ci sarebbe la possibilità di ricevere quanto meno un po' di denaro, visto che l'Ilva, da quindici anni, si rifiuta di pagare l'ICI comunale, e avendo la ragione sociale dell'azienda in Lombardia, non solo ingrossa il PIL lombardo, ma in Lombardia il Gruppo Riva paga le sue tasse, lasciando al territorio tarantino solo i costi sociali del suo modello di produzione.
Attraverso il risarcimento potrebbe essere restituita alla città di Taranto almeno una piccola parte di quella ricchezza economica che produce da 50 anni, sperando che, almeno in questo caso non ci si ritrovi d'innanzi al solito balletto dei protocolli di intesa con gli enti locali sempre inclini ad essere disattesi.
Come si diceva nell'introduzione, questa è una storia di subalternità ma anche di dignità, che nulla ha a che vedere con gli spiccioli di un eventuale risarcimento.
Questa inchiesta ha voluto rimettere al centro i cittadini e le cittadine di Taranto, ma anche chi in quello stabilimento ci lavora.
Cosimo Argentina, scrittore tarantino emigrato in Brianza, scrisse in un articolo apparso sul Corriere del Giorno “Un uomo non è fatto per lavorare in quell’inferno, magari nel turno di notte. Un uomo è fatto per vivere una vita decente, giocarsi qualche chance, innamorarsi se capita e poi sperare in un finale dignitoso”.
Questa inchiesta vuole essere un piccolo passo verso quel finale, dignitoso, appunto.

NOTE:
· Taranto, i dati del disastro ambientale a cure di PeaceLink-www.peacelink.it

· Cronistoria dell'industrializzazione a Taranto dal 1957 al 2009 -nodiossina.regione.puglia.it

· Rapporto Ambiente e Sicurezza 2009 -www.ilvataranto.com

Alessandro Terra (Globalproject)

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