Est. Martino Rosati Impp. Riva Emilio ed altri
Tra gli argomenti trattati: art. 437, c.p.; art. 674, c.p., anche in rapporto con le leggi speciali anti-inquinamento; costituzione di parte civile delle associazioni ambientaliste dopo il T.U. n° 152/06.
MOTIVI DELLA DECISIONE
SOMMARIO
Capitolo I – IL PROCESSO
1. – Le fasi principali.2. – L’istruttoria dibattimentale.
3. – Conclusioni delle parti.
4. – Ordinanze istruttorie e “sul processo”: rinvio.
Capitolo II – I FATTI RIGUARDANTI LE COKERIE (capi A, B e C dell’imputazione)
1. – Premessa.2. – La vicenda storica delle cokerie.
3. – L’omessa predisposizione di cautele contro gli infortuni sul lavoro (capo A dell’imputazione).
4. – segue: L’individuazione dei soggetti responsabili.
5. – Le contravvenzioni di cui al D.P.R. n° 303 del 1956 (capo B).
6. – L’inosservanza dell’ordinanza del Sindaco di Taranto n° 244 del 22 maggio 2001 (capo C).
capitolo III – I REATI IN MATERIA DI INQUINAMENTO DA PARTE DELL’“ILVA” (capi D, E e F dell’imputazione).
1. – Premessa.2. – La contravvenzione di cui all’art. 25, co. 3 e 4, D.P.R. 24 maggio 1988, n° 203 (capo E).
3. – La contravvenzione di cui all’art. 674, cod. pen. (capo D).
4. – Il danneggiamento di arredi urbani ed edifici pubblici (capo F).
Capitolo IV – I REATI CONTESTATI AI DIRIGENTI “AGIP” (capi G, H ed I dell’imputazione).
1. – La violazione dell’art. 25, D.P.R. n° 203/1988 ed il danneggiamento (capi H ed I).2. – La contravvenzione prevista dall’art. 674, cod. pen. (capo G)
capitolo V – TRATTAMENTO SANZIONATORIO E STATUIZIONI CIVILI.
1. – Le sanzioni penali principali ed accessorie.
2. – Le statuizioni civili.
capitolo I – IL PROCESSO
1. – Le fasi principali.
Il processo si è svolto nelle forme del rito ordinario.Gli imputati sono stati deferiti all’intestato Tribunale monocratico con decreto emesso dal G.u.p. in sede il 12 maggio 2005.
Già in fase di udienza preliminare si era costituita la parte civile “U.I.L. Provinciale” di Taranto, in persona del suo segretario e legale rappresentante pro tempore Francesco Sorrentino.
Degli imputati, è comparso in giudizio il solo Elefante; tutti gli altri sono rimasti contumaci.
Alla prima udienza, tenutasi il 7 dicembre 2005, si è costituita la parte civile “Legambiente Puglia”, in persona del suo presidente e legale rappresentante pro tempore Francesco Tarantini. Trattandosi di udienza di mero smistamento ad altro ruolo, il giudice ha rinviato facendo salve tutte le facoltà delle parti.
All’udienza del 9 gennaio 2006, i difensori degli imputati hanno eccepito la nullità del decreto che ha disposto il giudizio, per violazione dell’art. 429, co. 1, lett. a) e c), co. 2 e co. 4, c.p.p., ed hanno chiesto la esclusione di entrambe le parti civili dal processo, per difetto di legittimazione attiva; la difesa di Emilio Riva ha eccepito altresì la nullità della notifica del medesimo decreto al proprio assistito, perché eseguita in luogo diverso dal domicilio eletto ed a mani di persona diversa dal destinatario. Il giudice, con ordinanza scritta, letta in udienza ed allegata al relativo verbale, ha respinto le eccezioni di nullità ed ha disposto la rinnovazione della predetta notifica all’imputato Emilio Riva, riservandosi di decidere sulle questioni riguardanti parti civili all’esito della compiuta costituzione degli imputati.
Alla successiva udienza, tenutasi il 6 marzo 2006, ritualmente instaurato il contraddittorio anche con l’imputato Emilio Riva, il giudice, sciogliendo la precedente riserva, ha respinto la richiesta di esclusione delle parti civili, con ordinanza scritta, letta in udienza ed allegata al verbale. Quindi la difesa degli imputati interessati ha chiesto la sospensione del processo, a norma dell’art. 23, D.L.vo n° 758/1994, in relazione alla contravvenzione contestata al capo B) dell’imputazione. Il giudice ha respinto tale richiesta, con ordinanza trascritta a verbale. Dopo di che, è stato dichiarato aperto il dibattimento e le parti hanno formulato le rispettive richieste istruttorie, ammesse dal giudice, in quanto conformi al disposto dell’art. 190, c.p.p..
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L’attività istruttoria si è articolata in tredici udienze, a partire da quella dal 13 marzo e sino a quella del 20 novembre 2006, attraverso l’assunzione delle prove orali e documentali meglio indicate nei paragrafi seguenti, portate in giudizio da tutte le parti processuali.
Il processo è stato sospeso all’udienza del 10 luglio 2006 ed a quella successiva del 18 settembre 2006, per l’adesione dei difensori ad altrettante astensioni di categoria. In relazione alla stabilita durata di queste, è stata disposta la sospensione del decorso dei termini di prescrizione dei reati – a norma dell’art. 159, co. 1, n° 3, c.p. – per il periodo, rispettivamente, di due mesi ed otto giorni e di 21 giorni.
All’udienza del 16 ottobre 2006, il P.M. ha contestato agli imputati Emilio Riva e Capogrosso la recidiva reiterata, specifica ed infraquinquennale. La contestazione è stata inserita a verbale e quest’ultimo, ai sensi dell’art. 520, c.p.p., è stato notificato agli imputati, in quanto contumaci.
All’udienza del 20 novembre 2006, è stata dichiarata chiusa l’istruttoria dibattimentale e si è proceduto alla indicazione degli atti utilizzabili ai fini della decisione, a norma dell’art. 511, co. 4, c.p.p..
La discussione ha avuto inizio alla successiva udienza del 18 dicembre 2006, allorchè hanno rassegnato ed illustrato le rispettive conclusioni i rappresentanti del Pubblico Ministero, i difensori delle parti civili e l’avv. Panagia (che ha altresì depositato memoria scritta con allegati) per l’imputato Elefante.
All’udienza dell’8 gennaio 2007, hanno discusso gli avv. Raffaelli ed Albanese per gli imputati Capogrosso e Pensa, nonché gli avv. Maggi e Chiatante (con memoria scritta ed allegati) per gli imputati Moroni ed Elefante. A mente del combinato disposto degli artt. 507 e 523, c0. 6, c.p.p., il giudice ha acquisito due precedenti sentenze irrevocabili emesse nei confronti degli imputati Emilio Riva e Capogrosso, ai fini previsti dall’art. 236, c.p.p..
All’udienza del 15 gennaio seguente, ha concluso la discussione l’avv. Mattesi per entrambi i Riva. La difesa della parte civile “U.I.L.” ha depositato memoria scritta.
All’odierna udienza, sono state allegate a verbale due memorie scritte depositate nelle more in cancelleria da ciascuno dei difensori delle due parti civili. Hanno replicato gli stessi difensori nonché l’avv. Mattesi.
Indi la causa è stata decisa, con dispositivo letto in udienza e motivazione riservata, a norma dell’art. 544, co. 3, c.p.p..
2. – L’istruttoria dibattimentale.
Gli elementi di prova raccolti in dibattimento, su richiesta delle parti ovvero per iniziativa officiosa del giudice, possono sintetizzarsi nei termini che seguono, quasi a guisa di indice, sulla base delle varie udienze in cui sono stati acquisiti, distinguendo tra prove orali e documentali.Va sin d’ora precisato, tuttavia, che eventuali elementi ulteriori, essenzialmente di carattere documentale, qualora rilevanti ai fini della decisione, saranno compiutamente indicati in parte motiva, laddove si tratterà delle circostanze e delle questioni cui gli stessi si riferiscono.
2.1. - Su richiesta del Pubblico Ministero hanno reso testimonianza od esame le seguenti persone, alle udienze e sui temi per ciascuno sommariamente indicati:
- ud. 13.3.2006: dr.ssa Rossana DI BELLO e dr. Gianni FLORIDO, rispettivamente Sindaco di Taranto e Presidente della Provincia di Taranto, entrambi sulle tematiche generali dell’inquinamento ambientale dell’area tarantina nonché sulle iniziative intraprese e le attività compiute in materia da ciascuno di essi nelle rispettive qualità istituzionali; Aldo PUGLIESE e Francesco SORRENTINO, segretari, rispettivamente, della “U.I.L. Regionale Puglia” e della “U.I.L. Provinciale” di Taranto, sulle medesime tematiche generali e, più specificamente, sui rapporti tra i loro sindacati e le aziende rappresentate dagli imputati nonché sull’attività del sindacato in materia ambientale e di tutela dei lavoratori dai rischi connessi all’insalubrità degli ambienti di lavoro;
- ud. 20.3.2006: Luciano MINEO, vice-presidente del Consiglio della Regione Puglia e già vice-presidente della Commissione Ambiente del medesimo Consiglio; Carmine DE GREGORIO, già consigliere comunale di Taranto e vice-presidente della Commissione Ambiente del Comune di Taranto; Walter SCOTTI, già segretario provinciale del partito dei “Verdi”: tutti sulle tematiche generali dell’inquinamento ambientale dell’area tarantina nonché sulle iniziative intraprese e le attività compiute in materia da ciascuno di essi nelle rispettive qualità; Anselmo BRIGANTI, residente nel quartiere cittadino denominato “Tamburi”, sui fenomeni di inquinamento nell’ambito del quartiere;
- ud. 27.3.2006: Francesco FERULLI, componente dell’associazione ambientalista denominata “Galesus” ed operante nel quartiere “Tamburi”, sui fenomeni di inquinamento nell’ambito del quartiere medesimo; ing. Michele MIRELLI, già funzionario dirigente della “Direzione ambiente e qualità della vita” del Comune di Taranto, sui rapporti tra quest’ultimo e le aziende operanti nell’area industriale, nonchè sulle iniziative e le attività intraprese da codesto ente territoriale in materia ambientale e, in particolare, sulla campagna di monitoraggio dell’aria dallo stesso eseguita; ing. Guido COLAVINI, già dirigente “Ilva” e consulente del Comune di Taranto per la materia ambientale, sulle medesime circostanze del teste Mirelli; isp. Michele TRIA, funzionario tecnico del “Dipartimento di prevenzione, igiene e sanità pubblica” della A.s.l., sull’attività eseguita al fine di verificare l’ottemperanza o meno, da parte dell’”Ilva”, dell’ordinanza del Sindaco di Taranto del 22.5.2001, di cui al capo C) della rubrica; dr. Alessandro MARESCOTTI, responsabile della rete informativa telematica “Peace link”, sull’attività svolta da tale organismo in merito alle condizioni di lavoro nel reparto cokerie dell’”Ilva”; m.llo Antonio MORCIANO, all’epoca comandante del “N.o.e.” dei Carabinieri di Bari, sulle indagini svolte in ordine alle cariche ricoperte dagli imputati;
- ud. 10.4.2006: m.llo Giampiero MASTROMARINO, anch’egli in servizio presso il “N.o.e.” dei Carabinieri di Bari, sulla stessa posizione del suo collega Morciano nonché sulla situazione dei luoghi riscontrata presso il reparto cokerie dell’”Ilva”; Danilo CROCCO, Giuseppe GENTILE, Domenico GUARINO e Paolo GULINO, tutti consiglieri della Circoscrizione comunale “Tamburi” ed abitanti tutt’ora, o comunque in precedenza, in quel quartiere, sui fenomeni di inquinamento avvertiti dai residenti; sull’accordo delle parti ed in luogo delle rispettive testimonianze, sono stati acquisiti i verbali di sommarie informazioni rese agli inquirenti durante le indagini preliminari da Salvatore DI PASQUALE e Gaetano BLE’, anch’essi già consiglieri di quella circoscrizione, sempre sulle medesime circostanze;
- ud. 15.5.2006: dr. Roberto GIUA, chimico già in servizio presso lo “Spesal” della locale A.s.l., sulle condizioni strutturali del reparto cokerie dell’”Ilva” e sui risultati di un’indagine relativa a tali impianti, da lui svolta nel 1996; isp. Bruno GIORDANO, in servizio presso la A.s.l., sulle indagini svolte in relazione in merito alle condizioni strutturali del reparto cokerie dell’”Ilva”, con particolare riguardo ai fatti di cui al capo B) dell’imputazione; Andrea LORUSSO, attuale presidente della circoscrizione “Tamburi”, sulle iniziative intraprese in tale sua qualità in materia ambientale;
- ud. 22.5.2006: Marco AMATI, Francesco SECONDO, Pietro VENTRUTI, Vito MARINARO, Fedele CRISTOFARO, Gaetano LADIANA, Michele SISTO, Ciro PIERGIANNI, Franco SPATARO, Giuseppe SCIALPI, Giovanni BRAMANTE, Bonaventura D’APRILE e Mario VIPERA: tutti già operai presso il reparto cokerie dell’”Ilva” (tranne l’ultimo, tutt’ora costì occupato), sulle condizioni strutturali e di lavoro; sull’accordo delle parti e ad integrazione delle testimonianze di costoro, sono stati acquisiti anche i verbali delle sommarie informazioni dagli stessi rese agli inquirenti durante le indagini preliminari; ed altrettanto è avvenuto per altri due operai, Pietro SCORRANO e Giorgio FIORE, in luogo delle rispettive testimonianze;
- ud. 29.5.2006: dr. Michele CONVERSANO, dirigente del “Dipartimento di prevenzione” della A.s.l. di Taranto; dr. Ermanno CORBO, primario del reparto di pneumologia della A.s.l. TA-1; dr. Onofrio LATTARULO, dirigente dell’ “A.r.p.a.” Puglia: tutti consulenti tecnici nominati dal P.M. nel corso dell’attività di perizia disposta dal G.i.p. con le forme dell’incidente probatorio, sull’attività tecnica da ciascuno svolta;
- ud. 12.6.2006: ing. Giovanni CARBOTTI e dr.ssa Maria SPARTERA, sull’attività e sui risultati della perizia collegiale disposta dal G.i.p. durante le indagini con le forme dell’incidente probatorio, in relazione ai fatti di cui ai capi D) – F) dell’imputazione;
- ud. 19.6.2006: prof. Lorenzo LIBERTI, prof. Giorgio ASSENNATO, prof. Michele GIUGLIANO, prof. Vincenzo CAPRIO: sull’attività ed i risultati della consulenza tecnica da loro eseguita su incarico del P.M., nelle forme di cui all’art. 360, c.p.p., riguardo alle condizioni strutturali, la gestione e le ricadute sull’ambiente e sulla salute dei lavoratori delle cokerie di cui al capo A) dell’imputazione; ing. Candido MORAMARCO, consulente tecnico nominato dal P.M., per indicare le modalità tecniche più opportune per dare esecuzione al sequestro preventivo disposto dal G.i.p. durante le indagini;
- ud. 3.7.2006: dr. Giovanni ZIEMACKI, dr. Giuseppe VIVIANO e prof. Michele QUARTO: ulteriori componenti del collegio peritale nominato dal G.i.p., unitamente ai predetti Carbotti e Spartera.
2.2. – Su richiesta delle difese degli imputati rispettivamente interessate, invece, hanno reso testimonianza od esame le seguenti persone, alle udienze e sui temi per ciascuno sommariamente indicati:
- ud. 9.10.2006: dr. Gian Paolo TALPONE, dirigente amministrativo dell’”Ilva s.p.a.”, sulle cariche ricoperte dagli imputati Claudio ed Emilio Riva, Capogrosso e Pensa all’interno dell’organizzazione aziendale, nonchè sui poteri e le competenze loro attribuiti dallo statuto e dagli altri atti normativi interni; prof. Ivo ALLEGRINI e prof. Vito FOA’, consulenti tecnici nominati dalla difesa dei predetti imputati durante la perizia eseguita su incarico del G.i.p.; prof. Pierluigi GIACOMELLO ed ing. Lucia FRASCAROLI, consulenti tecnici della difesa degli imputati Moroni ed Elefante, a confutazione delle circostanze e delle valutazioni di ordine tecnico evidenziate dai periti del G.i.p. e sottese alle imputazioni a costoro elevate;
- ud. 16.10.2006: dr.ssa Vittoria ROMEO ed ing. Gaetano DI TURSI, rispettivamente responsabile dei rapporti istituzionali per l’”Ilva s.p.a.” e funzionario tecnico della stessa addetto alle tematiche ambientali, sulle politiche e gli investimenti adottati dall’azienda nel settore ambientale; prof. Domenico LA FORGIA, ulteriore consulente tecnico della difesa dei Riva, sulle modalità operative delle cokerie e sugli investimenti nel tempo compiuti dall’”Ilva” su tali impianti; prof. Filippo CASSANO, ulteriore consulente tecnico della difesa di Moroni ed Elefante, sulle medesime circostanze degli altri suoi colleghi.
2.3. - Le principali prove documentali offerte al giudicante, invece, possono indicarsi nei termini di cui appresso, anche in questo caso facendo riferimento alle udienze nelle quali sono state prodotte o, comunque, ai verbali delle udienze in cui sono state inserite.
Ai sensi dell’art. 431, c.p.p., risultavano raccolti nel fascicolo del dibattimento, sin dalla sua formazione operata dal G.i.p., i seguenti documenti:
- relazione di perizia eseguita su incarico del G.i.p. in sede di incidente probatorio (ing. Carbotti ed altri); verbali di prelievo dei campioni esaminati dai periti; verbali delle udienze tenutesi dinanzi al G.i.p. ed atti a queste relativi;
- relazione dei consulenti tecnici della difesa degli imputati Riva, Capogrosso e Pensa, con i relativi allegati;
- relazione di consulenza tecnica, svolta ex art. 360, c.p.p., su incarico del P.M. (prof. Liberti ed altri), riguardo alle cokerie, con relativi allegati;
- relazione di consulenza tecnica per conto del P.M. (prof. Meschinelli e ing. Moramarco), sulle modalità di spegnimento delle cokerie oggetto di sequestro;
- decreto di sequestro preventivo delle batterie 3-6 della cokeria “Ilva”, emesso dal G.i.p.-sede il 10 settembre 2001, con relativa richiesta del P.M. ed atti vari e consequenziali, tra cui il successivo decreto di dissequestro, adottato dal P.M. il 16 dicembre 2002;
- protocollo di intesa tra “ILVA s.p.a.” ed enti territoriali del 22 maggio 2002;
- informativa inviata in data 12.7.2003 dallo “Spesal” della A.s.l. di Taranto alla locale Procura della Repubblica, firma degli ispp. De Pasquale e Giordano, sull’attività da quell’ufficio svolta presso il reparto cokerie dell’”Ilva”, con gli atti ed i documenti acquisiti nel corso della stessa o comunque a questa relativi.
- ud. 6.3.2006: ordini di servizio del presidente dell’”Agip” nn. 816/1996, 1027/1999 e 1086/2000, relativi agli incarichi aziendali degli imputati Moroni ed Elefante;
- ud. 13.3.2006: ordinanze del Sindaco di Taranto nn. 36 e 64 del 2001, relative al fermo delle batterie 3-6 della cokeria “Ilva”; nota di risposta dell’”Ilva” del 16.2.2001; nota datata 8.11.2000 ed inviata alla Regione Puglia ed al Sindaco di Taranto dal dirigente del P.m.p. della A.s.l. TA-1; atti di intesa tra “ILVA s.p.a.”, enti territoriali ed organizzazioni sindacali stipulati in data 8.1.2003, 27.2.2004 e 15.12.2004, con relative note di sintesi su impegni e stato di esecuzione; D.P.R. 23.4.1998, n° 196, di “Approvazione del piano di disinquinamento per il risanamento del territorio della provincia di Taranto”; bollettini epidemiologici redatti dalla A.s.l. di Taranto relativamente agli anni 1996 e 1998;
- ud. 27.3.2006: nota a firma dell’ing. Colavini, datata maggio 2001, contenente stima della produzione di coke da parte dello stabilimento “Ilva” di Taranto; ordinanze di immediata sospensione dell’esercizio delle batterie 3-6 del reparto cokeria dell’”Ilva”, emesse dal Sindaco di Taranto il 22.5.2001 (n° 244) e l’11.6.2001 (n° 291); ricorsi presentati dall’”ILVA s.p.a.” al T.A.R. della Puglia – Sez. di Lecce, avverso le predette ordinanze del Sindaco; “Rapporti sugli effetti delle contromisure adottate da Ilva per il contenimento delle emissioni ed il miglioramento del livello di pulizia degli impianti”, elaborati nel 2001 dal “Comitato tecnico misto” istituito dall’amministrazione comunale di Taranto con specifico riferimento alle cokerie dell’”Ilva”, con relative schede di rilevazione e documentazione di riferimento; prospetti riassuntivi ed atti relativi alla rete di monitoraggio dell’inquinamento atmosferico allestita dal Comune di Taranto; delibera della Giunta municipale di Taranto n° 862 del 27.12.2004, di revoca di quelle precedenti con le quali il medesimo organo aveva disposto che il Comune si costituisse parte civile in vari processi penali in corso contro organi e funzionari dell’”Ilva”;
- ud. 10.4.2006: relazione di servizio del 7.2.2001 del “N.o.e.” – Carabinieri di Bari su controlli eseguiti presso la raffineria “Agip” di Taranto; comunicazione di notizia di reato del “N.o.e.” – Carabinieri di Bari del 21.2.2001, relativa ad accertamenti eseguiti presso lo stabilimento “Ilva” di Taranto, con allegati rilievi fotografici; verbali del “N.o.e.” – Carabinieri di Bari, relativi all’attività di assistenza ai campionamenti personali eseguiti, nei giorni 15 e 16 maggio 2002, sugli operai addetti alle batterie nn. 3 e 4 del reparto cokeria dell’”Ilva”, nel corso della consulenza tecnica eseguita dal collegio del prof. Liberti;
- ud. 15.5.2006: verbale dell’ispezione eseguita il 13.6.2001 dai funzionari tecnici dello “Spesal” della A.s.l. Giordano e De Pasquale presso il reparto cokeria dello stabilimento “Ilva” di Taranto, con le relative prescrizioni ex art. 20, D.L.vo n° 758/1994; relazione tecnica redatta dal dr. Giua il 7.8.1996, sulle condizioni delle cokerie “Ilva”;
- ud. 29.5.2006: relazione dei consulenti tecnici del P.M. Conversano, Corbo, Lattarulo e Di Francesco, con allegata documentazione di riferimento, acquisita ex art. 501, co. 2, c.p.p.; prospetto riepilogativo dei risultati dell’indagine statistica condotta dal “Dipartimento di prevenzione” della A.s.l. di Taranto, sulla mortalità per neoplasie nell’area jonica, nel periodo 1998 – 2002;
- ud. 19.6.2006: nota dell’”ILVA s.p.a.” del 31.7.2001, con allegato prospetto dei principali interventi per il miglioramento della cokeria dello stabilimento di Taranto, effettuati nel periodo 1995 – 2001; estratto di una pubblicazione dell’“A.I.D.I.I” (Associazione italiana degli igienisti industriali), contenente la definizione dei “valori limite di soglia” di esposizione ad agenti inquinanti negli ambienti di lavoro; estratto della direttiva della Commissione Europea, contenente le indicazioni delle cc.dd. “b.a.t.” (best available techniques) nel settore della produzione siderurgica, alla data del dicembre 2001;
- ud. 9.10.2006: statuto dell’”ILVA s.p.a.” del 3.7.2000; verbali dei consigli di amministrazione dell’”ILVA s.p.a.” del 18.10.1999 e del 24.7.2000, contenenti una specificazione dei poteri e delle competenze spettanti ai vari organi amministrativi della società; convenzione tra “ILVA LAMINATI PIANI s.p.a” e l’imputato Capogrosso del 15.11.1996, avente per oggetto il conferimento a quest’ultimo della funzione di direttore dello stabilimento di Taranto, con indicazione dei relativi poteri e doveri; relazioni dei consulenti tecnici delle difese degli imputati, acquisite ex art. 501, co. 2, c.p.p.;
- ud. 16.10.2006: certificazioni di qualità rilasciate ad “Ilva” e “Agip”; referti dei campionamenti eseguiti dall’”A.r.p.a.” Puglia sulle emissioni da parte dei camini della raffineria “Agip” di Taranto, relativamente agli anni 2002 – 2005; carteggio intercorso tra il dirigente del “Presidio multizonale di prevenzione” della A.s.l. di Taranto e la direzione dell”Ilva”, negli anni 1997 – 2001, con gli atti pubblici e la relativa documentazione di riferimento, riguardanti in particolare la questione delle ricadute ambientali dell’esercizio della cokeria “Ilva”;
- ud. 20.11.2006:atto di intesa del 23.10.2006 tra “ILVA s.p.a”, enti territoriali, organizzazioni sindacali, prefetto ed organi tecnici territoriali; delibere ed atti relativi ai lavori di ripulitura e ripristino del cimitero cittadino e di un campo sportivo, entrambi situati nel quartiere denominato “Tamburi”; documento di valutazione dei rischi, ex art. 4, D.L.vo n° 626/1994, redatto dall’”ILVA s.p.a” in relazione agli impianti di cokeria dello stabilimento di Taranto;
- ud. 8.1.2007: sentenze della Corte di Cassazione, sez. III pen., n° 1653 del 28.9.2005, e sez. VI pen., n° 376 del 2006, nei confronti degli imputati Emilio Riva e Capogrosso; nota del presidente dell’”AGIP Petroli s.p.a.” del 22.12.1997, diretta all’imputato Elefante contenente la specificazione dei poteri connessi alla funzione di direttore della raffineria di Taranto; nota dell’Assessorato ambiente della Regione Puglia del 17.1.1996, sulle emissioni in atmosfera rilevate presso la raffineria “Agip” di Taranto;
- ud. 12.2.2007: certificati del casellario giudiziale degli imputati.
3. – Conclusioni delle parti.
Le conclusioni rassegnate ed illustrate dalle parti in sede di discussione finale possono sintetizzarsi nei termini che seguono, comunque rinviandosi a quanto trascritto nei relativi verbali d’udienza.s Pubblico ministero: – condanna degli imputati Emilio Riva, Capogrosso e Pensa per tutti i reati loro ascritti, unificati per continuazione, alle seguenti pene: i primi due, 3 anni e 6 mesi di reclusione per ciascuno; il terzo, 3 anni e 2 mesi di reclusione;
- per Claudio Riva: assoluzione dal reato di cui al capo F) della rubrica, per non aver commesso il fatto; non doversi procedere per i reati di cui ai capi D) ed E), perché estinti per intervenuta prescrizione;
- condanna degli imputati Moroni ed Elefante per i reati di cui ai capi G) ed H), alla pena di 4 mesi di arresto per ciascuno; assoluzione di entrambi dal reato di cui al capo I), perché il fatto non costituisce o per non aver commesso il fatto.
s Parte civile legale rappresentante “U.I.L. provinciale”: condanna di tutti gli imputati alla pena di giustizia per tutti i reati loro rispettivamente ascritti, nonchè al risarcimento dei danni nella misura di € 500.000,00, oltre accessori di legge, ed alla rifusione delle spese di costituzione e difesa, con clausola di provvisoria esecuzione per € 250.000,00 e subordinando l’eventuale sospensione condizionale della pena al pagamento di tale provvisionale.
s Parte civile legale rappresentante “LEGAMBIENTE Puglia”: condanna di tutti gli imputati alla pena di giustizia per tutti i reati loro rispettivamente ascritti, nonchè al risarcimento dei danni nella misura di € 2.000.000,00, oltre accessori di legge, in favore di essa parte civile o della Provincia e del Comune di Taranto (ex art. 9, D.L.vo n° 267/2000), ed alla rifusione delle spese di costituzione e difesa, con clausola di provvisoria esecuzione per € 250.000,00 e subordinando l’eventuale sospensione condizionale della pena al pagamento di tale provvisionale.
s Difesa imputati Emilio Riva e Claudio Riva: assoluzione di entrambi da tutti i reati contestati perché i fatti non sussistono ovvero, per il capo A), perché il fatto non costituisce reato; in subordine, non doversi procedere per il reato di cui al capo B), perché estinto ex art. 24, D.L.vo n° 758/1994; per quelli di cui ai capi C) ed E), perché estinti per prescrizione; per quello di cui al capo F), per difetto di querela, previa riqualificazione del fatto nel reato p. e p. dall’art. 639, c.p.; in via ulteriormente gradata, condanna al minimo della pena, riconoscimento di attenuanti generiche e dei benefici di legge; rigetto delle domande risarcitorie delle parti civili.
s Difesa imputato Capogrosso: assoluzione da tutti i reati contestati perché i fatti non sussistono ovvero, per il capo A), perché il fatto non costituisce reato; in subordine, non doversi procedere per il reato di cui al capo B), perché estinto ex art. 24, D.L.vo n° 758/1994; per quelli di cui ai capi C) ed E), perché estinti per prescrizione; per quello di cui al capo F), per difetto di querela, previa riqualificazione del fatto nel reato p. e p. dall’art. 639, c.p.; in via ulteriormente gradata, condanna al minimo della pena, riconoscimento di attenuanti generiche e dei benefici di legge; rigetto delle domande risarcitorie delle parti civili.
s Difesa imputato Pensa: assoluzione da tutti i reati contestati perché i fatti non sussistono ovvero, per il capo A), perché il fatto non costituisce reato; in subordine, non doversi procedere per il reato di cui al capo B), perché estinto ex art. 24, D.L.vo n° 758/1994; per quelli di cui ai capi C) ed E), perché estinti per prescrizione; per quello di cui al capo F), per difetto di querela, previa riqualificazione del fatto nel reato p. e p. dall’art. 639, c.p. (avv. Raffaelli); in via ulteriormente gradata, condanna al minimo della pena, riconoscimento di attenuanti generiche e dei benefici di legge; rigetto delle domande risarcitorie delle parti civili (avv. Albanese).
s Difesa imputato Moroni: assoluzione da tutti i reati contestati, per non aver commesso il fatto; in subordine, non doversi procedere per i reati di cui ai capi G) ed H), per intervenuta prescrizione.
s Difesa imputato Elefante: assoluzione da tutti i reati contestati, per non aver commesso il fatto; in subordine, non doversi procedere per i reati di cui ai capi G) ed H), per intervenuta prescrizione.
4. – Ordinanze istruttorie e “sul processo”: rinvio.
Tutte le ordinanze concernenti sia l’attività istruttoria che le altre questioni prodromiche alla definizione del merito (quali, ad esempio, quelle preliminari ai sensi dell’art. 491, c.p.p.), emesse durante il dibattimento emesse dal giudice e pubblicate mediante lettura in udienza, ovvero senza l’osservanza di particolari formalità, debbono quivi aversi per richiamate, trascritte e confermate nella loro interezza.Evidenti ed imprescindibili ragioni di sintesi impongono, infatti, di riservare eventuali chiarimenti ed integrazioni ai soli temi controversi che, quantunque in quelle trattati, siano stati tuttavia riproposti dalle parti nel corso della discussione finale, potendo gli altri reputarsi superati.
Su codeste questioni, dunque, si ritornerà all’occorrenza più avanti in parte motiva, ove le stesse verranno in rilievo ai fini della prova dei fatti oggetto di giudizio.
² ² ² ²
capitolo II – I FATTI RIGUARDANTI LE COKERIE (capi A, B e C dell’imputazione)
1. – Premessa.
Prima di affrontare il merito delle questioni devolute alla cognizione dell’odierno giudicante, appare opportuna – ancorchè ovvia, quanto meno agli occhi di un tecnico del diritto – una precisazione; la quale è di metodo ma anche, e soprattutto, di contenuti, ed attiene in generale ai temi oggetto del presente processo e non solo alle vicende che saranno specificamente trattate in questo capitolo.Non sfugge certamente al giudice che i fatti di cui si discorre abbiano una dimensione e delle ricadute di carattere sociale ed economico che esondano dall’àmbito strettamente giudiziario. Più che le cronache di stampa, dove la presente vicenda giudiziaria è stata comunemente evocata come “il processo alla grande industria”, lo attestano – tanto per ricordare soltanto alcune delle circostanze più evidenti – la lunga teoria di esponenti delle istituzioni politico-amministrative territoriali sfilati in dibattimento come testimoni; i numerosissimi atti di intesa stipulati nel corso degli anni tra la dirigenza “Ilva” e le massime autorità politiche ed amministrative locali; l’avvenuta costituzione di parte civile di importanti organizzazioni sindacali ed ambientaliste, nelle loro articolazioni territoriali; i reiterati riferimenti di tutte le parti a quegli aspetti nel corso delle rispettive discussioni. E, del resto, non potrebbe essere diversamente in un territorio ed in una comunità in cui coesistono il più grande stabilimento siderurgico d’Europa, che occupa circa 12.000 dipendenti, ed uno dei più alti tassi di disoccupazione dell’intero territorio nazionale (tal ultimo dato, tristemente notorio e costantemente confermato dalle varie indagini statistiche nella materia, non versate in atti ma ovunque consultabili, risulta acquisito al dibattimento attraverso il D.P.R. del 23.4.1998: vds. pag. 169, ult. capoverso).
Ma l’ormai diffusa tendenza ad affidare esclusivamente al giudice penale la risposta statuale ai fenomeni di illegalità, e quindi a gravare la sentenza penale di contenuti, funzioni e – dal lato della communitas civium – di aspettative che non le sono propri, non può e non deve essere condivisa.
Il giudice penale non ha il compito, né i mezzi e le capacità, di disciplinare situazioni di conflitto sociale o di preoccuparsi di assetti economici; esso è chiamato soltanto – e, se si vuole, più modestamente – a verificare se un dato comportamento di singoli individui sia sussumibile in un’astratta fattispecie di reato.
De rebus publicis – potrebbe dirsi, parafrasando un noto brocardo – non curat praetor.
Peraltro, nel caso specifico, quand’anche lo volesse, ad impedirglielo vi sarebbe il tempo, il vero nemico di questo processo, come di tutti quelli nei quali vengano in rilievo questioni ed indagini tecniche estremamente complesse. Nonostante, infatti, le cadenze serratissime con le quali esso è stato celebrato, rese possibili anche dalla collaborazione di tutte le parti processuali, comprese le difese degli imputati, che mai hanno posto in essere quelle manovre dilatorie che pur il nostro tortuoso ordinamento processuale rende possibili, incombe su tale processo, o comunque su diversi reati che ne sono oggetto, la ghigliottina della prescrizione.
La presente motivazione, pertanto, si soffermerà esclusivamente sugli elementi essenziali ai fini della decisione sulle imputazioni, trascurando tutti gli aspetti che, pur emersi dalle diverse indagini tecniche e dalla massa imponente di documenti versati in atti, e pur rilevanti ai fini della comprensione della più ampia questione ambientale dell’area jonica, non riguardino strettamente il thema decidendum.
2. – La vicenda storica delle cokerie.
Coerentemente con l’appena detta premessa, ai fini della decisione sulle imputazioni di cui si va a trattare, non è necessario ripercorrere tutte le fasi dell’intera e risalente questione relativa alle emissioni inquinanti derivanti dalle batterie del reparto cokeria dello stabilimento “Ilva”.Tuttavia, al fine di contestualizzare codeste imputazioni e di apprezzarne più compiutamente la rilevanza, appare comunque utile rammentare almeno i momenti essenziali di tale vicenda. I quali – va subito detto – sono per lo più riconducibili ad atti e documenti emessi da enti ed uffici pubblici, o comunque a determinazioni consacrate in documenti formali, tutti acquisiti al fascicolo del dibattimento: talchè si tratta di circostanze non controverse tra le parti, se non altro nella loro dimensione storica.
Ancor prima, peraltro, ai fini di una migliore comprensione delle relative questioni, non paiono superflue alcune nozioni tecniche di base, relative alla struttura ed al funzionamento di siffatti impianti, che sono state offerte dai consulenti delle parti al giudice attraverso i loro elaborati scritti ed i loro esami dibattimentali.
2.1. - Il coke è il residuo secco derivante dalla distillazione a secco ed in assenza di aria di una miscela di carboni fossili; esso è il combustibile necessario per far funzionare gli altoforni.
Le cokerie, all’interno delle quali avviene tale distillazione, altro non sono se non dei forni; ovvero, rectius, delle batterie di forni, le quali operano a coppie, poiché condividono alcuni apparati comuni. I vari forni che compongono ciascuna batteria sono delle celle lunghe e strette, chiuse all’estremità da porte metalliche a tenuta ermetica. Completano l’impianto i seguenti macchinari: 1) la torre di carica, ove si accumula il carbone macinato da distillare; 2) la macchina caricatrice, che è rifornita dalle tramogge della torre di carica e, traslando al di sopra delle celle, svuota al loro interno il carbone; 3) la sfornatrice ed il carro di spegnimento, situati sul fronte opposto delle celle, i quali raccolgono il prodotto della distillazione (il cosidetto “salmone”); 4) le torri di spegnimento, ove tale prodotto viene raffreddato; 5) la rampa, da cui il coke così ottenuto viene condotto agli altoforni.
Trattandosi di impianti che operano a temperature di esercizio elevatissime (intorno, ossia, ai 1.200°C) ed a ciclo continuo, si coglie agevolmente come essi siano particolarmente esposti ai rischi connessi alla dilatazione termica delle strutture, con possibilità di formazioni di crepe nelle parti costruite in materiale refrattario o di imperfette congiunzioni a livello delle porte, e dunque con conseguente pericolo di fuoruscita di fiamme, fumi e gas di lavorazione altamente nocivi.
E’ altresì comprensibile, anche da parte di chi non possieda specifiche cognizioni tecniche, che dei forni in perfetto stato di conservazione consentano di sviluppare temperature più elevate e, conseguentemente, di diminuire i tempi di distillazione nonchè di aumentare la produttività dell’impianto. Invece, quanto più quest’ultimo versi in condizioni strutturali deficitarie, tanto più risulta necessario aumentare i tempi – per così dire – di cottura, al fine di evitare le emissioni di polveri e gas venefici prodotte dal coke c.d. “crudo” o “verde”. Il prezzo di tale rallentamento dei tempi di esercizio dell’impianto, ovviamente, è rappresentato da un decremento della produttività.
Al fine, poi, di assicurare standards di produttività soddisfacenti e di garantire le minori sollecitazioni possibili a carico delle strutture, risulta indispensabile che il ritmo di sfornamento sia quanto più regolare e costante: ogni fermata, dunque, incide negativamente su quei profili.
Infine, per quel che attiene agli aspetti tecnici di tal genere di impianti, va evidenziato che essi abbisognano, dopo non più di 20 – 25 anni di funzionamento, di interventi di completo risanamento strutturale (cosiddetto “revamping”) nonchè, a cadenze più ravvicinate, nell’ordine dei 10-15 anni, di opere di manutenzione straordinaria (nella pratica operativa denominate “refreshing”).
2.2. - All’interno dello stabilimento “Ilva” di Taranto, negli anni che qui interessano, ovvero sino al 2002, erano attive dieci batterie di forni, suddivise in cinque coppie, contraddistinte con numerazione progressiva: 3-4, 5-6, 7-8, 9-10, 11-12.
Le coppie di batterie nn. 3-4 e 5-6, quelle, ossia, che rilevano ai fini del giudizio, rappresentano due unità produttive distinte ma identiche, avviate, rispettivamente, negli anni 1964 e 1970; ognuna di esse è composta da 90 forni, ciascuno dei quali è alto 5 mt., lungo 15 mt. e largo 45 cm..
Le batterie nn. 5-6 hanno subìto un refreshing completo verso la fine degli anni ’80, dopo circa diciotto anni di funzionamento; altrettanto non è avvenuto per quelle nn. 3-4, che quindi, dal momento della loro implementazione, sono state oggetto soltanto di opere di manutenzione ordinaria e di interventi additivi isolati (installazione di cuffie para-fiamma, di sistemi di apertura dello sportello della macchina sfornatrice, di cappellotti a tenuta idraulica, di nuovi pulisci-telai sulla macchina sfornatrice, di una grata di depolverazione nella torre di spegnimento: un elenco completo degli interventi, redatto dai responsabili dell’azienda, è allegato – come s’è detto – al verbale dell’udienza del 19 giugno 2006).
Va precisato che queste notizie, come pure quelle riguardanti la caratteristiche tecniche di tali impianti, sono state tratte dalla relazione di consulenza tecnica redatta dal collegio guidato dal prof. Liberti e da quella dell’ing. Moramarco, oltre che dai rispettivi esami dibattimentali. Peraltro, su tali punti non v’è stata alcuna obiezione da parte delle difese avversarie e dei loro consulenti, così che gli stessi possono ritenersi tranquillamente comprovati.
2.3. - Il gruppo industriale guidato da Emilio Riva acquistava le acciaierie “Ilva”, sino ad allora in mano pubblica, nel maggio del 1995.
Tra le priorità stabilite nell’atto di acquisizione v’erano gli interventi da eseguirsi sulle batterie del reparto cokeria, già all’epoca piuttosto obsolete ed usurate (vds. test. dr.ssa Romeo, pagg. 3, 11).
Già nell’agosto del 1996, in una sua relazione tecnica predisposta nella sua qualità di funzionario del “Dipartimento di prevenzione” della A.s.l. TA/1, il dott. Giua evidenziava la rilevante presenza, all’interno del reparto cokeria, di idrocarburi policiclici aromatici (d’ora in poi “i.p.a.”), sostanze cancerogene derivanti dai processi di distillazione del carbon fossile, alla cui azione erano particolarmente esposti coloro che ivi prestavano la loro attività lavorativa, calcolati in numero di 629, tra dipendenti dell’”Ilva” e delle società appaltatrici. E, pur dando atto di alcuni miglioramenti introdotti nel tempo dall’azienda, il dott. Giua rappresentava l’obsolescenza dei tali impianti ed il carattere ancora manuale di molte operazioni previste dal ciclo operativo. Significava, infine, come, nonostante l’espressa previsione in tal senso contenuta nel D.P.R. n° 203 del 1991, le batterie di forni a coke fossero per lo più sprovviste di dispositivi di aspirazione dei fumi all’origine (presenti, più precisamente, solo su quelle nn. 7, 8 e 11).
Il 30 giugno 1997 interveniva il primo atto di intesa tra l’azienda – all’epoca “ILVA LAMINATI PIANI s.p.a.”, in persona dell’imputato Emilio Riva, allora presidente ed amministratore delegato della società – e la Regione Puglia. In quell’atto, si concordava anzitutto “circa l’urgente necessità e l’indispensabilità di procedere in tempi congrui alla riduzione delle emissioni in atmosfera derivanti dal centro siderurgico di Taranto, tramite l’utilizzazione di tecnologie che consentano di contenere le stesse, nel medio periodo, a valori significativamente inferiori a quelli previsti dalla attuale normativa”. Si dava atto, quindi, del fatto che l’”Ilva” avesse individuato, tra i “campi di intervento in via prioritaria”, quello della “riduzione delle emissioni diffuse della cokeria”; e si conveniva, pertanto, che l’azienda dovesse intervenire “con l’utilizzo delle migliori tecnologie per la riduzione delle emissioni in atmosfera”, mediante, tra gli altri, dei “sistemi per la limitazione delle emissioni derivanti dal processo di distillazione del carbon fossile in cokeria” (una copia di tale atto si può rinvenire nel carteggio tra il “P.m.p.” della A.s.l. e l’”Ilva”, prodotto dal P.M. all’udienza del 16.10.2006).
In tale convenzione si dava atto, peraltro, dell’indagine già allora in corso da parte dell’”E.n.e.a.” su commissione del Ministero dell’Ambiente. Gli esiti di codesta indagine verranno poi trasfusi, costituendone l’impalcatura tecnico-scientifica, nel D.P.R. del 23 aprile 1998: con il quale, richiamando le delibere del Consiglio dei Ministri del 30 novembre 1990 e dell’11 luglio 1997, che avevano dichiarato e confermato il territorio della provincia di Taranto quale “area ad elevato rischio ambientale”, veniva approvato il “Piano di disinquinamento per il risanamento del territorio della provincia di Taranto”. E, anche in tale D.P.R., tra i molti interventi previsti a carico degli enti pubblici e dei vari soggetti economici operanti nell’area, una parte non secondaria riguardava quelli relativi alla cokeria “Ilva” (vds. Tabella 2, schede 1/a – 7/a, pag. 194).
Le ricadute ambientali di tali impianti, però, non registravano sensibili miglioramenti; e, tra continui botta e risposta tra “P.m.p.” della A.s.l. e dirigenza “Ilva” (dei quali v’è ampissima documentazione nel carteggio dianzi citato), si giungeva al 18 novembre 2000.
In questa data, con nota n° 753/00 prot., il dirigente coordinatore del “P.m.p.”, dott. Nicola Virtù, scriveva al competente Assessore regionale ed al Sindaco di Taranto, evidenziando che “frequenti e ricorrenti sono le segnalazioni, da parte di questo Servizio nei confronti della ILVA s.p.a., in merito ad emissioni diffuse e/o convogliate visibilmente eccedentarie dall’impianto produzione coke (cokeria), relativamente… in particolare alla fase di distillazione del fossile ed alle fasi di sfornamento e spegnimento del coke”. E, dopo aver dato atto delle puntuali giustificazioni ogni volta fornite dall’azienda, come pure del completamento, da parte di questa, degli interventi migliorativi previsti dal piano di risanamento, il dott. Virtù proseguiva: “… non può non evidenziarsi la non transitorietà di tali situazioni, che incidono significativamente sul carico inquinante emesso dall’area cokeria, con ovvi riflessi sulla sostenibilità ambientale dell’area cittadina circostante.” Ed ancora: “… non può sottacersi il permanere di situazioni operative deficitarie, da ricollegarsi sostanzialmente a carenze strutturali legate alla vetustà dei forni delle batterie 3/6 nonché alla mancanza di un impianto di aspirazione e depolverazione delle emissioni diffuse nella fase di sfornamento coke.”
Quindi, dopo aver significato come il più basso regime di funzionamento delle batterie nn. 3-6 fosse compensato con un’elevazione di quello delle restanti batterie, con l’effetto di determinare “emissioni eccedentarie dai relativi camini per presenza di incombusti”, il coordinatore del “P.m.p.” concludeva: “… non può prescindersi o da una riduzione della produzione di coke con il fermo delle batterie 3/6 o, in alternativa, dalla sostituzione delle stesse con nuove batterie, con un conseguente riequilibrio dei ritmi di cokefazione,… e dalla installazione dell’annesso sistema di depolverazione allo sfornamento…”. Ed anch’egli, infine, non mancava di rammentare che “… le emissioni di che trattasi attengono ad inquinanti, oltre i primari convenzionali, con notevole valenza igienico-sanitaria tipo idrocarburi policiclici aromatici, benzene, particolato PM10, PM2,5.”
Alla luce di tale nota, il 6 febbraio del 2001 il Sindaco di Taranto, dr.ssa Di Bello, emetteva l’ordinanza n° 36, con la quale ingiungeva al direttore di stabilimento, ing. Capogrosso: 1) di mettere in atto gli interventi necessari ad eliminare le carenze strutturali della batterie nn. 3-6, relative, in particolare, alla mancanza di un impianto di aspirazione e depolverazione delle emissioni diffuse in fase di sfornamento, oltre che a vari cedimenti strutturali; 2) di fermare l’esercizio di tali batterie ovvero di sostituirle con altre nuove.
Il 16 febbraio seguente, il direttore Capogrosso, rammentando quanto stabilito in un incontro tenutosi il 14 febbraio presso la sede municipale tra le rappresentanze dell’azienda e della municipalità, rispondeva per iscritto al Sindaco, comunicando la disponibilità dell’azienda, nell’immediato, a proseguire l’esercizio di tali batterie nel rigoroso rispetto delle pratiche operative di manutenzione e pulizia convenute con l’amministrazione municipale; nonché “a perseguire la ricostruzione delle attuali secondo i più avanzati criteri tecnologici”.
Di conseguenza, il 19 di febbraio, il Sindaco emetteva un’altra ordinanza, la n° 64, con la quale ordinava al direttore tecnico dell’“Ilva” di tenere le anzidette condotte, nonché di presentare il programma definitivo e dettagliato di ricostruzione di codeste batterie entro i successivi 90 giorni.
Peraltro, l’amministrazione comunale, proprio al fine di verificare l’ottemperanza a tali deliberati, istituiva un “Comitato tecnico misto”, costituito da funzionari di vertice della A.u.s.l. TA/1, dottori Conversano, Scarnera e Virtù, nonché dagli ingegneri Mirelli e Colavini, nelle qualità più sopra indicate.
I vari rapporti di tale comitato, però, non solo non rilevavano un miglioramento dei dodici parametri tecnico-impiantistici individuati come riferimento, ma anzi stimavano un netto peggioramento complessivo degli stessi, già in partenza ritenuti tutti al di sotto dell’indice di performance di semplice accettabilità. Nel verbale del 21 maggio 2001, in particolare, i membri del comitato segnalavano, tra l’altro: la possibilità di adottare “ulteriori misure per contenere e ridurre le emissioni di fumi e/o gas densi generati durante sia le fasi di carica e sfornamento, sia dall’area bariletti”; la necessità di adottare “parametri di marcia meno spinti”, che “possono contenere in modo significativo le emissioni diffuse”; l’inottemperanza all’obbligo di “rigoroso rispetto delle pratiche operative di manutenzione e pulizia”, cui l’”Ilva” si era impegnata; la vaghezza del programma di ricostruzione delle batterie in questione, presentato dall’azienda nell’aprile precedente.
Preso atto di ciò, nonché dell’inutilità di una diffida spedita all’”Ilva” il 23 aprile precedente, il Sindaco emetteva il 22 maggio 2001 l’ordinanza n° 244, con la quale ingiungeva al direttore tecnico dello stabilimento la “immediata sospensione dell’esercizio delle batterie 3-6 della cokeria”. E tale ordine ribadiva, stante l’inerzia dell’”Ilva”, con un’ulteriore ordinanza, la n° 291 dell’11 giugno seguente. Entrambe le ordinanze, peraltro, venivano impugnate dalla società dinanzi al T.A.R. della Puglia – sez. di Lecce.
Due giorni dopo, il 13 di giugno, spediti dalla Procura della Repubblica, si presentavano presso il reparto cokeria dell’”Ilva” gli ispettori dello “Spesal” della A.s.l. Giordano e De Pasquale, i quali rilevavano numerose carenze strutturali, insufficienti condizioni manutentive ed inadempienze formali, debitamente compendiate in 6 punti, ed impartivano le relative prescrizioni.
Il 22 giugno, poi, sempre la Procura conferiva l’incarico di consulenza tecnica al collegio guidato dal prof. Liberti.
Intanto proseguiva anche l’attività del già ricordato “Comitato tecnico misto”. Il quale, nel mese di agosto, presentava il suo “IV Rapporto sugli effetti delle contromisure adottate da Ilva per il contenimento delle emissioni ed il miglioramento del livello di pulizia degli impianti”, nel quale venivano compendiati anche i precedenti e che, tra le sue osservazioni conclusive, censurava come ancora “del tutto inadeguata” la situazione relativa alle emissioni, sia diffuse che convogliate, altresì affermando come un “miglioramento sostanziale e definitivo” delle emissioni di fumi e gas generate durante la carica e lo sfornamento si sarebbe potuto conseguire “solamente a seguito di rilevanti interventi impiantistici”.
Si giungeva, dunque, al 10 di settembre, allorchè il G.i.p. del Tribunale, in accoglimento di una richiesta avanzatagli dalla Procura della Repubblica il 20 luglio precedente, disponeva il sequestro preventivo delle batterie di forni nn. 3-6, in relazione ai reati poi trasfusi negli attuali capi A) e C) dell’imputazione.
Le fasi esecutive di tale provvedimento giudiziario si presentavano piuttosto laboriose, al punto da costringere la Procura, nel novembre di quell’anno, ad affidare un ulteriore incarico di consulenza tecnica, ex art. 360, c.p.p., al prof. Meschinelli ed all ing. Moramarco, per stabilire il programma operativo della fermata conservativa di quelle batterie.
L’iniziativa, stante l’accertata indisponibilità ad eseguire le relative attività nolente domino, contro, ossia, la volontà dell’”Ilva”, manifestata dalle – pochissime – aziende europee provviste del know-how necessario, non sortiva altro risultato, se non quello di convenire con la dirigenza aziendale un rallentamento dei tempi di marcia di quegli impianti.
Intanto, il 22 maggio 2002 interveniva un nuovo “protocollo di intesa” tra “Ilva” (rappresentata nell’occasione da Claudio Riva), enti territoriali ed organizzazioni sindacali, questa volta avente per oggetto esclusivo gli interventi di risanamento delle batterie nn. 3-6. Questi venivano individuati in quelli già indicati dall’azienda nel rammentato piano-progetto varato nel 2001, ma si conveniva che essi fossero stralciati dal più generale piano di disinquinamento di cui al D.P.R. n° 196/1998: e ciò – si legge in quel documento – sul presupposto della necessità di “riconoscere assoluta priorità alle problematiche connesse al reparto cokeria”.
Il 15 luglio 2002, poi, il “collegio Liberti” terminava la sua attività e depositava la relazione di consulenza tecnica, le cui conclusioni possono così riassumersi nei loro termini essenziali (si vedano le pagg. 74 – 80 di quel documento): 1) le condizioni generali di funzionamento delle batterie 3-6 erano caratterizzate da “ricorrenti irregolarità, anomalie e discontinuità, in linea con il particolare grado di vetustà e lo stato di deterioramento”; 2) il regime di produzione di tali batterie, quantunque ridotto del 15% rispetto ai valori di progetto sugli impianti nuovi (tempo di distillazione di 18 h.), risultava “spinto e non compatibile con le odierne condizioni degli impianti”, al punto che, nel corso dei numerosi sopralluoghi effettuati dai consulenti, si erano registrati, durante la distillazione, “lo sprigionamento continuo ed incontrollabile di emissioni gassose e fiamme”, nonché, la “diffusione di fumi e polveri cariche di sostanze pericolose nelle fasi di caricamento, sfornamento e spegnimento”; 3) le fasi di processo non risultavano assistite dall’applicazione delle migliori tecnologie disponibili nel settore, né da idonee apparecchiature e metodologie; 4) tanto determinava la dispersione di migliaia di tonnellate all’anno di sostanze nocive nei luoghi circostanti, con la conseguenza di un “grave impatto ambientale sul territorio interessato ed oggettive condizioni di pericolo di gravi danni alla salute per gli addetti”; 5) in particolare, relativamente agli inquinanti più pericolosi, ovvero polveri, benzene ed i.p.a., i parametri di riferimento unanimemente adottati dalla comunità scientifica, i cc.dd. “TLV” elaborati dall’associazione dei medici igienisti industriali americani (“ACGIH”), erano risultati superati in molte occasioni, anche per vari ordini di grandezza; 6) negli escreti dei lavoratori si era rinvenuta, in misura significativa, la presenza di metaboliti tipici degli i.p.a., con conseguente rischio di gravi conseguenze sanitarie; 7) al fine di abbattere e controllare le emissioni allo sfornamento ed allo spegnimento, si presentavano necessari ed urgenti “radicali interventi di ricostruzione, ammodernamento ed integrazione impiantistici”, quali cappe aspiranti, sistema di spegnimento “a secco”, dispositivi di monitoraggio in continuo dei principali parametri di processo, del regime emissivo e del conseguente livello di inquinamento.
Nel successivo mese di agosto i vertici “Ilva” si decidevano finalmente a dare compiuta esecuzione al provvedimento di sequestro preventivo del G.i.p., avviando le operazioni di spegnimento delle batterie di cui si discorre.
Il 30 di settembre, quindi, i già ricordati ispettori De Pasquale e Giordano dello “Spesal”, a seguito di sopralluogo presso l’azienda, ne accertavano l’avvenuto spegnimento (una copia del relativo verbale si rinviene in allegato alla più ampia e conclusiva informativa redatta da quegli ispettori il 12.7.2003, a sua volta contenuta negli atti inseriti sin dall’origine nel fascicolo del dibattimento).
Dopo di che, su richiesta avanzata dal direttore Capogrosso il 14 novembre 2002, la Procura della Repubblica, con proprio decreto del 16 dicembre seguente, disponeva il dissequestro delle anzidette batterie.
E, con questo, la vicenda delle batterie nn. 3-6 può dirsi conclusa, quanto meno per quanto interessa ai fini del processo, ove si consideri il dato cronologico fissato nell’imputazione.
Solo per curiosità, quindi, può rammentarsi quanto riferito dalla teste Romeo: ovvero che attualmente sono state riavviate le batterie nn. 1, 2 e 3, e che, invece, nel corso del 2008 dovrebbe ripartire la n° 4.
3. – L’omessa predisposizione di cautele contro gli infortuni sul lavoro (capo A dell’imputazione).
E’ dunque il momento di valutare se sussista il reato contestato al capo A) e, in caso affermativo, di stabilire chi ne debba essere ritenuto colpevole.A tal fine, può essere utile dapprima delimitare la fattispecie sanzionatoria astratta, per lo meno negli aspetti che rilevano ai fini della decisione, e quindi verificare se ed in che misura vi possano essere sussunte le condotte tenute dagli imputati.
3.1. - Evitando di appesantire la motivazione con la trascrizione del testo normativo, gli elementi qualificanti del reato previsto e punito dall’art. 437 del codice penale possono sinteticamente declinarsi nei termini che seguono.
a) In primo luogo, non basta ad integrare il reato qualsiasi omissione di cautele antinfortunistiche, anche quella, ossia, che si realizzi attraverso un’inadeguata gestione od un improvvido esercizio dell’impianto, dai quali possa derivare il pericolo di disastri od infortuni sul lavoro.
In verità, la rubrica di tale articolo, là dove recita “omissione… di cautele contro infortuni sul lavoro”, potrebbe trarre in inganno. Ma – com’è noto – rubrica legis non est lex, e, se posta a confronto con il dato testuale della norma, quella si presenta piuttosto infelice.
Il dettato normativo, infatti, è chiaro: rilevano unicamente condotte di omessa collocazione, rimozione o danneggiamento.
b) L’oggetto materiale di tali condotte è rappresentato esclusivamente da “impianti, apparecchi o segnali”.
Sul punto, nessun problema esegetico si pone per i “segnali”, ovviamente, e per gli “impianti”, il cui elemento qualificante risiede essenzialmente nel loro carattere fisso (l’unanime lettura dottrinaria e giurisprudenziale in tal senso trova conforto, ad esempio, tanto per rimanere alla materia che qui interessa, nella definizione di “impianto”, appunto, già contenuta nell’art. 2, n° 9, D.P.R. n° 203/1988, ed ora ripresa e specificata dall’art. 268, co. 1, lett. h, D.L.vo n° 152/2006, che ne ha altresì sottolineato la “autonomia funzionale” e la “destinazione ad una specifica attività”, pur all’interno di un ciclo produttivo più ampio).
Ma anche per gli “apparecchi” non sorgono soverchi problemi, potendo in questi farsi rientrare i dispositivi di qualsiasi natura (ossia a funzionamento meccanico, fisico, elettrico od elettronico), ma comunque qualificati da tipiche ed autonome caratteristiche funzionali (pur quando siano inevitabilmente destinati ad operare quali parti inscindibili di altra apparecchiatura più complessa) e da una propria consistenza morfologica (tale, ossia, da poterli far “collocare”, “rimuovere” o “danneggiare”).
c) Deve trattarsi, inoltre, di impianti, apparecchi o segnali, “destinati a prevenire disastri od infortuni sul lavoro”.
Occorre, ossia, che quei dispositivi abbiano una specifica ed immediata destinazione antinfortunistica o di prevenzione dei rischi derivanti dalle attività lavorative, tanto per la collettività (si rammenti la allogazione della norma nel titolo relativo ai “delitti contro l’incolumità pubblica”), quanto per i singoli (sul punto, infatti, i problemi ermeneutici connessi alla appena ricordata posizione sistematica della norma sono stati ormai da tempo superati in giurisprudenza, tanto che, pure in letteratura, si va sempre più affermando una lettura che individua nella “sicurezza del lavoro”, più che nella incolumità pubblica in senso lato, il bene giuridico da quella protetto).
Nulla autorizza a sostenere, invece, che detta destinazione debba essere altresì esclusiva. Non soltanto, infatti, manca qualsiasi aggancio testuale in tal senso; ma, anzi, una siffatta lettura si porrebbe in contrasto con la risoluta tendenza legislativa ad ampliare e rafforzare gli spazi di tutela della sicurezza dei lavoratori, nonché con l’esigenza, coerente con tali scelte legislative ed avvertita in giurisprudenza ed in dottrina sin dall’inizio degli anni ’90 (e della quale si dirà meglio tra breve), di estendere l’àmbito applicativo dell’art. 437 sino al massimo consentito dal principio costituzionale di legalità, adeguando la norma alle rivoluzioni intervenute nello scorso secolo nell’organizzazione e nell’esercizio del lavoro, e così consentendole di continuare ad esercitare quella funzione che le avevano assegnato i compilatori del codice penale nel lontanissimo 1930.
Tuttavia, laddove si sia in presenza di apparecchiature od impianti immediatamente produttivi di rischi per l’incolumità dei lavoratori, l’anzidetto vincolo di destinazione non potrebbe essere riconosciuto indifferentemente a tutte le apparecchiature comunque inserite nel relativo ciclo produttivo, sul presupposto che esse, quantunque soltanto indirettamente, siano funzionali al migliore e più sicuro esercizio di quegli impianti pericolosi (si pensi, a mero titolo esemplificativo, ad un apparecchio di analisi chimica di un combustibile utilizzato per alimentare un impianto che presenti rischi di incendio). Si finirebbe, in questo modo, evidentemente, per far entrare dalla finestra ciò che il legislatore ha inteso metter fuori dalla porta.
Invece, l’anzidetta impostazione epistemica (destinazione antinfortunistica, ossia, specifica, immediata ma non necessariamente esclusiva) consente di far ricadere sotto la previsione sanzionatoria in rassegna quei dispositivi che, quantunque funzionali in primo luogo al migliore esercizio ed al maggiore rendimento produttivo di un dato impianto, provvedano, per loro natura e nello stesso tempo, ad eliminare o contenere i pericoli per l’incolumità delle persone che da quello scaturiscono (anche in questo caso – per fare un esempio che si può attagliare alla vicenda processuale in esame – si pensi ad un forno: la porta o le condutture di convogliamento dei gas di lavorazione, se integri, in primo luogo, permettono che l’impianto abbia una resa ottimale; ma, ad un tempo, impediscono pure il verificarsi di fiammate, esplosioni, esalazioni di gas tossici ed altri eventi suscettibili di arrecare danno all’incolumità di coloro che si trovino nel luogo di lavoro).
Ovviamente – ma sul punto non occorre più d’un cenno, perché si deduce da quanto appena esposto e perché, soprattutto, la questione non è controversa tra le parti – la suddetta destinazione di tali apparecchi non dev’essere necessariamente normativa (ossia specificamente contemplata da norme positive), ma può anche essere di mero fatto, e derivare, cioè, dalle cognizioni tecniche del settore. Peraltro, va evidenziato, per inciso, che, proprio nella materia di cui si sta discorrendo, gli articoli 20 e 21 del D.P.R. n° 303 del 1956 hanno sostanzialmente finito per tradurre in uno specifico obbligo giuridico l’impegno dell’imprenditore ad adeguarsi alla migliore scienza ed esperienza del settore, avendogli imposto di adottare quei provvedimenti atti ad impedire o ridurre “per quanto è possibile” lo sviluppo e la diffusione di gas, fumi, polveri, etc..
d) I rischi, che tali dispositivi sono destinati a prevenire (e che non è necessario che si realizzino: il punto è pacifico in dottrina ed in giurisprudenza e non ha formato oggetto di discussione neppure nel processo), sono costituiti da “disastri” od “infortuni sul lavoro”.
Tralasciando i primi, che qui non interessano, mette conto soffermarsi invece sui secondi, sui quali si sono appuntate le attenzioni dei difensori, che hanno evocato la vexata quaestio del confine tra le nozioni di “infortunio sul lavoro” e “malattia professionale”.
Fino alla metà degli anni ’80, infatti, la notoriamente scarna produzione giurisprudenziale sull’art. 437, cod. pen., registrava per lo più pronunzie di segno restrittivo, che valorizzavano il dato testuale della norma ed utilizzavano, quale parametro di riferimento, la nozione di “infortunio” prevista dal R.D. 17 agosto 1935, n° 1765, in cui si valorizzava l’aspetto della “causa violenta” (nei vari commenti dottrinari si sogliono ricordare, in particolare, una sentenza del Tribunale di Bolzano del 1979, ed una del Tribunale di Padova del 1984).
Per la verità, della questione aveva avuto modo di occuparsi – tuttavia sostanzialmente eludendola – anche la Corte Costituzionale: la quale, investita dal Tribunale di Rieti della eccezione di illegittimità costituzionale della disposizione di cui si discorre, sotto il profilo della irragionevole disparità di trattamento di situazioni meritevoli di analoga tutela, aveva in poche righe dichiarato l’inammissibilità di tale eccezione, assumendo che l’estensione del precetto alla malattie professionali avrebbe comportato un ampliamento della fattispecie incriminatrice, che invece era prerogativa esclusiva del legislatore (sent. n° 232 del 21 luglio 1983, richiamata anche dalla difesa degli imputati).
A prescindere dal rilievo per cui la causa violenta non si identifica necessariamente nella causa traumatica (come già Carnelutti rammentava nei suoi scritti sulla materia), quella lettura giurisprudenziale comunque non rispondeva alla già accennata esigenza di adeguare il precetto dell’art. 437 allo sviluppo delle tecnologie produttive e delle cognizioni mediche sulla eziologia delle malattie, maturato nei sessant’anni successivi.
La svolta è dunque avvenuta in giurisprudenza con la sentenza n° 12367 del 9 luglio 1990, ric. Chili, con la quale la prima sezione penale della Corte di Cassazione ha elaborato, attraendolo nell’area di penale rilevanza tracciata dalla norma in esame, il concetto di “malattie-infortunio”: ovvero quelle “sindromi morbose imputabili all’azione lesiva di agenti esterni diversi da quelli meccanico-fisici, purchè insorte in esecuzione di lavoro”. Tali possono essere – ha spiegato la Corte – “le patologie di origine barica, elettrica, radioattiva, chimica”; mentre “nelle malattie professionali in senso stretto rientrano tutte quelle manifestazioni morbose contratte nell’esercizio ed a causa di lavoro, ma che non siano prodotte da agenti esterni”. E, in applicazione di tale principio di diritto, ha ravvisato il reato in questione a carico del datore di lavoro che – similmente a quanto è avvenuto nell’ipotesi oggetto di giudizio: infra, § 3.2.d) – aveva omesso di collocare nell’ambiente lavorativo degli impianti di aspirazione di gas tossici, la cui ripetuta inalazione aveva cagionato una nefropatia a due dipendenti.
Quindi, lungo il solco tracciato da questa pronuncia si sono poste Cass. pen., 26.11.1996, ric. Martini ed altri, in una fattispecie relativa ad ipoacusia da rumore, ritenuta il prodotto della somma di una serie quotidiana di microlesioni; ma soprattutto Cass. pen., sez. I, sent. n° 350 del 14.1.1999, ric. P.G. in proc. Mantovani ed altri, che, richiamando espressamente la “sentenza Chili”, ne ha ribadito il principio di diritto ed ha concluso per la configurabilità del delitto di cui all’art. 437, cod. pen., nella condotta di chi aveva omesso di predisporre impianti od adottare altre misure idonee a prevenire il pericolo derivante dall’elevata concentrazione di amianto nell’ambiente di lavoro (la motivazione si può leggere, ad esempio, in Giustizia penale, II, 2000, 24 ss.).
e) Un accenno merita, altresì, il profilo del dolo, sul quale pure si sono soffermati i difensori degli imputati.
Affinchè sussista tale elemento psicologico del reato, ovviamente non è necessario che l’agente voglia cagionare il disastro o l’infortunio, anche soltanto nella forma dell’accettazione del rischio di verificazione di esso. Tali eventi, infatti, non rientrano neppure tra gli elementi costitutivi del reato, quanto meno della fattispecie di cui al co. 1 della norma in scrutinio.
Invece, per rimanere all’ipotesi – che qui sola interessa – della omessa collocazione di impianti o apparecchiature, è sufficiente: a) che l’autore sia consapevole dell’obbligo giuridico di collocazione, gravante su di lui (consapevolezza che, nel caso di un imprenditore professionale, può tenersi per scontata); b) che egli si sia per lo meno rappresentato il pericolo per l’altrui incolumità, derivante dalla mancata predisposizione di quei presìdi antifortunistici; c) che sia consapevole della esistenza di dispositivi atti a contenere quel rischio; d) che, infine, volontariamente non provveda a collocarli. In presenza di tali presupposti, nessun rilievo possono avere le motivazioni sottese alla condotta omissiva e, in particolare, del tutto insignificanti sono eventuali ragioni economiche od organizzative dell’impresa (tra le tante, sul profilo dell’irrilevanza dell’eccessiva onerosità della spesa richiesta, si può leggere già Cass. pen., sez. IV, 22.3.1984, n° 2699, ric. Albano).
Anzi, con riguardo, in ispecie, al profilo della scelta dei mezzi preventivi da adottare, non possono residuare dubbi sul fatto che l’imprenditore sia tenuto a calibrare la propria condotta sul parametro della migliore tecnologia disponibile.
Correttamente in dottrina è stato rilevato come tale principio informatore pervada tutto l’impianto del D.L.vo n° 626 del 1994, venendo sovente evocato, seppur con locuzioni testuali diverse, in numerose norme qualificanti di quel testo – ad esempio, l’art. 3, co. 1, lett. b), o l’art. 4, co. 5, lett. b) – ed in particolare nel caso della esposizione ad agenti cancerogeni o mutageni, che viene in rilievo nel presente processo (si veda l’art. 62, co. 3, sul quale si tornerà nel prossimo capitolo, quando si parlerà del reato di cui all’art. 674, cod. pen.).
Ma, a ben vedere, quel modello comportamentale viene recepito ed imposto, ancora prima, dalla norma fondamentale in materia di obblighi del datore di lavoro: l’art. 2087 del codice civile. Il quale, prevedendo che quegli debba “adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, gli impone un obbligo di costante aggiornamento in materia. Del resto, ripetutamente e da tempo la Cassazione si è espressa in tal senso (tra moltissime, si vedano: 11.4.1992, ric. Quaini; 5.4.2001, ric. Merlini; 24.6.2000, ric. Mantero ed altro, secondo cui, più precisamente, non è sufficiente che “una macchina sia munita degli accorgimenti previsti dalla legge in un dato momento storico, se il processo tecnologico cresce in modo tale da suggerire ulteriori e più sofisticati presìdi per rendere la stessa sempre più sicura”).
Per concludere riguardo all’aspetto del dolo, non si riescono invece a rinvenire elementi di conforto alla tesi affacciata dalla difesa di Riva, secondo cui la fattispecie di reato in questione postulerebbe necessariamente un atteggiamento psicologico di pervicace inerzia dell’obbligato. Non pare, infatti, che la norma richieda indefettibilmente tale particolare intensità del dolo, ed anzi riesce francamente difficile escludere che, laddove gli elementi obiettivi del reato siano accompagnati dagli aspetti cognitivi e volitivi poco sopra ricordati, il reato medesimo si perfezioni pur quando l’omissione sia rimasta isolata e circoscritta nel tempo.
f) Veramente poche battute merita, infine, per compiutezza espositiva, un ultimo aspetto: quello, ossia, del concorso tra l’art. 437, cod. pen., e la normativa della legislazione speciale antinfortunistica.
La questione, che in verità agita essenzialmente la dottrina, trova invece la giurisprudenza attestata su posizioni piuttosto consolidate. “Le norme contenute nelle leggi speciali dirette alla prevenzione degli infortuni sul lavoro non hanno abrogato l’art. 437, c.p., né sono in rapporto di specialità con la norma suddetta. Infatti, per la configurazione del delitto previsto dall’art. 437, c.p., occorre che la rimozione od omissione di cautele abbia posto in pericolo la pubblica incolumità e che l’agente abbia tenuto la condotta vietata nonostante la consapevolezza di tale pericolo, mentre, ai fini della sussistenza delle contravvenzioni in materia antinfortunistica, non occorre che si sia verificata una situazione di pericolo per la pubblica incolumità ed è sufficiente la semplice colpa. Ne consegue che il delitto e le contravvenzioni in esame, presentando elementi strutturali diversi sotto l’aspetto sia oggettivo che soggettivo, non danno luogo a conflitto di norme, ma possono concorrere tra loro” (così Cass. pen., sez. I, P.G. in proc. Mantovani, cit., nella quale si indicano numerosi precedenti conformi).
V’è solo da aggiungere – non avendone nemmeno fatto materia di discussione le parti – che, pur nella diversità di opinioni affacciate in dottrina, rimane comunque minoritaria, più risalente e sostanzialmente abbandonata dagli studiosi più recenti, la tesi di coloro che individuavano un rapporto di specialità tra quelle norme e concludevano per l’applicabilità delle sole fattispecie contravvenzionali speciali. Per cui si tratterebbe, in buona sostanza, di decidere se applicare solo l’art. 437 ovvero anche le disposizioni contravvenzionali: ma, poiché nel nostro caso – come si vedrà più avanti – il reato contravvenzionale di riferimento, quello ossia di cui al capo B) della rubrica, è estinto, la questione risulta priva di pratica rilevanza ai fini del giudizio.
3.2. - Così delimitato il perimetro applicativo dell’art. 437, cod. pen., occorre passare all’esame della fattispecie concreta devoluta al Tribunale.
Rispetto alla quale, volendo rimanere il più possibile aderenti all’imputazione, va anzitutto precisato che il rischio preso in considerazione è esclusivamente quello della “dispersione… di fumi, gas, vapori e polveri di lavorazione”, e la condotta contestata è la omessa predisposizione di “apparecchiature” necessarie ad evitare il verificarsi di tale rischio.
Ne consegue che rimangono al di là della cognizione del giudicante alcune condotte pur emerse nel corso del procedimento ed astrattamente riconducibili al paradigma sanzionatorio del medesimo art. 437 o, per lo meno, a quello del contiguo art. 451, stesso codice. Ci si riferisce, per esempio, alla assenza di idonea segnaletica di avvertimento e di sicurezza nonché di idonei dispositivi di protezione individuale, rilevata dagli ispettori dello “Spesal” in occasione del loro accesso del 13 giugno 2001 (si vedano i punti 2 e 4 del relativo verbale); ovvero al non funzionamento dell’impianto di condizionamento d’aria installato sulla macchina caricatrice del fossile delle batterie nn. 3-4, tale da imporre agli operai addetti, affinchè vi fosse un minimo circolo di aria, di mantenere aperte le finestre della cabina di comando, tuttavia esponendosi in tal modo a massicce quantità di polveri e fumi (si veda il verbale dei Carabinieri – “N.o.e.” Bari, relativo all’attività di assistenza ai campionamenti eseguiti dal “collegio Liberti” nei giorni 15 e 16 maggio 2002; leggasi, pure, il verbale di sommarie informazioni alla p.g. dell’operaio Marco Amati); oppure ancora alle carenze strutturali e di dotazioni, lamentate da vari operai addetti a tali impianti: pochi estintori, mancanza di condizionatori d’aria, illuminazione notturna assolutamente insufficiente (vds. verbali di sommarie informazioni di Amati, Cristofaro, Ladiana, Sisto, Scialpi, D’Aprile).
Tanto premesso, le circostanze rilevanti ai fini del giudizio del Tribunale in parte qua possono riassumersi nei termini seguenti, con la precisazione – evidentemente non insignificante – per cui si tratta di aspetti sostanzialmente non contestati nemmeno dagli imputati.
a) Le batterie di forni a coke emettono numerose sostanze inquinanti: tra queste, le più nocive per la salute umana sono le polveri di fossile, gli idrocarburi policiclici aromatici (i.p.a.) e il benzene.
Sin dal 1984, l’”Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (I.A.R.C.)” ha ritenuto sussistente una evidenza sufficiente delle proprietà cancerogene per l’uomo delle esposizioni nelle industrie di produzione del coke, classificando gli i.p.a. in parte in “classe 2/A (probabili cancerogeni per l’uomo) ed in parte in “classe 2/B” (possibili cancerogeni per l’uomo), mentre il benzene addirittura in “classe 1”, ovvero tra le sostanze sicuramente cancerogene per l’uomo (vds. relaz. c.t. Liberti ed altri, pagg. 53 – 57).
Ma anche la legislazione italiana è giunta a conclusioni conformi, espressamente qualificando come “agenti cancerogeni” gli “idrocarburi policiclici aromatici presenti nella fuliggine, nel catrame e nella pece di carbone” ed il benzene [art. 61, co. 1, lett. a), n° 3), e lett. c), in riferimento agli allegati VIII e VIII-bis, D.L.vo n° 626 del 1994].
Sulle forme di esposizione ad i.p.a. e benzene, sulle modalità di assorbimento, sulle loro conseguenze per la salute dell’uomo e sui relativi dati epidemiologici generali, trattandosi di circostanze incontroverse tra le parti, è sufficiente qui far integrale e recettizio rinvio a quanto in maniera dettagliatissima esposto dai consulenti del “collegio Liberti” nelle “Appendici” nn. 2 e 3 alla loro relazione scritta.
Del carattere estremamente concreto del rischio cui erano esposti i lavoratori addetti alle batterie nn. 3 – 6 (e non solo), a causa della situazione di grave sofferenza in cui versavano tali impianti, si tratterà più diffusamente, invece, nel prossimo capitolo, allorchè si tratterà dei reati legati ai fenomeni inquinanti (capi D – F della rubrica).
b) Considerando la natura delle patologie causalmente riconducibili alla esposizione a codeste sostanze (per dirla in breve, tumori!), non v’è dubbio che esse debbano classificarsi tra le “malattie-infortunio”, secondo la anzidetta definizione elaborata dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, che – come s’è visto – pone l’accento sulla azione lesiva di agenti esterni diversi da quelli meccanico-fisici, quale si ravvisa, in particolare, nelle patologie di origine barica, elettrica, radioattiva e chimica.
c) Le polveri sono emesse nel corso di tutte le fasi di lavorazione: caricamento, distillazione (a causa dell’imperfetta tenuta della strutture dei forni), sfornamento (soprattutto) e spegnimento.
Gli i.p.a. ed il benzene, invece, si formano e si diffondono nel caso di incompleta distillazione del coke. Quando questo accade – cosiddetto coke “verde” o “crudo” – all’atto dello sfornamento si forma una nube densa di fumo di colore giallo-marrone, con elevata polverosità unita a vapori e gas (tali condizioni sono ben raffigurate nelle foto nn. 12, 13 e 20 del report fotografico allegato alla relazione di consulenza del “collegio Liberti”).
d) Le batterie nn. 3-6 non sono mai state dotate quanto meno dei seguenti dispositivi principali: 1) canotti di collegamento delle tramogge del carro di riempimento, i quali permettono di inserire il carbon fossile direttamente nel forno, evitando lo spargimento sul piano di carica; 2) dispositivi meccanici di spazzamento del piano di carico e di aspirazione del materiale rimosso (operazioni invece eseguite a mano dagli operai: vds. foto 21-25, report cit.); 3) cappe aspiranti all’atto dello sfornamento e/o sul carro di spegnimento; 4) dispositivi di spegnimento “a secco” e non ad acqua; 5) dispositivi di monitoraggio e controllo computerizzati dei principali parametri di processo, del regime emissivo e del conseguente livello di inquinamento, ed in particolare indicatori automatici dell’avvenuta distillazione, sensori di allarme specifici per gli inquinanti più pericolosi (cc.dd. “rilevatori PIDs”; si vedano, la relazione di c.t. Liberti ed altri, pagg. 24 s., 78-80; test. Liberti, pagg. 8, 29-31, 52-54, trascr. verb. ud.; inoltre, più in generale, ad esempio, i numerosi documenti redatti dal “Comitato tecnico misto”, acquisiti all’udienza del 27 marzo 2006);.
Si tratta, anzitutto ed indiscutibilmente, di “apparecchiature”, nel senso dianzi illustrato, se non addirittura di “impianti”.
Inoltre, esse si presentano specificamente ed immediatamente destinate a contenere o a tenere sotto controllo le emissioni diffuse di quegli agenti inquinanti nelle fasi di lavorazione più critiche delle batterie. Tanto dicasi, in particolare, per le cappe aspiranti, che sono deputate ad operare nella fase foriera di maggiori rischi per la salute umana (quella, ossia, dello sfornamento del coke, in cui si liberano i.p.a. e benzene dagli incombusti) e per le quali tale destinazione antinfortunistica è addirittura unica ed esclusiva.
E, anche a voler limitare l’attenzione alle sole cappe, va evidenziato come queste rappresentino dispositivi a contenuto tecnologico tutt’altro che avanzato, di impiego comune e risalente, non soltanto all’interno di analoghe realtà aziendali, ma addirittura nell’àmbito dello stesso stabilimento “Ilva” di Taranto, ove erano presenti sulle batterie nn. 7-8 e 11 già nel 1996 (vds. relazione del dr. Giua dell’agosto di quell’anno, dianzi citata). Anzi, si tratta di misure che erano espressamente previste già dal D.M. 12.7.1990 (allegati 2, 6 e 7), che, al fine di contenere le emissioni diffuse inquinanti degli impianti industriali, aveva stabilito la necessità del “convogliamento di tutte le polveri, nei punti di introduzione, estrazione, trasferimento, carico e scarico, ad un impianto di depolverizzazione”, come pure la “necessità di idonea tenuta o di convogliamento ad impianti di abbattimento nelle operazioni di movimentazione o caricazione di sostanze organiche” (vds. relaz. perizia Carbotti ed altri, pag. 142).
Si tratta, infine, di apparecchiature che, se presenti, avrebbero potuto ridurre in modo drastico ed imponente le emissioni rivenienti da quegli impianti. E’ quanto emerge – tanto per ricordare soltanto alcune delle molteplici ed eterogenee acquisizioni istruttorie sul punto – dalla ricordata nota n° 753 dell’8 novembre 2000 del dr. Virtù, dalla testimonianza del prof. Giugliano (pagg. 94 s., trascr. verb. ud.), ma soprattutto da uno studio svoltosi in esecuzione di una direttiva CEE, la n° 61 del 1996 (c.d. “direttiva IPPC”, ossia “Integrated pollution prevention control”) da gruppi tecnici internazionali, appositamente creati per fornire al Consiglio dell’Unione Europea ed agli Stati membri dei riferimenti per la individuazione delle migliori tecnologie del settore.
Ebbene, sulla base dei dati che quest’indagine ha ricavato da una media delle rilevazioni condotte su alcuni dei maggiori stabilimenti siderurgici europei ed ha individuato quali parametri di riferimento ottimali, il “collegio Liberti” ha potuto stimare che le emissioni dello stabilimento di Taranto, calcolate sulla base della quantità di acciaio prodotto, si sarebbero ridotte di vari ordini di grandezza, ove fossero state utilizzate le migliori tecnologie disponibili: e, segnatamente, le polveri sarebbero state inferiori all’incirca di 3-4 volte; gli i.p.a. di 2-3 volte; il benzene, addirittura, di 30-50 volte (vds. pagg. 45-47, e Tab. 22, relaz. c.t. Liberti ed altri). E, pur dando per ammesso che si tratti di un’elaborazione scientifica di stima, come tale non necessariamente precisa, appare francamente innegabile che si sia in presenza di ordini di grandezza di tali dimensioni da superare ogni inevitabile margine di approssimazione.
e) Le circostanze sin qui evidenziate sostanzialmente non sono state contestate dalle difese degli imputati, se non per la idoneità (ed addirittura la conformità a legge) del sistema di spegnimento “a secco” e per la attendibilità – per così dire – alla virgola dei dati dello studio da ultimo illustrato.
E’ addirittura pacifico, anzi, che i vertici tecnici ed amministrativi dell’”Ilva” fossero perfettamente a conoscenza delle anzidette carenze strutturali, della destinazione antinfortunistica delle apparecchiature mancanti e dei pericoli per l’incolumità dei lavoratori, derivanti da tali omissioni.
E’ sufficiente rammentare, a tal proposito, alcuni tra i tanti documenti già evocati (retro, § 2.3.). A cominciare dal primo atto di intesa del giugno 1997, ove era lo stesso Emilio Riva a convenire “circa l’urgente necessità e l’indispensabilità di procedere in tempi congrui alla riduzione delle emissioni in atmosfera derivanti dal centro siderurgico di Taranto”, ed in particolare alla “riduzione delle emissioni diffuse della cokeria”, mediante “l’utilizzo delle migliori tecnologie” e di “sistemi per la limitazione delle emissioni derivanti dal processo di distillazione del carbon fossile in cokeria”. Ed ancora dopo cinque anni, ovvero a maggio del 2002, in occasione del secondo “protocollo di intesa” tra l’azienda e gli enti territoriali, veniva riaffermata la necessità di “riconoscere assoluta priorità alle problematiche connesse al reparto cokeria”, al punto da garantire una via preferenziale ai relativi interventi strutturali.
Ma, più d’ogni altro documento, eloquente risulta la nota del direttore Capogrosso del 16 febbraio 2001: con la quale questi non soltanto ribadiva la disponibilità dell’azienda a perseguire la ricostruzione delle batterie in questione “secondo i più avanzati criteri tecnologici” (che evidentemente, quindi, come si desume per argomento logico a contrario, non venivano ancora osservati), ma praticamente ammetteva la mancanza di numerosi dispositivi destinati al contenimento delle emissioni. Da tale nota, infatti, si evince che le batterie nn. 3 – 6 mancavano, tra l’altro: 1) di un sistema di caricamento fossile; 2) di un impianto di depolverazione allo sfornamento; 3) di porte ad elevata tenuta.
E di tanto si rinviene conferma ulteriore nel progetto preliminare di rifacimento di quelle batterie, col quale l’azienda aveva previsto che le stesse fossero munite: di un “sistema di captazione e depolverazione delle emissioni allo sfornamento coke” su ciascun gruppo termico; di “nuovi pulisciporte meccanici e nuovo sistema levaporte, per assicurare la pulizia e l’idonea collocazione delle porte sul forno dopo ogni ciclo di sfornamento”; di macchine caricatrici dotate di un “nuovo sistema di estrazione per una distribuzione controllata del fossile nelle celle, in modo da evitare la formazione di emissioni durante e a fine caricamento”. Tutti dispositivi di impiego comune e già installati dalla stessa “Ilva” sulle batterie nn. 7 – 11 (vds. allegati nn. 3 e 4 alla informativa dello “Spesal” del 13.9.2001, in fald. n° 7).
Inoltre, gli organi aziendali ben conoscevano quali fossero le sostanze prodotte da tali impianti, e quali la natura ed il grado della loro tossicità per l’uomo. A tacer d’altro, basta soltanto ricordare, a questo fine, quanto la stessa “Ilva” scriveva nel “documento di valutazione dei rischi”, adottato a norma dell’art. 4 del D.L.vo n° 626, citato, ovvero: che “… nell’ambito del processo di distillazione del carbon fossile, per la produzione del carbon coke, si effettuano lavorazioni di cui all’allegato VIII del D.L.vo 626/94, che espongono agli idrocarburi policiclici aromatici presenti nella fuliggine, nel catrame o nella pece di carbone”; che, tra le “attività lavorative che comportano la presenza di sostanze o preparati cancerogeni”, vi è la “distillazione di carbon fossile”; che, infine, tra i “preparati cancerogeni” presenti nel ciclo di lavorazione della cokeria, in particolare perché contenenti i.p.a., vi sono il carbon fossile, il gas cok, il catrame, l’olio di lavaggio e la pece (vds. “DOC-008”, in particolare fogli 1, 2 e 10).
f) Dunque il management – come dicono i più moderni – dell’”Ilva” conosceva molto bene quelle deficienze strutturali ed i rischi connessi; e, pur tuttavia, ha volontariamente omesso di dotare le batterie nn. 3-6 di quei dispositivi. Niente e nessuno, infatti, glielo ha impedito.
Tanto è sufficiente, come s’è detto più sopra, perché possa riconoscersi il dolo nella condotta degli agenti responsabili (sulla individuazione dei quali ci si intratterrà nel prossimo paragrafo).
Le difese hanno contestato l’esistenza di tale elemento psicologico, valorizzando anche la dimensione dell’impegno economico sostenuto dall’”Ilva” negli anni dal 1995 al 2001 per ammodernare le altre batterie del reparto cokeria, nonché di quello necessario per il rifacimento delle nn. 3-6, stimato da Capogrosso, in quella nota del 16 febbraio 2001, in 150 miliardi di lire. Parrebbe di capire, dunque, che la difesa abbia inteso evocare una sorta di inesigibilità del comportamento oggetto di contestazione.
Un simile argomentare, però, presta il fianco a più d’un’obiezione.
Su di un piano tipicamente dogmatico, è sufficiente ricordare come la teoria della inesigibilità, sorta in Germania ed accolta con misere fortune altrove, con l’obiettivo di cercare un comune denominatore tra le diverse scusanti codificate ed un parametro di riferimento per l’enucleazione di quelle non codificate, si presenta priva di pregio.
E’ stato acutamente osservato, dalla nostra migliore dottrina, come, a voler individuare la inesigibilità quale causa generale ed ulteriore di esclusione della colpevolezza (al di là, ossia, delle ipotesi codificate), o significa dire una verità ovvia, perché ricavabile dalle norme che disciplinano la colpevolezza (il comportamento prudente, diligente etc. dev’essere, evidentemente, anzitutto possibile); oppure si finisce per attingere la scusa da fonti materiali del diritto, con grave nocumento alla certezza di questo ed al principio di legalità.
Inoltre, il vizio insuperabile della teoria in esame è rappresentato dalla impossibilità di individuare un soddisfacente parametro di riferimento per la esigibilità di un dato comportamento. Se, infatti, si guardasse allo stesso agente nella situazione concreta in cui s’è trovato, vi sarebbe il rischio di finire per scusare ogni azione criminosa; se, invece, il modello comportamentale lo si volesse individuare nell’”uomo medio”, si finirebbe per navigare nella massima incertezza, trattandosi all’evidenza di un parametro vago ed evanescente.
Ma, superando a piè pari queste dispute teoriche, che qui possono essere soltanto accennate, v’è da dire che, nell’ipotesi oggetto di giudizio, non ricorrerebbero nemmeno gli estremi di tale inesigibilità.
S’è già accennato dianzi – in questo stesso paragrafo, al punto 3.1.e) – di come siano ritenute irrilevanti, per giurisprudenza unanime, le eventuali motivazioni economiche od organizzative dell’impresa, che abbiano indotto il datore di lavoro ad omettere la predisposizione delle necessarie cautele. E, del resto, nel conflitto tra due beni di rango costituzionale, quali l’iniziativa economica privata e ed il diritto alla salute, non vi può esser dubbio sulla prevalenza del secondo rispetto alla prima, la quale peraltro – come si ricorderà – “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (art. 41, cpv., Cost.).
Né debbono trarre in inganno, e condurre a conclusioni differenti, l’inciso “sempre che l’applicazione di tali misure non comporti costi eccessivi”, contenuto nella definizione di “migliore tecnologia disponibile” adottata dall’art. 2, n° 7, del D.P.R. n° 203/1988, ovvero quello, senza dubbio più mite e sfumato, elaborato dal legislatore del recente Testo Unico in materia ambientale, secondo cui debbono intendersi come “disponibili” le “migliori tecniche”, “purchè il gestore possa avervi accesso a condizioni ragionevoli” [art. 268, lett. aa), n° 2), D.L.vo 3.4.2006, n° 152]. Non va dimenticato, infatti, che si tratta di norme in materia di contrasto ai fenomeni di inquinamento, le quali, pertanto, a differenza della normativa antinfortunistica, proteggono il bene salute soltanto di riflesso ed indirettamente.
Nel caso specifico, comunque, non vi sarebbe neppure spazio per simili obiezioni. Infatti, pur dovendo darsi atto del consistente impegno di spesa necessario per dotare le batterie nn. 3-6 di quei dispositivi, non va dimenticato che, stando al bilancio di esercizio relativo all’anno 2000, il “Gruppo Riva” (del quale l’”ILVA s.p.a.” rappresenta la società di gran lunga più importante, e che ha nello stabilimento di Taranto il suo insediamento aziendale più grande, pari a 7-8 volte il secondo: vds. test. Talpone, pagg. 5 s., trascr. verb. ud.) ha realizzato in quell’anno un fatturato consolidato di 4.947 ml./€, con un incremento del 21% rispetto all’anno precedente, ed un utile netto di 286,5 ml./€ (+ 24,6% rispetto all’anno precedente), che gli ha consentito di compiere investimenti per 595 ml./€ e, in particolare, di acquistare la società francese “SAM” per 126 ml./€ (tali notizie si leggono nella relazione del “collegio Liberti” alla pag. 26 e non sono state contestate dalle difese degli imputati).
Si tratta, evidentemente, di un dato parziale, che tuttavia viene qui evocato soltanto quale indice esemplificativo del volume d’affari dell’”Ilva” e delle sue capacità economiche, e che consente di affermare con tutta tranquillità come tale società disponesse di risorse finanziarie ampiamente sufficienti per provvedere ad installare le cappe e gli altri dispositivi di sicurezza sulle batterie di forni in questione, ma abbia preferito dirottare quelle provviste su altri investimenti ed acquisizioni aziendali, verosimilmente più redditizi.
Ma, piaccia o meno, per la nostra Costituzione, e vieppiù per la legge penale, la salute dei lavoratori viene prima del profitto dell’azienda e va tutelata anche a discapito di questo.
4. – segue: L’individuazione dei soggetti responsabili.
Fino ad ora si è parlato, quasi impersonalmente, dell’”Ilva”, dei suoi obblighi e delle sue inadempienze. Ovviamente, però, è necessario individuare le singole persone che, in funzione della loro collocazione nell’organigramma aziendale, avevano l’obbligo di predisporre i descritti apparecchi antinfortunistici e, invece, hanno consapevolmente ed intenzionalmente omesso di farlo.E’ del pari evidente, inoltre, che, perché si possa parlare di una omissione colpevole, è necessario anzitutto che il soggetto avesse il potere, giuridico e materiale, di compiere l’attività richiesta.
Orbene, l’aspetto qualificante, ai fini della individuazione dei responsabili, risiede nel fatto che la collocazione di quelle apparecchiature antinfortunistiche sulle batterie nn. 3-6, non potendo essere disgiunta da un più ampio programma di ristrutturazione di quegli impianti (“revamping” o “refreshing” che fosse), postulava l’impiego di notevoli risorse finanziarie e, ad un tempo, il riassetto della organizzazione produttiva dell’azienda: ond’è che essa andava necessariamente inserita all’interno del più generale piano di investimenti della società.
Se ne deve logicamente dedurre, allora, che la relativa deliberazione fosse prerogativa esclusiva dei massimi vertici amministrativi e tecnici di quella: sui quali, pertanto, va fatta gravare la responsabilità per la mancata adozione di essa.
Peraltro, le ricadute economiche di quegli interventi escludono l’operatività delle deleghe di funzioni all’interno dell’organigramma aziendale. Come la giurisprudenza della Corte di Cassazione ripetutamente rammenta, infatti, uno dei requisiti essenziali perché la responsabilità penale possa esser fatta ricadere sul preposto è quello della sua autonomia tecnica, gestionale, ma anche finanziaria, quanto meno in misura funzionale all’assolvimento degli obblighi trasferitigli dal datore di lavoro.
Senza contare che, costituendo la delega una causa di esonero da responsabilità, l’onere di offrire la prova dei suoi presupposti operativi spetta all’imputato che la rivendichi (così, tra moltissime, già Cass. pen., sez. IV, 16.1.1990, n° 444; idem, 23.3.1998, n° 3602, che ha aggiunto come tale prova debba essere “rigorosa”). E nessuno degli imputati, nel corso del processo, ha adempiuto a tanto.
4.1. - Sulla base di tale considerazione di fondo, il principale colpevole è Emilio Riva.
Questi è, ed era all’epoca, il presidente del consiglio di amministrazione dell’”Ilva s.p.a”.
In base allo statuto della società, adottato in data 3 luglio 2000, il c.d.a. poteva nominare amministratori delegati, ma non poteva delegare, tra altre attività, la “approvazione di budget (comprensivo del piano di investimenti) e relativo programma aziendale, e loro eventuali modifiche sostanziali” (art. 23, co. 1 e co. 2, lett. e). Peraltro, disposizione identica era stata adottata dallo stesso c.d.a. nella riunione del 18.10.1999 e ribadita in quella del 24.7.2000.
In tali riunioni era stato altresì stabilito, e quindi ribadito, “di riservare al Presidente del Consiglio di Amministrazione, escludendoli dalla competenza del Vice Presidente e Consigliere Delegato, nonché dei Consiglieri Delegati, … tutti gli atti, anche di controllo, relativi alla… sicurezza sul lavoro, all’ecologia ed alla tutela ambientale”.
Peraltro, ma, a fronte di tali dati formali, la circostanza si appalesa finanche superflua, Emilio Riva ha personalmente siglato parte dei numerosi “atti di intesa” già ricordati, e soprattutto il primo tra quelli.
Egli, dunque, in quanto presidente del c.d.a. e da quest’ultimo organo delegato alle funzioni in materia – per quel che qui interessa – di sicurezza sul lavoro, era la voce più autorevole per decidere quando, come e quanto si dovesse investire in questo settore.
Stupisce, piuttosto, considerando i descritti poteri in materia di budget comunque spettanti al c.d.a., la scelta della Procura della Repubblica di non elevare l’imputazione in argomento anche nei confronti dell’amministratore delegato Claudio Riva. I cui effettivi poteri decisionali nella materia trovano un pregnante riscontro, per esempio, nella circostanza per cui egli abbia sottoscritto, quale unico rappresentante per l’azienda, vari “atti di intesa”, ed in particolare quello del 22 maggio 2002, esclusivamente dedicato alla questione delle batterie nn. 3-6.
4.2. - Un giudizio di colpevolezza va pure formulato nei confronti del direttore di stabilimento Luigi Capogrosso.
Con la convenzione stipulata tra questi ed Emilio Riva nel gennaio del 1996, mediante la quale egli è stato nominato direttore dello stabilimento di Taranto, gli sono stati attribuiti “tutti gli incarichi e i poteri inerenti la gestione ed organizzazione dell’attività dello Stabilimento, favorendo il migliore utilizzo e sviluppo delle risorse messe a sua disposizione e ciò in autonomia decisionale e di spesa, nel rispetto degli ambiti economici determinati su sua indicazione in sede di budget annuale”.
In particolare, gli è stato affidato il compito di “dirigere e condurre tutta la complessa attività assegnata all’imprenditore in materia di sicurezza, di prevenzione e di igiene del lavoro, nonché di tutela dell’ambiente naturale, in relazione a disposizioni di legge, a norme di comportamento impartite dalla pubblica competente Autorità o suggerite dall’esperienza tecnica specifica e, in generale, da ogni altra regola di prudenza o diligenza che deve essere applicata nell’esecuzione del lavoro al fine di eliminare ogni possibile rischio e prevenire le conseguenze di danno alle persone e alle cose”.
E, nell’esecuzione di tale compito, egli è stato altresì gravato: a) di “vigilare sulla dotazione al personale dipendente… dei mezzi e strumenti antinfortunistici e di tutela della salute sulla base di quanto prescritto dalla normativa, … nonché attuare le disposizioni in materia di sicurezza, di igiene del lavoro e di tutela dell’ambiente naturale, agendo in piena autonomia all’interno delle somme destinate nel budget”; b) di “emanare disposizioni idonee ad assicurare l’osservanza della normativa vigente e delle regole di prudenza” nelle medesime materie.
Gli è stato fatto carico, inoltre, di provvedere all’attuazione degli obblighi derivanti dal D.L.vo n° 626 del 1994, tuttavia stabilendo che, al fine del migliore esercizio di tutti quei poteri e compiti assegnatigli, egli potesse “attivare le diverse funzioni aziendali, anche esterne allo stabilimento, che, in relazione alle rispettive competenze, sono tenute ad assicurare ogni necessario supporto”.
Infine, a testimonianza di quanto ampio sia il suo spettro di poteri, gli è stato attribuito finanche quello di “sospendere e/o interrompere l’attività produttiva dello stabilimento o di settori dello stesso fino a quando… lo ritenga assolutamente necessario allo scopo di prevenire rischi rilevanti non altrimenti evitabili”.
Un fascio di poteri, dunque, e di correlativi doveri – come ognuno può vedere – estremamente ampio: che, peraltro, Capogrosso ha concretamente esercitato, se è vero – come ha riferito il segretario generale dell’”Ilva” dott. Talpone, senza che lo stesso Capogrosso lo abbia smentito od abbia anche soltanto allegato alcun elemento a suo discarico sul punto – che il c.d.a. dell’”Ilva”, per tutti gli stabilimenti, ed in particolare per quello di Taranto, in sede di approvazione del budget si è sempre limitato ad approvare e ratificare le proposte provenienti dai rispettivi direttori.
E, del resto, una conferma dell’ampiezza dei poteri di questo imputato si rinviene nel fatto che egli sia stato l’interlocutore sostanzialmente esclusivo del Sindaco e degli altri organi amministrativi intervenuti in tutta la complessiva vicenda che ha riguardato il reparto cokeria, quale è stata descritta nel precedente § 2..
Infine, ad ulteriore conforto della piena consapevolezza, da parte del Capogrosso, delle questioni tecniche, operative e gestionali riguardanti le cokerie, mette conto rimarcare che egli, prima di assumere la qualifica di direttore dello stabilimento, era stato il dirigente responsabile, giust’appunto, del reparto cokeria (vds. deleghe conferite, dall’allora direttore ing. Salvatore, in data 22 novembre 1995: in fald. n° 7, alleg. al fascicolo delle indagini compiute dallo “Spesal”).
4.3. - A conclusioni differenti, invece, si deve giungere per l’imputato Pensa.
Questi, nella sua qualità di dirigente responsabile del reparto cokeria, aveva formalmente ricevuto ampia delega dal Capogrosso, anche nella materia antinfortunistica (si vedano atti notarili di procura speciale del 15 febbraio 2001 e, ancor prima, del 27 gennaio 1997).
Come s’è detto, però, la scelta di dotare o meno le batterie nn. 3-6 di quei dispositivi – tenuto conto anche di un radicale intervento di ristrutturazione che, prima o poi, si sarebbe dovuto necessariamente compiere, stante la vetustà delle stesse – era, con ogni verosimiglianza, di competenza esclusiva dei massimi vertici tecnici ed amministrativi dell’azienda: di coloro, ossia, per essere immediatamente comprensibili, che gestivano i quattrini e degli altri che dicevano loro quando spenderli e cosa comprare.
Pensa, quindi, aveva i poteri ed i compiti normalmente devoluti al datore di lavoro dal D.L.vo n° 626, cit., e dall’ulteriore normativa speciale antinfortunistica, poiché espressamente delegatigli da Capogrosso; manca qualsiasi prova, invece, di una sua potestà decisionale, ancorchè subordinata e di rango inferiore, in ordine al piano di investimenti dell’azienda.
Peraltro, sulla scorta delle circostanze evidenziate nel trattare le posizioni degli imputati Emilio Riva e Capogrosso, è assolutamente certo che costoro conoscessero direttamente e personalmente, fin nei minimi dettagli, la situazione delle batterie di forni in questione. Non può, dunque, ipotizzarsi nemmeno un concorso morale del Pensa, sub specie di volontaria omissione di adeguate informazioni ai suoi superiori circa le anzidette carenze strutturali degli impianti da lui condotti.
Dall’imputazione di cui al capo A), quindi, quegli dev’essere mandato assolto, per non aver concorso alla realizzazione del fatto costituente il reato.
5. – Le contravvenzioni di cui al D.P.R. n° 303 del 1956 (capo B).
Quanto sin qui esposto in merito alle carenze strutturali delle batterie nn. 3-6 sarebbe già di per sè sufficiente per ritenere integrate le contravvenzioni contestate ai medesimi imputati al capo B) della rubrica.L’art. 20 del D.P.R. 19 marzo 1956, n° 303, per le lavorazioni in cui “si svolgono gas o vapori irrespirabili, tossici od infiammabili”, ovvero in cui “si sviluppano normalmente odori o fumi di qualunque specie”, ed il successivo art. 21, per le lavorazioni che “danno luogo normalmente alla formazione di polveri di qualunque specie”, impongono, infatti, al datore di lavoro di adottare i provvedimenti atti ad impedirne lo sviluppo e la diffusione o, per lo meno, a ridurre tali fenomeni “per quanto è possibile”.
E, tra gli accorgimenti che le stesse norme prevedono, in un catalogo progressivo e sequenziale, vi sono innanzitutto i dispositivi di aspirazione, ritenuta od estrazione, da collocarsi, nuovamente “per quanto è possibile”, vicino alla fonte di produzione.
Sul punto, due sole osservazioni.
In primo luogo, ed in generale, posto che tali norme non possono essere lette disgiuntamente dal disposto dell’art. 2087 del codice civile e da quelle speciali contenute, ad esempio, nel D.L.vo n° 626 del 1994, la locuzione “per quanto è possibile” non può essere interpretata se non come l’ennesima riaffermazione dell’obbligo dell’imprenditore di adeguare gli ambienti lavorativi, in materia di sicurezza dei lavoratori, alle cc.dd. “b.a.t.” (best available techniques) o – se si preferisce, con un lessico più familiare ai giuristi che ai tecnici – alla migliore scienza ed esperienza del settore.
Nel caso specifico, poi, basterebbe rammentare anche la sola assenza delle cappe aspiranti, per rilevare l’avvenuta violazione delle norme in discorso.
Ma queste ultime, a differenza di quanto s’è visto per l’art. 437, cod. pen., fanno riferimento non soltanto ad impianti, apparecchiature o segnali, ma, più genericamente, a “provvedimenti” e “dispositivi” di qualsiasi natura: quindi anche, per esempio, a procedure operative, a modalità di esercizio o di manutenzione degli impianti, ovvero a strumenti tecnici meramente accessori, privi di autonomia funzionale e di specifica destinazione allo scopo.
E, in effetti, l’imputazione in discorso si fonda soprattutto sugli esiti dell’ispezione compiuta presso le cokerie il 13 giugno del 2001 dai funzionari dello “Spesal” della A.s.l. Giordano e De Pasquale.
Nell’occasione, infatti, venivano accertate e contestate svariate violazioni alla normativa speciale antinfortunistica, relative non soltanto a carenze strutturali degli impianti, bensì pure allo stato di conservazione degli stessi, alla presenza di fonti di pericolo, al mancato uso di d.p.i., e quant’altro, e venivano impartite le relative prescrizioni, ai sensi dell’art. 20, D.L.vo n° 758 del 1994 (vds., amplius, verbale n° 342, allegato alla informativa del 12.7.2003, in fald. n° 7).
Ma, come comunicato degli stessi ispettori in distinte informative successive (tutte allegate a quella conclusiva del 12.7.2003), la società “Ilva” ha ottemperato alle varie prescrizioni nei termini assegnatile ed è stata di volta in volta ammessa alle oblazioni in sede amministrativa, tutte regolarmente versate.
Per la verità, la prescrizione di mantenere le batterie nn. 3-6 “in buono stato di conservazione al fine di evitare esposizione dei lavoratori alle sostanze derivanti dalle attività lavorative” è stata ritenuta adempiuta dai funzionari dello “Spesal” non perché l’azienda abbia adottato le cautele e gli interventi necessari a quel fine, bensì in quanto, a seguito del sopralluogo effettuato il 30 settembre del 2002, costoro hanno preso atto dell’avvenuto spegnimento di quegli impianti (antea, § 2.3.; vds., inoltre, informativa n° 6646 del 21.10.2002, con la quale i predetti funzionari hanno comunicato alla Procura l’avvenuto pagamento definitivo dell’oblazione da parte dell’”Ilva”).
Ebbene, il giudicante ritiene di poter convenire con la lettura adottata dai funzionari dello “Spesal”.
Le prescrizioni che costoro sono per legge tenuti ad impartire, infatti, mirano essenzialmente a costringere l’imprenditore a rimuovere le sorgenti di pericolo per la sicurezza e/o la salute dei lavoratori, derivanti da una determinata attività lavorativa, dall’impiego di dati macchinari o da altre modalità e circostanze di tale attività.
Appare francamente innegabile, tuttavia, che la fonte di pericolo possa essere eliminata non soltanto attraverso la predisposizione delle opportune cautele offerte dalla scienza e dalla tecnica, ma anche, ed ancor più radicalmente, attraverso la cessazione dell’attività o la dismissione del macchinario che cagionavano il pericolo.
E questo è quanto è avvenuto nel caso di specie: dove la società “Ilva”, spegnendo le batterie di forni ritenute pericolose, ha evidentemente eliminato ogni rischio di esposizione dei lavoratori ad i.p.a., benzene e polveri da quelle derivanti.
In relazione alla contravvenzione in esame, dunque, va dichiarata l’improcedibilità, per intervenuta estinzione, ai sensi dell’art. 24, D.L.vo n° 758 del 1994.
E ciò dicasi anche per l’imputato Pensa, poiché, a differenza di quanto s’è detto con riferimento all’art. 437, c.p., le carenze e le omissioni rilevanti ai fini delle contravvenzioni in rassegna attenevano non soltanto ad apparecchiature ed interventi molto complessi e costosi, bensì anche alla minuta gestione del reparto ed alla conduzione degli impianti.
6. – L’inosservanza dell’ordinanza del Sindaco di Taranto n° 244 del 22 maggio 2001 (capo C).
Con tale ordinanza, il Sindaco di Taranto, dr.ssa Rossana Di Bello, ingiungeva al direttore tecnico dello stabilimento “Ilva”, ing. Capogrosso, la “immediata sospensione dell’esercizio delle batterie 3-6 della cokeria”.Le ragioni e la sequenza degli accadimenti che avevano condotto il Sindaco a tale determinazione sono stati ampiamente esposti nel precedente § 2.3., e non v’è, pertanto, mestiere di ritornarci.
Così, pure, non è necessario trattenersi sulla natura giuridica di tale provvedimento e sulla riconducibilità dello stesso, sotto il profilo causale e teleologico, alle materie previste dall’art. 650, cod. pen..
Quella determinazione sindacale, infatti, trovava il suo antecedente logico principale nella segnalazione operata il 18 novembre precedente dal direttore del “P.m.p” della A.s.l., con la quale venivano adombrati seri e concreti pericoli per la comunità locale (“… non può non evidenziarsi la non transitorietà di tali situazioni, che incidono significativamente sul carico inquinante emessa dall’area cokeria, con ovvi riflessi sulla sostenibilità ambientale dell’area cittadina circostante”). Codesta ordinanza, quindi, può ben classificarsi tra quelle contingibili ed urgenti, nonché determinata da ragioni di “sicurezza pubblica” o, quanto meno, di pubblica “igiene”, ove si considerino le ricadute inquinanti dell’attività che si intendeva inibire.
Sul punto, in verità, le difese non hanno mosso alcuna obiezione. Le censure difensive hanno riguardato, infatti, essenzialmente due altri aspetti: 1) l’illegittimità di una siffatta ordinanza (in effetti tempestivamente impugnata dalla società “Ilva” dinanzi al T.A.R.), in quanto tecnicamente impossibile era l’immediato spegnimento di quegli impianti; 2) il sopravvenuto sequestro preventivo di quelle batterie, che – secondo i deducenti – avrebbe privato la direzione “Ilva” di qualsiasi possibilità di intervento: ond’è che dalla relativa data (11 settembre 2001) si dovrebbe calcolare il termine di prescrizione del reato, il quale, pertanto, sarebbe ormai spirato.
Nessuno dei due argomenti coglie nel segno.
Riguardo al primo, occorre evidenziare che quella ordinanza sindacale, quand’anche illegittima, era munita dei requisiti della esecutorietà (non abbisognava, ossia, di ulteriori atti o provvedimenti per poter essere eseguita) e della esecutività (o efficacia), e quindi doveva essere immediatamente eseguita. Peraltro – come si legge nella “relazione Liberti” (pag. 12), non essendosi rinvenuta negli atti una copia del provvedimento – il T.A.R., con sentenza del settembre successivo, ne ha pure negato la sospensione dell’esecuzione: sicchè nessuna valida ragione avrebbe potuto consentire all’”Ilva” di non ottemperarvi.
Le addotte difficoltà tecniche, poi, sono un evidente pretesto. Effettivamente quegli impianti – per concorde rappresentazione di tutti i tecnici escussi – non potevano essere spenti da un momento all’altro. Tuttavia, è evidente che, con quell’ordinanza sindacale, non si chiedeva all’azienda una immediata disattivazione di essi, bensì soltanto di avviare le procedure che, con il tempo dovuto, avrebbero poi condotto al loro spegnimento.
Anche l’addotta impossibilità di metter mano agli impianti dopo il sequestro preventivo degli stessi disposto dal G.i.p. è più speciosa che reale.
E’ sufficiente evidenziare, infatti, che loro custode era stato nominato lo stesso Capogrosso, e che tali impianti hanno continuato a funzionare pur dopo l’imposizione di quel vincolo giudiziario, rimanendo nella totale disponibilità di fatto dei vertici aziendali, fino a quando questi, motu proprio (e solo dopo un anno!), hanno deciso di spegnerli.
E’ dunque evidente che, come correttamente è stato indicato nel capo di imputazione, la consumazione del reato in scrutinio si è protratta fino al momento di tale disattivazione, e quindi fino a settembre del 2002.
V’è da aggiungere, peraltro, che, ai fini della prescrizione, di fatto cambia poco o niente.
Il relativo termine ultimo, infatti, pur se prorogato nel massimo consentito dalla legge, è pari a quattro anni e sei mesi da quella data (a norma degli artt. 157, co. 1, n° 5, e 160, ult. co, ult. parte, nella formulazione previgente alla legge n° 251 del 2005, non potendo applicarsi quest’ultima, in quanto meno favorevole). Esso, dunque, è destinato a spirare a marzo di quest’anno, ossia già durante il termine necessario per la stesura della presente motivazione.
Quanto, infine, ai responsabili, questi vanno individuati in Capogrosso, in quanto diretto destinatario dell’ordine, ma anche in Emilio Riva, poiché, per quanto già s’è esposto, la scelta di disattivare quegli impianti rientrava in un più ampio programma di investimenti direttamente riconducibile ai vertici amministrativi aziendali. Non v’è dubbio, quindi, che Capogrosso non potesse determinarsi a disattendere quell’ordine della pubblica autorità, senza aver previamente acquisito l’autorizzazione, o quanto meno l’assenso, del suo presidente. Ciò che, agli effetti penali, si sostanzia per lo meno in un concorso morale.
Tale premessa di fondo, analogamente a quanto si è avuto modo di osservare a proposito della mancata predisposizione di apparecchiature antinfortunistiche integrante il reato di cui all’art. 437, cod. pen., consente di giungere, anche per la contravvenzione in scrutinio, ad una pronuncia assolutoria per Pensa, essendosi egli verosimilmente limitato a prendere atto delle decisioni adottate dai suoi superiori, senza potere in alcun modo interferirvi.
Per lui s’impone, quindi, un’assoluzione per non aver commesso il fatto.
² ² ² ²
capitolo III - I REATI IN MATERIA DI INQUINAMENTO DA PARTE DELL’“ILVA” (capi D, E e F dell’imputazione)
1. – Premessa.
“Quegli altiforni, che come giganteschi Mangiafuoco meccanici vomitano lunghe lingue di fiamme incandescenti sullo sfondo dei tramonti del golfo; quell’acquerugiola malsana e quel fango rossastro che si depositano sulle nostre case e sulle nostre persone nelle giornate di scirocco, ed è per metà colpa del vento e metà dell’inquinamento; quell’andirivieni di grossi camion lungo la fettuccia di via Appia che collega la fabbrica al casello dell’autostrada, quelle insegne che lasciano intendere chissà quale fervore mercantile, parodia di un’improbabile Detroit-upon-lo-Jonio: tutto questo fa parte ormai da quasi quarant’anni del paesaggio cittadino” (G. DE CATALDO, Terroni, ed. Sartorio, 1995).
La citazione – chi scrive lo sa bene – non è dotta e, ovviamente, non vuole neppure essere utilizzata quale inaccettabile scorciatoia probatoria.
Essa vale solamente quale attestazione, senza dubbio atecnica ed eterodossa, di un concetto invece ripetutamente evocato, nel corso del processo, da molti testimoni e da tutte le parti, finanche, in alcuni casi, dai difensori degli imputati: quello del c.d. “notorio”.
Il fenomeno dell’inquinamento a Taranto, ossia, sarebbe un fatto notorio.
Certo, sono ben poche le aree del territorio nazionale che possono fregiarsi del titolo di “area ad elevato rischio ambientale” e meritare, perciò, un Decreto del Presidente della Repubblica che ne stabilisca un piano di disinquinamento. Un decreto, peraltro, nel quale, seppur con il lessico più burocratico degli atti normativi, certamente più acconcio anche a questa sede, si ritrova la descrizione contenuta nella citazione d’esordio: “Nell’area sono presenti insediamenti industriali di rilevante dimensione che influenzano in modo importante sia il quadro socioeconomico che quello ambientale e paesaggistico; (…) Il territorio è fortemente caratterizzato dall’area industriale che, per estensione, occupa una superficie quadrupla rispetto a tutto l’abitato di Taranto. In essa sono presenti elementi di forte degrado paesaggistico, quali:… la presenza di insediamenti di grande dimensione, con carenza di opere atte a ridurne l’impatto visivo; (…) Le interferenze con l’ambiente prodotte dalle attività produttive sono di rilevante entità, e interessano tutti i comparti ambientali: le principali fonti causali di inquinamento dell’area sono rappresentate… dalle industrie siderurgiche, petrolifere e cementiere. (…) L’Ilva… rappresenta la fonte potenziale, di gran lunga più rilevante, di impatto sull’ambiente, (…) l’Ilva è responsabile di una parte percentualmente preponderante del totale immesso in atmosfera” (D.P.R. 23.4.1998, pagg. 169 – 171).
Tuttavia, più di scomodare il notorio – che è concetto da mantenere in limiti ristrettissimi nell’ambito giudiziario, e particolarmente in quello penale e processuale penale – e più delle testimonianze dei vari politici ed amministratori locali, generiche ed in nulla integrative rispetto a quanto contenuto nel profluvio di documenti riversati nel fascicolo del giudizio durante tutto il processo, sarebbe stata magari utile un’immagine fotografica di quei cirri grigio-marroni che – come sanno bene coloro che frequentano la città – provengono dall’area industriale e sovente ammantano l’abitato urbano e le zone limitrofe, e che, specialmente nelle giornate di sereno, sono visibili da svariati di chilometri di distanza.
Ma né l’accusa pubblica né quelle private hanno offerto una siffatta prova documentale: che, oltre ad un’efficacia di sicuro non inferiore rispetto a quella delle prove testimoniali, avrebbe garantito un notevole risparmio di tempo. Il quale, mai come in questo caso, è bene assai prezioso, atteso che, secondo il nostro codice penale, laddove si tratti di contravvenzioni (e tali sono i cc.dd. “reati ambientali”), al massimo entro quattro anni e mezzo dalla verificazione del fatto si debbono fare indagini, complesse perizie e consulenze tecniche, istruttorie dibattimentali e sentenze per tre gradi di giudizio, per evitare che colpevoli ed innocenti si confondano nei fumi – appunto – della prescrizione.
In relazione a tali fatti, dunque, la Procura della Repubblica ha ipotizzato tre fattispecie di reato: quella dell’art. 674, cod. pen., sub specie di omesso impedimento di emissioni di polveri minerali e gas; quella dell’art. 25, co. 3 e 4, D.P.R. n° 203/1988, in materia specifica di inquinamento atmosferico; il danneggiamento, infine, di beni pubblici ed arredi urbani, conseguente a quelle emissioni ed alle loro ricadute al suolo (art. 635, co. 2, n° 3, cod. pen.). E’ il momento di esaminarle.
2. – La contravvenzione di cui all’art. 25, co. 3 e 4, D.P.R. 24 maggio 1988, n° 203 (capo E).
Derogando all’ordine di esposizione sin qui seguìto, pedissequo alla collocazione degli addebiti nel libello accusatorio, val la pena trattare anzitutto di tale contravvenzione, rubricata sub E), e poi di quella prevista e punita dall’art. 674, cod. pen., contestata al capo D). E ciò in quanto – come più diffusamente si dirà al momento opportuno – le difese degli imputati hanno vigorosamente sostenuto l’impossibilità di configurare la seconda, laddove non sia integrata anche la prima.E, poiché – come ci si accinge ad illustrare – il dibattimento non ha consentito di raggiungere una prova certa della sussistenza della contestata violazione della legge speciale, appare utile muovere da tale punto per verificare gli eventuali riverberi sul reato codicistico.
2.1. - L’art. 25 del D.P.R. n° 203 del 1988, per quel che qui interessa, prevede e sanziona due condotte ben precise dei gestori di impianti industriali. Al comma 3°, il mancato rispetto dei “valori di emissione” stabiliti dalla normativa statale o regionale. Al successivo comma 4° – con quella che può ben ritenersi una circostanza aggravante, stante l’esplicito richiamo della disposizione precedente – il superamento dei “valori limite di emissione” che determini altresì il superamento dei “valori limite di qualità dell’aria”.
Peraltro, tale corpus legislativo, secondo una tecnica di normazione ormai consueta nelle materie a preminente contenuto tecnico, si è preoccupato anzitutto di offrire le definizioni di quei concetti (art. 2).
Così, per “valore limite di emissione” deve intendersi “la concentrazione e/o la massa di sostanze inquinanti nella emissione degli impianti in un dato intervallo di tempo, che non devono essere superate” (n° 8). I “valori limite di qualità dell’aria”, invece, sono “limiti massimi di accettabilità delle concentrazioni e limiti massimi di esposizione relativi ad inquinanti nell’ambiente esterno” (n° 2).
E quella stessa norma, al punto n° 3, definisce pure i “valori guida di qualità dell’aria”, intesi come “limiti delle concentrazioni e limiti di esposizione relativi ad inquinamenti nell’ambiente esterno, destinati: a) alla prevenzione a lungo termine in materia di salute e protezione dell’ambiente; b) a costituire parametri di riferimento per l’istituzione di zone specifiche di protezione ambientale per le quali è necessaria una particolare tutela della qualità dell’aria”.
Questa trama normativa suggerisce sùbito un paio di considerazioni.
In primo luogo, essendo la “emissione” “qualsiasi sostanza solida, liquida o gassosa introdotta nell’atmosfera, proveniente da un impianto, che possa produrre inquinamento atmosferico” (così, infatti, viene definita all’art. 2, n° 4, dello stesso D.P.R. n° 203), appare evidente che l’accertamento dell’eventuale superamento dei relativi valori limite – da cui discende la sussistenza o meno del reato di cui al co. 3° – imponga l’installazione dei relativi apparecchi rilevatori presso la sorgente emissiva.
Tuttavia, è altrettanto intuibile che una siffatta indagine giudiziaria non potrebbe mai essere eseguita a sorpresa, ovvero all’insaputa dell’imprenditore indagato: il quale, quindi, quanto meno ove la sua attività produttiva lo consentisse, avrebbe ogni agio di diminuire la portata delle emissioni. E, se tale difficoltà di accertamento sussiste per le emissioni convogliate (quelle, ossia, per dirla con lessico più adeguato ai non tecnici, provenienti da camini et similia), a maggior ragione, anche se per motivi diversi, essa ricorre per le emissioni diffuse, dal momento che queste non provengono da punti ben definiti ed individuabili di un dato impianto.
Ovviamente, stando così le cose, se si considerasse la rilevazione tecnica alla fonte come mezzo di prova infungibile ai fini dell’accertamento del reato di cui al co. 3°, questa norma correrebbe il serio rischio di rimanere una mera enunciazione di principio, giammai suscettibile di pratica applicazione. E’ evidente, invece, che, come accade per tutti i reati, la dimostrazione della sua sussistenza può essere data anche per via di deduzione logica da altri elementi significanti e certi: i quali, nello specifico, possono consistere, per esempio, negli esiti dei rilevamenti tecnici sulle immissioni, ossia sul prodotto di quelle emissioni, che viene liberato in atmosfera o che ricade al suolo. Se, in altri termini, il processo consentisse, in ipotesi, di conseguire la prova dell’avvenuto superamento dei “valori limite di qualità dell’aria”, non vi sarebbe alcun azzardo a dedurre logicamente, da tale dato, altresì l’inosservanza dei “valori di emissione” alla fonte.
La seconda considerazione è quella per cui, ai fini della sussistenza di codeste condotte criminose, non sia sufficiente il superamento dei soli “valori guida” di qualità dell’aria (a meno che questi vengano adottati quali “valori limite” dalla normativa regionale o da altra disciplina specifica).
2.2. - Prima di verificare quali valori siano stati o meno superati nel caso di specie, può essere opportuno tracciare un sintetico riepilogo, a guisa di indice, della torrenziale ed eterogenea (nel senso letterale del termine, poiché contenuta prevalentemente in direttive comunitarie poi recepite dall’ordinamento statuale interno) normativa succedutasi nella materia, spesso contenuta, nella sua parte più significativa, addirittura in fonti secondarie, quali i decreti ministeriali.
Limitandoci ai testi più significativi, va ricordato che i predetti limiti sono stati fissati, anzitutto, con decreto del Ministro dell’ambiente del 12 luglio 1990, e quindi con analoghi decreti del 15 aprile e del 25 novembre 1994, relativi alle aree urbane, che hanno altresì introdotto le nozioni di “livello di attenzione” e di “livello di allarme” in relazione a vari agenti inquinanti.
Dopo di che, è intervenuto, in attuazione della direttiva CE n° 96/62, il D.L.vo 4 agosto 1999, n° 351; il quale, introducendo ulteriori definizioni consimili, ha parlato di “valore limite”, quale livello fissato per “evitare, prevenire o ridurre gli effetti dannosi sulla salute umana o per l’ambiente nel suo complesso”; di “valore obiettivo”, inteso quale livello fissato al fine di evitare, “a lungo termine, ulteriori effetti dannosi” per qui medesimi beni; e, infine, di “soglia di allarme”, oltre la quale il rischio per la salute umana si realizza anche in caso di brevi esposizioni e si rende necessario un intervento immediato delle pubbliche autorità competenti [art. 2, lett. e), f), g)].
E – tanto per farla facile – quel decreto ha sì previsto l’abrogazione dei predetti decreti ministeriali, ma l’ha differita all’atto della successiva emanazione di altro analogo decreto, al quale ha affidato la determinazione degli anzidetti valori [vds. artt. 4, co. 1, lett. a), e 13, co. 2, lett. e) d f)]. Tal ultimo decreto, quindi, è stato varato dal Ministro dell’ambiente (nel frattempo diventato anche “della tutela del territorio”) il 2 aprile 2002 (n° 60); e, al capo IV (artt. 17 – 24) ed all’Allegato III (per quel che riguarda le polveri respirabili, ossia l’agente inquinante che qui interessa, come si dirà tra breve), ha stabilito i gli anzidetti “valori limite per la protezione della salute umana”, su base giornaliera ed annuale.
Infine, come già s’è accennato, a processo in corso è intervenuto il nuovo “T.U. ambientale” (D.L.vo n° 152/2006): il quale, nella consueta norma generale definitoria (nello specifico, l’art. 268), ha offerto una nozione, senza dubbio molto più dettagliata, di “valori limite di emissione” [co. 1, lett. q), r), s), t), altresì prevedendo una disciplina estremamente circostanziata per la loro determinazione], ma ha omesso quelle di “valori limite di qualità dell’aria” e di “valori guida di qualità dell’aria”.
Tale circostanza merita di essere significata, in quanto è probabilmente quella che, in uno con la esplicita abrogazione del D.P.R. n° 203/1988, disposta dal T.U. all’art. 280, co. 1, lett. a), ha indotto i difensori dell’”Ilva” ha concludere per un’abolitio criminis, sul presupposto di un difetto di continuità tra vecchia e nuova disciplina.
A prescindere dalle insuperabili riserve sulla validità dogmatica di tale principio, non di rado piegato dalla stessa Corte di Cassazione alle soluzioni più diverse (come si può rilevare da una lettura dei repertori giurisprudenziali in materia, ad esempio, di reati fiscali o societari), in questo caso è sufficiente leggere il testo dell’art. 279 del T.U., nel quale si sanziona ex professo il superamento dei “valori limite di qualità dell’aria” (co. 5), per rilevare l’assoluta specularità di questa norma rispetto all’art. 25 del D.P.R. n° 203/1988. In definitiva, quindi, nessun mutamento del dato normativo v’è stato e, pertanto, può farsi tranquillamente riferimento alla anzidetta disciplina, che era in vigore all’epoca cui si riferiscono le contestazioni.
Un’annotazione a margine: sono avvilenti o – se si preferisce – irritanti la disorganicità, la disomogeneità lessicale, la tecnica di redazione per relationem ad allegati, tabelle e fonti normative secondarie, e – volendo utilizzare una sola parola – il disordine, che caratterizzano la disciplina normativa di questa materia, peraltro così importante per la collettività. Disordine, disorganicità e quant’altro, che rendono estremamente arduo individuare i dati tecnici di riferimento, e quindi il precetto, a tutti gli interpreti: giudici, avvocati, ma anche – come parrebbe essere avvenuto nel presente procedimento e si dirà tra poco – a tecnici specialisti di rango, quali quelli che hanno assistito il G.i.p. e le parti processuali durante la fase delle indagini preliminari.
2.3. - Venendo ora alla fattispecie concreta dedotta in giudizio, va sùbito delimitato il terreno di interesse, i cui confini, ovviamente, sono tracciati dal capo di imputazione. In questo si fa esclusivo riferimento alle “polveri totali sospese” e non ad altri agenti inquinanti: soltanto a quelle, quindi, il giudice deve limitare la propria attenzione, benchè le indagini tecniche affidate a periti e consulenti abbiano preso in considerazione anche altre sostanze.
Ebbene, sul punto, gli elementi istruttori su cui si fonda l’accusa possono individuarsi essenzialmente: a) nella perizia eseguita per incarico del G.i.p. dal collegio composto dall’ing. Carbotti ed altri, nella quale sono altresì riportati i dati acquisiti a seguito di analoghe indagini precedenti; b) nei vari rapporti sull’attività delle “Rete di monitoraggio della qualità dell’aria” del Comune di Taranto, relativi agli anni 1998 – 2001 (quello conclusivo, relativo a tutto il periodo, è stato acquisito all’udienza del 27 marzo 2006).
Quanto alla perizia, i risultati delle due campagne di rilevamento, eseguite dai periti nei periodi 7 agosto – 2 settembre 1999 e 9 febbraio – 2 marzo 2000, sono riassunti nelle tabelle 7.2.1.a) e 7.2.1.b), riportate alle pagg. 32 e 33 della relazione.
In base a queste, per il periodo estivo, nelle varie postazioni predisposte, si sono rilevati dati di concentrazione media giornaliera compresi tra 82 e 136 µg/m³; per quello invernale, tra 29 e 93 µg/m³.
Riguardo, poi, ai risultati della “Rete di monitoraggio”, nell’anno 1998, sono stati “rilevati valori a rischio costante di superamento degli ‘obiettivi di qualità dell’aria’ (dpr 203/88) per le concentrazioni di polveri totali sospese (media aritmetica delle 24 ore)”. Quindi, anche nella relazione riguardante l’anno 1999, sono state evidenziate “significative… concentrazioni di polveri totali sospese, anche se con indici medi giornalieri inferiori a valori attinenti al ‘livello di attenzione’ ed al ‘livello di allarme’,… ma… sicuramente tali da produrre effetti diretti ed indiretti sulla salute. I valori suddetti superano infatti i ‘valori guida’ previsti dagli standards di qualità dell’aria (40-60 µg/m³)” (i passi testuali sono riportati nella relazione della “perizia Carbotti”, alle pagg. 8 e 9).
Infine, anche nella relazione conclusiva relativa a tutto il periodo 1998 – 2001, i funzionari comunali si sono espressi nel senso che “nell’area urbana di Taranto non vengono sostanzialmente rispettati gli standards di qualità dell’aria (PTS = valori guida // PM10 = obiettivo di qualità) per inquinanti quali PTS e PM10, come previsto dalla normativa vigente”.
E, in effetti, il problema è tutto lì: stabilire, ossia, in quel ginepraio che ha ammannito il nostro legislatore, quale fosse la normativa vigente, o, più esattamente, quali, tra i tanti valori fissati qua e là nelle varie norme, fossero i “valori limite di qualità dell’aria”, che – come s’è detto – unicamente rilevano ai fini dell’art. 25, co. 4, D.P.R. n° 203/1988.
Ebbene, questi “valori limite” sono i seguenti:
- · 150 µg/m³, quale media delle concentrazioni medie di 24 ore rilevate nell’arco di un anno;
- · 300 µg/m³, come 95° percentile delle concentrazioni medie di 24 ore rilevate nell’arco di un anno.
Ma non solo. Quegli stessi valori (150 – 300 µg/m³) sono stati pure individuati come, rispettivamente, “livello di attenzione” e “livello di allarme” dal D.M. del 25.11.1994, il quale ha altresì espressamente specificato che essi “corrispondono ai valori fissati come standards di qualità nel DPCM 28.3.1983” (vds. Allegato 1, Tab. 1, nota 3, a tale D.M.).
Vero è che, in data 22 aprile 1999, il Consiglio della U.E. ha adottato la direttiva 99/30, che ha fissato “valori limite di qualità dell’aria” più rigorosi, quanto meno per il PM10 (ossia la frazione respirabile, e quindi più pericolosa per la salute umana, delle polveri sospese). Ma non va dimenticato che quei valori – 50 µg/m³, quale media giornaliera, da non superarsi per più di 35 volte all’anno; 40 µg/m³, quale media annuale – sono stati introdotti nel nostro ordinamento soltanto con il già ricordato D.M. 2 aprile 2002, n° 60, e peraltro non con efficacia immediata, ma soltanto con l’obiettivo di raggiungerli entro il 1° gennaio 2005.
Se, allora, si vanno a leggere le tabelle contenenti i risultati delle indagini strumentali condotte dai periti e dai funzionari delle rete di monitoraggio comunale, si coglie effettivamente il superamento, pressochè costante ed in tutte le varie postazioni, dei “valori guida” di qualità dell’aria, fissati dal D.P.R. n° 203/1988, rispettivamente, in 40-60 µg/m³ (media delle concentrazioni medie di 24 ore rilevate nell’arco di un anno) ed in 100-150 µg/m³ (valore medio delle 24 ore). Altrettanto evidentemente, però, si ravvisano superamenti soltanto sporadici degli anzidetti “valori limite di qualità dell’aria”, tali da non integrare una violazione dei valori medi di periodo.
Sicuramente sarebbe stato interessante verificare quali sarebbero stati i risultati a sèguito della modifica di quei limiti introdotta con il D.M. n° 60/2002, e, trattandosi di reato contestato con permanenza, quei risultati sarebbero stati senza dubbio rilevanti ai fini del giudizio. Tuttavia, una simile indagine manca nel compendio istruttorio, e quindi ogni conclusione, in un senso o nell’altro, finirebbe per essere meramente congetturale.
Tutto ciò stante, non può dirsi raggiunta una prova certa della sussistenza di tale reato: dal quale, pertanto, tutti gli imputati debbono essere mandati assolti.
3. – La contravvenzione di cui all’art. 674, cod. pen. (capo D).
Come già è avvenuto per le altre contestazioni sin qui scrutinate, anche per il reato di cui all’art. 674, cod. pen., verranno delimitati i confini della fattispecie astratta, almeno negli aspetti controversi tra le parti e rilevanti ai fini della decisione, e quindi si verificherà la possibilità di sussumervi i fatti sì come accertati.3.1. - A proposito della contestazione in esame, però, prima di impegnarsi in codesta indagine, appare indispensabile fissare l’àmbito di cognizione del giudice.
Tratto in inganno dalla verginità di conoscenza che gli impone il rito (e che spesso, specialmente nei processi aventi ad oggetto materie e questioni tecniche specialistiche, lo confina quasi al ruolo di convitato di pietra della scena processuale), come pure dalla oggettiva complessità della materia e da una non felicissima formulazione del capo di imputazione (in cui è stato inserito, accanto agli altri imputati e senza particolari distinzioni, anche Pensa Roberto, responsabile del reparto cokeria), il sottoscritto giudicante, in un paio di occasioni, ha invitato i testimoni a concentrare le loro informazioni esclusivamente sugli aspetti inquinanti delle cokerie.
Tale circostanza ha indotto la “difesa Ilva”, in sede di discussione, ha sostenere che l’imputazione in rassegna dovesse intendersi riferita esclusivamente all’inquinamento eventualmente prodotto dalle batterie dei forni a coke nn. 3 – 6, con ovvi riflessi, se non altro, sulla prescrizione, essendo state quelle fermate – come s’è detto – a settembre del 2002.
Così, però, non è.
Come già s’è avuto modo di puntualizzare, l’àmbito di cognizione del giudice trova il suo unico e completo riferimento nel capo di imputazione; e lo trova in un duplice senso: non di più, ma neanche di meno. Come, cioè, non è consentito al giudicante di estendere la sua conoscenza ed il suo giudizio oltre la contestazione (come si è visto dianzi, allorchè ci si è limitati a discorrere delle sole polveri totali sospese e non d’altro), così, entro quei confini, egli ha il potere – ed anzi il dovere – di giudicare.
Ebbene, a leggere attentamente il capo D) della rubrica, non si rinviene alcuna delimitazione della condotta di sversamento di polveri minerali e gas alla attività del reparto cokeria; ed il riferimento a Pensa può tranquillamente essere inteso come imputazione di quelle emissioni anche a codesto reparto.
Del resto, la conferma di tale lettura si rinviene nel fatto che la relativa contestazione sia avvenuta “con permanenza”, come pure nella circostanza per cui il collegato reato di danneggiamento – capo F), in cui si fa espresso richiamo alla “condotta descritta al capo D)” – sia stato contestato “fino al 10/7/2000” (mentre, se fosse stato riconducibile soltanto alle emissioni delle batterie nn. 3-6 della cokeria, sarebbe stato lecito attendersi un termine ad quem indicato almeno fino al settembre 2002).
Dunque, ove mai non fosse ancora chiaro, deve ribadirsi che la contravvenzione di cui trattasi va intesa come riferita a tutte le emissioni – ovviamente di “polveri minerali e gas (IPA, benzene)”, come recita il capo di imputazione – provenienti dallo stabilimento “Ilva” di Taranto. E quindi – per essere ancora più espliciti – anche a quelle di polveri derivanti dai cosiddetti “parchi minerali”.
A tale proposito, è pacifico che gli imputati Emilio Riva e Capogrosso abbiano riportato condanna definitiva, sempre per il reato di cui all’art. 674, cod. pen., “per avere… provocato e non impedito… continui e permanenti sversamenti di polveri e minerali accatastati nella zona dei parchi minerali dello stabilimento…” La sentenza definitiva, pronunciata dalla III sezione penale della Corte di Cassazione il 28 settembre 2005, è stata, infatti, acquisita agli atti.
Tale circostanza, però, a differenza di quanto ipotizzato dalle difese interessate, non dà luogo ad alcun bis in idem.
E’ noto, infatti, che, nel caso di reato permanente e contestato senza indicazione del termine ad quem, laddove non sia accertata una data di eventuale cessazione della permanenza, la giurisprudenza suole convenzionalmente individuare il termine di consumazione, al più tardi, nella data della sentenza di condanna di primo grado (vds., fra le molte, Cass. pen., sez. VI, 27.1.2004, n° 2843, ric. Mattei): quindi, nell’ipotesi che qui interessa, al 15 luglio 2002, allorchè il giudice monocratico del Tribunale di Taranto emise la sentenza di condanna poi confermata, almeno per Riva e Capogrosso, nei successivi gradi di giudizio.
Poiché, dunque, anche nel presente processo la contestazione è stata elevata “con permanenza”, essa, quanto meno per l’epoca successiva al 15 luglio 2002, non incorre nel divieto di cui all’art. 649, c.p.p..
Senza contare che, ad escludere qualsiasi ipotesi di bis in idem, sovviene anche la considerazione per cui le polveri vengono emesse, e – come si dirà a breve – anche in gran quantità, pure dalle cokerie.
3.2. - Altra utile osservazione preliminare alla disamina della fattispecie astratta tipizzata dal codice è quella relativa al concorso tra la stessa e quelle contravvenzionali previste dalla legislazione speciale anti-inquinamento.
Il punto, per il vero, non ha formato oggetto di controversia tra le parti, verosimilmente perché detto concorso è stato costantemente affermato in giurisprudenza, già durante la vigenza della c.d. “legge anti-smog”, ossia la n° 615 del 1966 (cfr. Cass. pen., sez. III, 24.6.1985, n° 6249, Boni; per la riaffermazione del principio anche dopo l’entrata in vigore del D.P.R. n° 203/1988, vds., ad esempio, sez. I, 31.8.1994, n° 9357, Gastaldi, e, da ultimo, pure sez. III, 10.10.2006, n° 33971, Bortolato, sulla quale si tornerà tra breve).
Dottrina e giurisprudenza, infatti, hanno immediatamente messo in luce le molte differenze tra le fattispecie. Diverse, infatti, sono le condotte: nel caso dell’art. 674, lo sversamento di cose atte a molestare le persone; nell’art. 25, D.P.R. n° 203/1988, la violazione di limiti normativi, a prescindere da effetti immediatamente molesti per la salute umana. E diversi, pure, sono i beni giuridici tutelati: nell’un caso, la incolumità pubblica, quindi direttamente le persone; nell’altro, l’ambiente, e quindi, nello specifico, la risorsa-aria (se non addirittura – come pure alcuni hanno ipotizzato, alla luce del carattere meramente formale di molte delle violazioni previste dalla legislazione speciale – la funzione amministrativa regolatrice della materia).
Legittimamente e correttamente, pertanto, il Procuratore della Repubblica ha contestato agli imputati anche la contravvenzione in esame, oltre a quella di cui al capo E).
3.3. – Occorre soffermarsi, a questo punto, sugli elementi costitutivi e sugli altri aspetti qualificanti della fattispecie astratta, limitatamente – in coerenza con quanto s’è detto in esordio di paragrafo – a quelli che possono avere rilievo ai fini della decisione.
Grazie ad una risalente ed ormai acquisita lettura giurisprudenziale adeguatrice del precetto, il disposto dell’art. 674, cod. pen., è pacificamente ritenuto applicabile ai fenomeni di immissioni derivanti da impianti industriali.
Le chiavi utilizzate dalla giurisprudenza a tal fine sono state la progressiva smaterializzazione giuridica – secondo l’efficace definizione utilizzata di recente da autorevole dottrina – del concetto di “cosa”, nonché la dilatazione del verbo “gettare” al massimo delle sue potenzialità semantiche, fino a ricomprendervi anche le azioni dell’emettere, diffondere, produrre. E, quindi, lungo questo crinale, si è giunti a ritenere integrata la contravvenzione in questione nel caso di diffusione di polveri in atmosfera (tra molte altre, si leggano, per esempio, Cass. pen., sez. I, 14.10.1999, ric. Cappellieri; ma soprattutto la già citata sentenza emessa dalla III sezione della Cassazione nei confronti degli imputati Riva e Capogrosso, proprio per le polveri provenienti dai parchi minerali dello stabilimento di Taranto, nella quale sono pure indicati ulteriori precedenti conformi).
E del pari incontroversa risulta, in giurisprudenza, pure l’ampia nozione di “molestia”, nella quale si fanno rientrare, ossia, “tutte le situazioni di fastidio, disagio, disturbo e comunque di turbamento della tranquillità e della quiete delle persone, che producono un impatto negativo, anche psichico, sull’esercizio delle normali attività quotidiane di lavoro e di relazione”, e, tra queste situazioni, anche il mero arrecare preoccupazione od allarme circa eventuali danni alla salute derivanti da esposizione a emissioni atmosferiche inquinanti (si legga, anche per questa parte, la citata sentenza n° 33971/2006, ric. Bortolato, con i numerosi richiami di precedenti conformi; tra altre ancora, Cass. pen., sez. III, 18.6.2004, n° 38297, ric. Providenti ed altri).
Gli è, allora, che, ai fini della sussistenza del reato, non occorre che la condotta di getto, sversamento etc. arrechi un effettivo nocumento alla salute delle persone, essendo sufficiente un effetto meno invasivo (la molestia, appunto, nel senso appena detto) e, peraltro, soltanto potenziale: basta, infatti, stante il chiaro dettato normativo, soltanto la “attitudine” della cosa a molestare le persone. E, così opinando, la Suprema Corte è pervenuta da tempo a ritenere configurabile il reato in caso, per esempio, di emissioni di odori molesti (vds. già sez. I, 20.10.1993, ric. Sperotto; idem, 15.11.1994, ric. Composto).
Anzi, valorizzando proprio il concetto di “attitudine”, intesa come qualcosa di diverso e di minore rispetto al “pericolo”, ampi settori della dottrina e della giurisprudenza si sono spinti sino a costruire la fattispecie sanzionatoria in rassegna come reato di pericolo presunto, e non – come forse parrebbe preferibile, perché più aderente al già evocato principio di offensività – di pericolo concreto. Sul punto, tuttavia, non mette conto trattenersi, essendo esso irrilevante ai fini della decisione, in quanto – come si dirà in prosieguo – i fenomeni portati all’attenzione del giudicante si presentano verosimilmente pericolosi per la salute umana e certamente molesti, e non soltanto “atti” ad esser tali.
Infine, un ulteriore punto fermo si registra, in giurisprudenza, sul piano della prova. E’ unanimemente riconosciuto, infatti, che la dimostrazione della suddetta attitudine non postuli infungibilmente perizie od altre indagini tecniche, ma possa essere offerta anche attraverso testimonianze, documentazione fotografica od altro (leggasi, anche in questo caso, la sentenza della S.C. relativa ai “parchi minerali”, ove sono pure indicati vari precedenti).
3.4. - Lì dove, invece, si registra un significativo contrasto in giurisprudenza – anche all’interno della Corte di Cassazione e della stessa terza sezione di essa, che si occupa principalmente della materia – è a proposito della configurabilità o meno del reato di cui all’art. 674 nel caso del mancato superamento dei valori delle immissioni, stabiliti dalla legge o dal provvedimento autorizzativo dell’attività che si assume molesta.
La questione, come si può intuire, riveste un ruolo centrale in questa parte della presente vicenda processuale, dal momento che – secondo quanto s’è visto – non è stata raggiunta la prova della violazione dei “valori limite di qualità dell’aria”, rilevanti ex art. 25, co. 4, D.P.R. n° 203/1988. E, puntualmente, la difesa degli imputati l’ha sollevata.
I termini del contrasto poggiano essenzialmente sull’interpretazione da assegnare all’inciso “nei casi non consentiti dalla legge”, previsto dall’art. 674 con riferimento alle condotte di emissioni di gas, vapori e fumi atti ad offendere, molestare ed imbrattare.
Secondo la lettura – per così dire – tradizionale e, fino a qualche anno fa, pressochè unanime, il reato sussiste a prescindere dal superamento dei valori limite delle immissioni eventualmente stabiliti dalla legge o dall’autorizzazione amministrativa. Esso, infatti, prescinde dall’osservanza o meno di standards fissati per la prevenzione dell’inquinamento e, pertanto, un’attività industriale, quand’anche autorizzata, può integrare il reato, qualora da essa siano derivate molestie alle persone, a causa della mancata adozione di accorgimenti tecnici possibili secondo la migliore tecnologia disponibile ovvero per la inosservanza delle prescrizioni impartite dalla P.A. competente.
Per la sussistenza del reato, quindi, è sufficiente il superamento della normale tollerabilità, essendo tale effetto “non consentito dalla legge”, come si evince dall’art. 844 del codice civile (in questi termini si sono espresse, ancora una volta, la citata “sentenza Riva” relativa ai parchi minerali, anche in questo caso con gran copia di citazioni conformi, nonché, sempre di recente, pure la I sezione penale della Cassazione, con la sentenza n° 25242 del 12.7.2005, ric. Guastella).
Stando, invece, ai sostenitori dell’indirizzo contrapposto, il reato non è configurabile “nel caso in cui le emissioni provengano da un’attività regolarmente autorizzata e siano contenute nei limiti previsti dalle leggi in materia di inquinamento atmosferico, in quanto l’espressione ‘nei casi non consentiti dalla legge’ costituisce una precisa indicazione della necessità che l’emissione avvenga in violazione delle norme di settore, il cui rispetto integra una presunzione di legittimità”. Ai fini, dunque, della sussistenza del reato, è “indispensabile la puntuale e specifica dimostrazione che le emissioni superino gli standards fissati dalla legge; quando, invece, pur se contenute i quei limiti, superano la ‘normale tollerabilità’ ed arrecano concretamente fastidio alle persone, si applicherà la tutela civilistica dell’art. 844, cod. civ.”.
Così si è espressa la più volte rammentata sentenza n° 33971/2006, ric. Bortolato (anche questa con richiami a vari giudicati precedenti; vds. pure Cass. pen., sez. III, n° 38297/2004, ric. Providenti, cit.; sez. I, n° 25660/2004, ric. Invernizzi ed altri), nella quale si è pure aggiunto che, laddove non esistano precisi limiti tabellari fissati dalla legge o dalla P.A., il reato può sussistere anche quando vi sia un’autorizzazione amministrativa all’esercizio dell’attività: in questo caso, però, il parametro di riferimento sarà dato dalla “stretta tollerabilità”, ovvero la tollerabilità consentita dai princìpi ispiratori delle leggi di settore (sullo specifico punto, vds. pure sez. III, 26.5.2005, n° 19898, ric. Pandolfini, dove si ribadisce che il parametro di legalità è dato dal contenuto del provvedimento amministrativo autorizzativo dell’attività, e che, allorquando un’autorizzazione all’attività non sia richiesta, si debba aver riguardo alla “stretta tollerabilità” e non alla “normale tollerabilità” dell’art. 844, cod. civ.).
Gli argomenti a sostegno di tal ultimo indirizzo – che, a differenza di quanto afferma la “sentenza Bortolato”, non è né più recente né consolidato, come dimostrano appunto la “sentenza Riva” e la “sentenza Guastella” – si rinvengono, per il vero, soprattutto in dottrina e possono sintetizzarsi nei termini che seguono, quasi a guisa di elenco.
a) La chiara volontà del legislatore del D.P.R. n° 203/1988 è stata quella di privilegiare il ruolo della P.A. limitando il potere di intervento del giudice; la prima tesi, dunque, comporterebbe il rischio di uno sconfinamento del giudice ordinario in un’area di competenza esclusiva della potere amministrativo.
b) Escludendo il riferimento ai limiti previsti dalle leggi speciali e dagli atti della P.A., la locuzione “nei casi non consentiti dalla legge” rimarrebbe completamente svuotata di contenuto. Invece, riferendosi a quei limiti, risulterebbero soddisfatte le esigenze di certezza del precetto e, ad un tempo, risultano attenuate le difficoltà dell’accertamento probatorio circa la natura realmente pericolosa della condotta.
c) Il criterio della “normale tollerabilità” è troppo vago e contrasterebbe con il principio di tassatività, che, come ormai riconosciuto a più riprese dalla Corte Costituzionale, ha rango costituzionale, quale corollario del principio di legalità (25, co. 2, Cost.).
d) L’art. 844, cod. civ., e, con esso, il principio della “normale tollerabilità”, sono dettati in àmbito civilistico a tutela del diritto di proprietà, e solo indirettamente a tutela della salute del proprietario (vds. Corte Cost., n° 247/1974: “…il criterio della normale tollerabilità va riferito esclusivamente al contenuto del diritto di proprietà e non può essere utilizzato per giudicare della liceità di immissioni che rechino pregiudizio anche alla salute umana o all’integrità dell’ambiente naturale, alla cui tutela è rivolto tutto un altro ordine di norme”: leggi speciali, art. 2043, cod. civ., etc.). Inoltre, l’azione ex art. 844 ha natura reale ed ambito individualistico e non collettivo, potendo essere esercitata solo da singoli soggetti ben definiti (proprietario, titolare di diritti reali di godimento e, per estensione giurisprudenziale, titolare di diritti personali di godimento). Pertanto, risulterebbe contraddittorio che l’art. 844 ed il criterio di “normale tollerabilità” tutelassero in ambito penalistico dei beni, quali la salute e l’ambiente, che invece non tutelano nell’ambito civilistico, nel quale codesta disposizione è dettata ed è elettivamente destinata ad operare.
e) Infine, quand’anche si volessero trascurare tutti questi rilievi e si volesse accedere alla prima tesi, l’agente, laddove fosse autorizzato al compimento dell’attività in conformità ai limiti stabiliti dalla normativa speciale ed avesse tali limiti rispettato, verserebbe comunque in errore sul fatto e sarebbe difficile ravvisare nel suo comportamento anche soltanto la colpa.
Si tratta di argomenti non persuasivi, ai quali è agevole opporre altrettante repliche; che anzi, proprio al fine di agevolare la lettura, possono simmetricamente articolarsi per punti.
- · Il ricorso a concetti rarefatti, come possono esserlo la “chiara volontà del legislatore”, lo “spirito delle legge” et similia, non è mai vincente, se disancorato da puntuali agganci e riferimenti normativi. Esso, infatti, può non di rado rappresentare lo strumento per far dire alla norma quello che, invece, è nelle intenzioni del singolo interprete.
- · Particolarmente nelle materie a preminente componente tecnica, quale certamente è quella ambientale, è pressochè inevitabile che il legislatore sia indotto a devolvere alle pubbliche amministrazioni competenti la concreta determinazione dei presupposti tecnici di operatività del precetto penale; e, in effetti, basta scorrere la produzione normativa della legislazione penale speciale, per cogliere all’evidenza una diffusa tendenza a legiferare “in bianco”. Correlativamente, il rischio di sconfinamento del giudice ordinario nel campo di competenza della P.A. – se di rischio si vuole parlare – è fisiologico, inevitabile e consentito: nessuno più, infatti, preclude a quel giudice finanche il potere di disapplicazione in peius degli atti amministrativi ritenuti illegittimi, pur in assenza di un’espressa declaratoria in tal senso da parte del giudice amministrativo. Peraltro, non di rado la P.A. è inefficiente, quanto meno per le croniche carenze di mezzi e di personale (leggasi in tal senso, proprio con riferimento all’”A.R.P.A. Puglia” ed alle vicende oggetto del processo, la testimonianza del consigliere regionale Mineo, che ha parlato di sistema di controlli “praticamente inesistente”: pagg 2, 11, 15 s., trascr. verb. ud.); in alcuni casi, poi, poiché destinatarie – si pensi, in particolare, agli enti territoriali – di compiti di normazione secondaria, non sempre ottemperati, e, ad un tempo, di compiti di controllo, le pubbliche amministrazioni non sono affatto disinteressate, e sussiste – questa volta sì – il rischio concreto di un corto circuito “controllore-controllato”.
- · Il riferimento ai limiti delle leggi speciali è meno concreto e certo di quanto possa apparire in astratto, stante la già evidenziata pletora di norme che si succedono tra loro, sovente oscure, disorganiche e contenute in fonti anche di rango secondario (decreti ministeriali) con sequenze di rimandi. Anzi, la valorizzazione del principio della “normale tollerabilità” sottende proprio un’esigenza di semplificazione e di certezza, ancorando la risposta statuale penale a fatti immediatamente percepibili come offensivi da settori della collettività sufficientemente ampi. Inoltre, la ricostruzione del precetto dell’art. 674 sui parametri tecnici utilizzati dalla legislazione speciale finisce per saltare a piè pari le differenze di condotte tipiche e di beni giuridici tutelati, che esistono tra quelli e che li fanno pacificamente ritenere in concorso tra loro (retro § 3.2.).
- · Nulla esclude, sotto il profilo semantico, che i “casi non consentiti dalla legge” siano anche quelli non consentiti dall’art. 844, cod. civ., o da altre disposizioni di legge, quantunque diverse da quelle della legislazione speciale di settore. Restringere detta locuzione a queste ultime appare, dunque, quanto meno sotto tale profilo, un’operazione ermeneutica arbitraria.
- · Il criterio della “normale tollerabilità” non è più vago di altri (“ordine pubblico”, “buon costume”, “pubblica decenza” e quant’altri) che compaiono in diverse norme del codice penale e della cui conformità al canone costituzionale di tassatività nessuno dubita, affidando poi all’interpretazione della giurisprudenza il compito di riempirli di contenuti ed adeguarli alla mutevole realtà socio-economica.
- · Secondo una suggestiva tesi dottrinaria, peraltro, problemi di tassatività non se ne porrebbero anche per un’altra ragione. Ovvero perché – si sostiene – il superamento della normale tollerabilità non rappresenterebbe un elemento costitutivo del reato, bensì il limite all’esercizio di un diritto: il diritto (cioè l’attività industriale autorizzata) può essere esercitato, ossia, fin quando sia giustificato dalla sua utilità sociale (art. 41, Cost.), la quale, pertanto, in un giudizio di bilanciamento di interessi costituzionalmente orientato, cede dinanzi ai beni, anch’essi di rango costituzionale, della salute pubblica e della salubrità ambientale. Poiché, quindi, il principio della riserva di legge non si estende alle cause di giustificazione, ecco che non rileverebbero eventuali dubbi di tassatività (e quindi di legalità).
- · L’art. 844, cod. civ., certamente è collocato nell’ambito della tutela della proprietà, ma è evidente ed incontroverso che esso tuteli essenzialmente non tanto la res, ossia la dimensione economica della proprietà, quanto piuttosto il pacifico godimento del proprio diritto da parte del proprietario: ed è innegabile che il massimo insulto a tale pacifico godimento provenga proprio da quelle immissioni che imbrattano, molestano e, a maggior ragione, incidono negativamente sulla incolumità fisica di chi vi ha diritto.
- · Anche in ambito civile, poi, si riconosce che l’art. 844 e le leggi di settore, poste a tutela della quiete e tranquillità dei proprietari, abbiano logiche e funzioni diverse, al punto che il rispetto della normativa speciale non esclude il superamento della normale tollerabilità: questo perchè l’una ha carattere pubblicistico ed appresta una “tutela verticale”, ossia tra P.A. ed amministrati; l’altra ha carattere privatistico ed appresta una “tutela orizzontale”, ovvero tra privati confinanti (vds. Cass., sez. II, 27.1.2003, C.e.d. Cass. nr. 560001; idem, 29.4.2002, C.e.d. Cass. nr. 554039).
- · Riguardo, infine, all’elemento psicologico, nulla esclude che l’imprenditore, pur quando rispetti i valori di emissione previsti dalla normativa o dall’atto autorizzativo rilasciatogli, si rappresenti l’attitudine molesta delle emissioni della sua azienda (così agendo con dolo), ovvero che, per lo meno, sia in grado di percepire, con l’uso della normale attenzione, codesta attitudine. Certamente è più difficile che codesti coefficienti psicologici si manifestino in colui che agisca nel rispetto dei limiti normativi, ma non si tratta di situazioni tra loro antinomiche. Si tratterà, piuttosto, di questione da risolvere sul piano probatorio, in relazione alle circostanze del caso concreto.
In primo luogo, infatti, quand’anche valida e convincente, la lettura proposta in quella pronuncia potrebbe trovare applicazione, al più, soltanto per le emissioni di gas, vapori e fumi; non anche, invece, per il getto o lo sversamento di “cose”, tra le quali – come s’è detto – rientrano sicuramente le polveri. In proposito, il dato normativo è perspicuo e contiene una netta distinzione tra le due ipotesi, richiamando solo per le emissioni l’inciso qui controverso.
Quindi, poiché dallo stabilimento “Ilva” si diffondono in gran quantità anche polveri, e poiché la contestazione attiene anche a queste, quella interpretazione giurisprudenziale comunque rimarrebbe inconferente nel caso di specie.
In realtà, essa – ad avviso del giudicante – non è soltanto inconferente, ma, ancora prima, è errata.
La stessa sembra trascurare, infatti, che l’art. 674, cod. pen., è destinato ad operare anche negli ambienti di lavoro, in relazione ai quali non è affatto possibile applicare la legislazione speciale in materia di inquinamento atmosferico. Quest’ultima, infatti, è dettata per l’ambiente generalmente inteso, se non addirittura specificamente per le aree urbane (vds., per esempio i DD.MM. 15.4.1994 e 25.11.1994, già ripetutamente ricordati).
Con riferimento ai luoghi di lavoro, inoltre, in relazione a diversi agenti inquinanti (ad esempio, per quel che qui più interessa, gli “i.p.a.”), mancano del tutto dei limiti di legge e solo convenzionalmente si fa riferimento ai cc.dd. “threshold limits value (T.L.V.)” elaborati dalla associazione dei medici igienisti americani (“American Conference of Governmental Industrial Hygienists – ACGIH”).
Ma non basta.
Come si è avuto modo di esporre – cap. II, § 3.1.e) e § 5 – il dovere dell’imprenditore di adeguare il proprio comportamento, in materia di tutela della salute dei lavoratori, alla migliore tecnologia disponibile trova esplicite affermazioni in diverse norme di legge: tra le tante, l’art. 2087, cod. civ.; numerose disposizioni del D.L.vo n° 626/1994, tra cui l’art. 62, per l’esposizione ad agenti cancerogeni e mutageni; gli artt. 20 e 21 del D.P.R. n° 303/1956.
Laddove, allora, l’emissione, benchè non superiore ai parametri eventualmente dettati dalle norme speciali anti-inquinamento (leggi o decreti ministeriali che essi siano), sia comunque atta in concreto ad arrecare molestia e si sia verificata per mancata predisposizione di quanto consentito dalla migliore tecnologia disponibile, appare veramente difficile mettere in discussione che si versi in un “caso non consentito dalla legge”, quanto meno con riferimento alle persone offese-lavoratori (sebbene risulti decisamente arduo ritenere che la violazione di legge non sia più tale, quando i soggetti offesi siano i terzi estranei all’organizzazione aziendale ed all’ambiente di lavoro: come se, scavalcato il muro di recinzione della fabbrica, i fumi, i gas ed i vapori cessassero d’incanto di essere molesti). Sul punto, val la pena rammentare Cass. pen., sez. IV, 30.12.1999, n° 12333, secondo cui “i c.d. valori ambientali consigliati non pongono né stabiliscono una precisa linea di demarcazione tra innocuo e nocivo e non riducono minimamente l’obbligo del datore di lavoro di fare il possibile per evitare i rischi alla salute dei dipendenti” (in termini consimili ed in materia, specificamente, di polverosità ambientale, vds. pure Cass. 30.10.1999, ric. Giannitrapani; 20.3.2000, ric. Angele).
Infine, un’ultima osservazione.
Se è vero che il superamento dei “valori guida di qualità dell’aria” non è sufficiente per poter ritenere integrata la violazione del disposto dell’art. 25, co. 4, D.P.R. n° 203/1988, ciò non toglie che quelli rappresentino pur sempre dei limiti funzionali principalmente alla “prevenzione a lungo termine in materia di salute e protezione dell’ambiente” (art. 2, n° 2, lett. a, D.P.R. n° 203). Poiché, però, come pure già s’è detto, l’art. 674, cod. pen., protegge il bene dell’incolumità delle persone anche dalle semplici molestie o dai pericoli potenziali, è agevole concludere che, agli effetti di questa norma, ben può rilevare il superamento anche di quei valori, in quanto, appunto, suscettibile di determinare ricadute nocive sulla salute dei cittadini, benchè in un àmbito temporale più ampio.
Pure per questo profilo, dunque, oltre che per il fatto che l’art. 674, cod. pen., si riferisce anche alle “polveri” ed agli ambienti di lavoro, la ritenuta insussistenza della contravvenzione di cui all’art. 25, D.P.R. n° 203/1988, non spiega alcuna efficacia favorevole per gli imputati in relazione alla contestazione in esame.
3.5. - Al lume di quanto sin qui esposto, occorre adesso stabilire se il reato contestato sussista e, in caso affermativo, chi ne debba essere dichiarato colpevole.
Che dallo stabilimento “Ilva” di Taranto provengano continuamente polveri minerali, i.p.a. e benzene (per limitarsi, anche qui, a quanto viene indicato nel capo di imputazione), veramente nessuno lo discute, nemmeno gli imputati ed i loro difensori.
Del resto, è sufficiente leggere anche soltanto il D.P.R. 23.4.1998 e gli “atti di intesa”, tutti documenti ripetutamente rammentati, per cogliere immediatamente l’ampiezza del fenomeno e la piena consapevolezza di tali sue dimensioni da parte della dirigenza tecnica ed amministrativa dell’azienda.
Quanto, poi, in particolare, alle polveri provenienti dall’area dei “parchi minerali e fossili”, v’è pure – come s’è visto – lo stigma di una sentenza passata in giudicato, peraltro espressamente richiamata (quella di primo grado) nel primo dei più recenti “atti di intesa”, quello dell’8 gennaio 2003. Ivi si legge, infatti, che “è necessario,… anche alla luce delle sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Taranto in data 15.7.2002, dare priorità ad un intervento sui cosiddetti parchi minerali e fossili dello stabilimento”; e, nella premessa alle linee guida di intervento, allegate a quell’atto, si aggiunge: “L’intervento dovrà riguardare la realizzazione delle migliori tecniche disponibili a tutela del rione Tamburi, attraverso il barrieramento esterno all’area industriale”, al fine di “consentire una significativa mitigazione dell’impatto ambientale derivante dalle emissioni delle polveri dai parchi minerali…”: insomma, un’autentica confessione stragiudiziale!
E, solo per offrire un elemento indicativo della misura del fenomeno, basti rammentare che, tra i molti altri interventi previsti in quegli atti di intesa, v’erano la creazione di colline artificiali e la piantumazione di circa 1.200 alberi ad alto fusto su di un’area estesa circa cinque ettari (vds. atti di intesa del 27 febbraio e del 15 dicembre 2004).
Ma le polveri non provengono soltanto dai “parchi minerali”.
Esse, peraltro in gran copia ed altamente nocive, vengono emesse pure dalle batterie dei forni a coke.
Qui non occorre ripetere quanto si è già avuto modo di esporre al capitolo precedente (in particolare al § 3.2.), ma è sufficiente rammentare, quasi a titolo esemplificativo, soltanto alcuni degli elementi di prova raccolti in istruttoria.
A cominciare dalla più volte evocata nota n° 753/00 del 18 novembre 2000 del dirigente coordinatore del “P.m.p.”, dott. Nicola Virtù, in cui si parlava di “frequenti e ricorrenti… emissioni diffuse e/o convogliate visibilmente eccedentarie dall’impianto produzione coke”, altresì segnalandosi “la non transitorietà di tali situazioni, che incidono significativamente sul carico inquinante emessa dall’area cokeria, con ovvi riflessi sulla sostenibilità ambientale dell’area cittadina circostante”.
Ma di “polverosità indomabile”, rilevata all’interno del reparto cokeria, ha parlato pure il prof. Liberti durante il suo esame dibattimentale (pag. 26, trascr. verb. ud), confermando del resto quanto scritto nella sua relazione di consulenza: “le emissioni di… polveri di carbone, benzene ed i.p.a. sono ragguardevoli (l’ordine di grandezza è delle tonnellate anche per gli i.p.a.) e tali comunque da non interessare solo l’ambiente di lavoro, ma in grado di dare sensibili contributi anche all’inquinamento nelle aree circostanti” (pag. 47). E, se si sfoglia il report fotografico allegato a quella relazione, se ne può avere una plastica rappresentazione.
Parimenti indiscutibile è la circostanza che la quasi totalità del carico inquinante di polveri minerali, i.p.a. e benzene gravante sul territorio cittadino provenga dall’area industriale e, in particolare, dallo stabilimento “Ilva”.
Conformi, sul punto, sono tutte le indagini eseguite nel corso degli anni, da enti differenti e tutti altamente qualificati: come nel caso dell’”E.N.E.A.”, il cui rapporto effettuato nel 1996 è stato posto a base del D.P.R. del 1998 contenente il piano di disinquinamento dell’area, nel quale si legge quanto già riportato nella premessa di questo capitolo, cui si rimanda. Qui va soltanto evidenziato che, secondo quanto stimato dai tecnici di quell’istituto, pur con tutte le approssimazione connaturate alle indagini fondate – come quella – su modelli matematici, le emissioni provenienti dall’”Ilva”, per rimanere alle sole polveri totali, erano pari al 97% di quelle complessivamente provenienti dal comparto industriale dell’area jonica (vds. tabella 5.7.-1, allegata alla “perizia Carbotti”).
Così, pure, nel rapporto “I.s.p.e.s.l.” relativo all’anno 2000, si evidenziava l’aumento di concentrazione di particolato PM10 e di benzene nell’area del quartiere “Tamburi” in concomitanza dello spirare del vento dalla direzione della zona dove è ubicato il polo industriale (anche tale rapporto è allegato alla relazione dei periti del G.i.p.: si vedano, in particolare, le pagg. 15 s. e 20 s. di esso).
Ed anche uno studio condotto dalla A.s.l. di Taranto e dal “P.m.p.” di Bari nel 1999 aveva evidenziato, in particolare, nelle polveri sospese rilevate in quel quartiere, una concentrazione di i.p.a. superiore anche del doppio rispetto al “valore guida” stabilito nel D.M. 25.11.1994, nonché nettamente superiore a quella rilevata nel territorio del comune di Castellaneta, da lì distante poche decine di chilometri (vds. relazione di perizia cit., pag. 7 s.).
In quanto sostanzialmente congruenti con codesti precedenti, allora, i risultati cui è pervenuto il collegio peritale nominato dal G.i.p., quantunque aspramente contestati dai consulenti della difesa degli imputati, e probabilmente discutibili in ordine alla loro precisione al dettaglio, rivestono per lo meno una valenza indicativa – o, se si preferisce, indiziante – difficilmente contestabile (e di fatto non contestata dai consulenti “Ilva”, che peraltro non hanno effettuato alcuna autonoma indagine capace di pervenire a risultati differenti, come invece hanno fatto, per esempio, i tecnici dell’”Agip”).
Quei periti, dunque, all’interno del quartiere “Tamburi”, hanno rilevato una massiccia presenza di polveri sedimentabili, caratterizzate da alti contenuti di metalli ed in quantità addirittura superiore rispetto a quella misurata all’interno del parco materiali di un grande cementificio, qual è lo stabilimento della “Cementir”. Più precisamente, nella postazione installata presso il cimitero, è stata rilevata una media di 674 mg/mq-d durante la campagna estiva, e di 574 mg/mq-d durante quella invernale; nella postazione situata presso la scuola “G.B. Vico”, invece, i risultati sono stati, rispettivamente, di 408 e 300 mg/mq-d: il tutto, a fronte di un dato di riferimento di 350 mg/mq-d su base annuale, stabilito dalla normativa tedesca (TA-luft 96) e comunemente utilizzato anche in Italia dalla comunità scientifica, mancando nel nostro ordinamento un’analoga previsione.
E, poiché i valori rilevati dalle postazioni collocate nei punti più distanti da tale area sono risultati sensibilmente inferiori, i periti hanno coerentemente concluso che il fenomeno della ricaduta di polveri “sia specifico della zona a ridosso dell’Ilva (lato cokeria e deposito materie prime)” (pag. 72, relaz. perizia).
Se, dunque, a tutto questo si aggiunge che i pur titolatissimi consulenti dell’”Ilva” non hanno saputo offrire risultati sperimentali differenti, essendosi limitati a fare le pulci alle indagini scientifiche altrui; se si esclude, come nessuno nemmeno lontanamente può dubitare, l’ipotesi di un congiura contro l’”Ilva” da parte di tutti quegli esperti che, a distanza di anni e nell’àmbito di strutture scientifiche distinte, hanno eseguito le indagini tecniche quind’innanzi rammentate; se si pensa che si sta trattando di uno stabilimento esteso su una superficie di circa 15 milioni di metri quadrati, pari a quattro volte quella della città, e che occupa 11.904 dipendenti (vds, c.n.r. dei Carabinieri del “N.o.e.” di Bari del 21.2.2001, acquisita all’udienza del 10.4.2006); se si pone mente a tutto questo, viene del tutto agevole ritenere comprovata la provenienza nettamente prevalente di detti agenti inquinanti dallo stabilimento “Ilva”, ed in particolare dai “parchi minerali” e dalle cokerie.
Del resto, tale conclusione è stata da ultimo suffragata anche dal “III Rapporto sulla qualità dell’ambiente urbano”, redatto dalla “Agenzia per la protezione dell’ambiente” istituita presso il Ministero e reso di pubblico dominio durante il termine per la stesura della presente motivazione (rapporto che, benchè non formalmente acquisito agli atti del dibattimento, rappresenta un atto pubblico di fonte istituzionale e, perciò, riferibile come dato oggettivo). Ebbene, da esso risulta che, con riferimento alle polveri PM10, il contributo del settore industriale, per la città di Taranto, è pari al 93% del totale ed è l’indice più elevato tra tutte le più popolose città italiane, di gran lunga superiore anche a quello delle altre città dove sono allocati grandi poli industriali (Venezia 75%, Genova 49%).
Basterebbe quanto sin qui riferito, inoltre, per ritenere dimostrato anche un ulteriore aspetto rilevante ai fini della sussistenza del reato: quello, ossia, della attitudine di quelle immissioni ad arrecare molestia alle persone, secondo l’ampia nozione più sopra rammentata.
Ma, sul punto, l’istruttoria dibattimentale ha offerto molto altro.
Ha offerto, per esempio, le testimonianze dei vari cittadini residenti nel quartiere “Tamburi”, alcuni dei quali titolari anche di cariche elettive negli organismi rappresentativi locali, i quali hanno tutti indefettibilmente rappresentato l’imponenza dei fenomeni immissivi di polveri ed odori nauseabondi, tali da determinare disturbi fisici (bruciori oculari, difficoltà di respirazione e così via): ci si riferisce, in particolare alle deposizioni di De Gregorio, Ferulli, Marescotti, Crocco, Gentile, Guarino, Gulino, De Pasquale e Briganti, il quale ultimo ha evidenziato, altresì, il dato singolare per cui, lungo la strada statale che costeggia lo stabilimento, vi sia una segnaletica stradale triangolare di pericolo per strada sdrucciolevole con l’ulteriore indicazione “polveri minerali” (pag. 42, trascr. verb. ud. 20.3.2006).
E’ stato acquisito, inoltre, il fascicolo dei rilievi fotografici eseguiti dai Carabinieri del “N.o.e.” di Bari il 21 febbraio del 2001, che documentano visivamente la spessa coltre di polveri rossastre e/o grigie depositatesi sul manto delle varie strade limitrofe allo stabilimento nonché su alcune cappelle cimiteriali.
In argomento, ad esempio, è stata acquisita anche la nota n° 2618 dell’11 ottobre 2003, con la quale il dirigente del “Dipartimento di prevenzione” della “A.s.l.” segnalava “che, in particolari giornate, l’azione dei venti rende impossibile l’accesso e la permanenza nell’area cimiteriale per la diffusione in atmosfera delle polveri, depositatesi nel tempo su tutta l’area cimiteriale. Detto inconveniente viene accentuato dall’emissione diffusa di polveri rivenienti dai vicini parchi minerali dell’Ilva” (la nota è allegata al verbale d’udienza del 20.11.2006).
E sono stati versati agli atti, pure, i bollettini epidemiologici redatti dalla locale “A.s.l.”, da cui risulta un costante trend di crescita del tasso di mortalità per neoplasie, ed in particolare per quelle dell’apparato respiratorio.
A titolo soltanto esemplificativo, si può ricordare che, con riferimento al periodo 1992-1996, la provincia di Taranto presentava un tasso di mortalità per neoplasie del 25,50%, inferiore a quello medio nazionale (28%), ma sensibilmente superiore a quello dell’Italia meridionale (18%). Nello stesso periodo, però, il tasso di mortalità per neoplasie polmonari a Taranto, per gli uomini, era del 39,40%, e quindi superiore di oltre dieci punti rispetto al corrispettivo nazionale (29%), laddove quello relativo alle donne, meno occupate nella grande industria, era sostanzialmente omogeneo (8,20%, a fronte del 6% a livello nazionale).
Peraltro, il dirigente del “Dipartimento di prevenzione” della “A.s.l.”, dottor Conversano, all’udienza del 29 maggio 2006 ha prodotto una tabella con dati più recenti, poiché relativi al periodo 1998 – 2002. Da questi risulta un numero di decessi costantemente superiore a quelli che si sarebbero dovuti registrare in base al dato medio regionale rapportato al numero di abitanti. In particolare, il relativo dato percentuale è costantemente superiore a quello regionale, cresce proporzionalmente man mano che si restringe l’area d’interesse (dall’intera provincia, passando all’area considerata “ad elevato rischio ambientale”, e quindi a quella più vicina al polo industriale, ovvero i comuni di Taranto e di Statte) e maggiormente per la popolazione di sesso maschile, sino a giungere ad un agghiacciante 462,7 % per i tumori della pleura degli uomini nell’area di Taranto e Statte.
Ed allora, pur a voler obiettare che tali dati non possano considerarsi da soli sufficienti per ritenere dimostrato un nesso di causalità tra le emissioni industriali e quelle patologie, non si può comunque disconoscere che essi rappresentino un elemento di fatto certo nei suoi contenuti ed altamente sintomatico in quel senso. E, poiché in questo processo non si tratta di dimostrare la nocività di tali emissioni per la salute umana, ma soltanto il carattere molesto di esse (anche soltanto – come si ricorderà – come attitudine a determinare “preoccupazione od allarme” circa eventuali danni alla salute ad esse correlabili), non vi può esser dubbio sulla valenza probante di quei dati statistici.
Per quanto concerne, poi, gli ambienti lavorativi, sovvengono i risultati dell’indagine svolta dai periti del G.i.p., i quali, all’interno dello stabilimento, hanno rilevato valori di polveri sedimentabili superiori di circa dieci volte a quelli riscontrati nell’area urbana (pag. 72, relaz. perizia). Ma soprattutto, con particolare riguardo all’area delle batterie di forni a coke nn. 3 – 6, risultano altamente significativi gli esiti della consulenza tecnica eseguita dal collegio guidato dal prof. Liberti, tanto più perché essi non hanno formato oggetto di sostanziali contestazioni da parte dei consulenti delle difese.
Orbene, il monitoraggio d’area condotto da quei consulenti ha consentito di rilevare, durante la campagna effettuata nel 2001, frequentissimi superamenti del “TLV-TWA”, che sta ad indicare concentrazione media riferita ad un giorno lavorativo di 8 ore per una settimana lavorativa di 40 ore, e rappresenta il valore limite per le esposizioni prolungate nel tempo. In particolare, per le poveri totali, codesto valore è stato superato nel 90% dei campionamenti (94 su 104) e, nel 34% dei casi (35 su 104), è stato superato di oltre il quintuplo; per le polveri respirabili, il superamento è avvenuto nell’80% dei casi (82 su 104); per gli idrocarburi policiclici aromatici, nel 44% dei casi (36 su 82), e nel 28% delle volte il valore registrato è stato superiore al quintuplo del consentito; infine, per il benzene, il superamento ha riguardato il 22% dei campionamenti (18 su 82), ma nel 72% di quei casi (ovvero 13 su 18) è stato superato pure il più elevato “TLV-STEL”, ossia la media calcolata su un tempo di 15 minuti, che non deve essere superata durante la giornata lavorativa. Anzi, relativamente al benzene, sono stati superati in numerose occasioni pure i più elevati “valori limite di esposizione” sulle otto ore, previsti dall’allegato VIII-bis al D.L.vo n° 626/1994 (aggiunto dall’art. 10, co. 1, D.L.vo 25.2.2000, n° 266) e fissati in 3,25 mg/m³ (e, fino al 31.12.2001, in 9,75 mg/m³; si vedano, in proposito, le tabelle nn. 25 e 27 allegate alla relazione di consulenza tecnica). Peraltro – giova ricordarlo – questi ultimi sono dei valori che, per espressa previsione normativa, non potrebbero essere superati in nessun caso (art. 62, co. 3, ult. parte, D.L.vo n° 626 del 1994).
Nella campagna del 2002, invece, si è registrata una consistente riduzione dei valori per i.p.a. e benzene, mentre costantemente superiori al “TLV-TWA” sono rimasti quelli delle polveri respirabili.
Inoltre, il “collegio Liberti” ha eseguito il monitoraggio biologico sulle urine di 102 lavoratori addetti alle batterie nn. 3-6, rilevando, senza significative distinzioni tra soggetti fumatori e non fumatori, numerosi casi di superamento del “valore soglia”, cui la comunità scientifica internazionale associa un eccesso di rischio per tumore polmonare pari al 30%. Ebbene, tale valore è stato superato dal 34% dei lavoratori addetti alle batterie nn. 3-4, con un picco dell’83% per quelli addetti al piano di caricamento (cc.dd. “top side”), che sono i più esposti; nelle batterie nn. 5-6, invece, il superamento si è registrato nel 14% dei casi totali e nel 60% dei “top side” (vds. pagg. 68 – 73, relaz. consulenza).
E’ opportuno rammentare, peraltro, che i “TLV” della “ACGIH” sono valori soltanto indicativi e non particolarmente rigorosi, tant’e che la stessa associazione raccomanda di mantenere i livelli di esposizione dei lavoratori comunque al minimo possibile, soprattutto per quanto riguarda le sostanze altamente nocive, quali il benzene ed il benzo(a)pirene (che rientra tra gli i.p.a.).
Del resto – come già s’è detto – questa è stata la scelta compiuta anche dal legislatore italiano (art. 62, D.L.vo n° 626/1994, art. 20 e 21, D.P.R. n° 303/1956, più volte ricordati). E l’autorità governativa, dal suo canto, ha comunque richiamato quei valori: nella nota finale del Decreto Ministeriale del 20 agosto 1999 si legge, infatti, che, “in mancanza di riferimenti legislativi italiani, i valori limite di esposizione generalmente adottati per gli ambienti di lavoro sono i TLV stabiliti annualmente dalla ACGIH ed editi in italiano dall’AIDII”.
Al lume, dunque, di questi e degli altri dati tecnici sin qui evidenziati, come pure delle circostanze di fatto ricavabili dalla documentazione amministrativa e dalle testimonianze già illustrate, le immissioni in atmosfera ed al suolo provenienti dal locale stabilimento dell’”Ilva” sono risultate imponenti, e quindi, in quanto tali, sicuramente superiori alla normale – ma anche alla stretta – tollerabilità.
Da ultimo, mette conto evidenziare che la produzione e la propagazione delle suddette emissioni, in quelle quantità, non erano fenomeni inevitabilmente connessi al tipo di attività svolta, ma sono stati resi possibili a causa della mancata adozione, da parte della società “Ilva”, di apparecchiature ed accorgimenti tecnici non particolarmente sofisticati, di larga diffusione in analoghe realtà industriali ed idonei a ridurli in misura notevole. Già ampiamente s’è detto, in proposito, al capitolo precedente, allorchè si sono illustrate le gravi deficienze strutturali delle batterie nn. 3 – 6 del reparto cokeria. Quanto, poi, alla inadeguatezza di numerosi impianti dello stabilimento rispetto alle migliori tecnologie disponibili, è sufficiente fare rinvio recettizio ai vari “atti di intesa”, ove è stata la stessa società a riconoscere tale realtà.
Nessun dubbio, allora, può residuare in ordine alla sussistenza della contravvenzione in rassegna.
La questione, poi, se la realizzazione di tale reato sia avvenuta per effetto di una condotta attiva, ovvero di una condotta commissiva mediante omissione (c.d. reato omissivo improprio), è di poco momento, stante la completa equiparazione di tali situazioni agli effetti penali, stabilita dall’art. 40, cpv., del codice penale. Piuttosto va evidenziato – se, come appare preferibile, la fattispecie concreta dev’essere ricostruita in termini di reato omissivo improprio – che indiscutibilmente gli organi rappresentativi aziendali rivestivano una posizione di garanzia, in particolare sub specie di obbligo di controllo della sorgente di pericolo per il bene giuridico tutelato dalla norma (incolumità delle persone).
Infine – si deve aggiungere – la sussistenza del reato può ritenersi acclarata non soltanto relativamente agli anni cui si riferiscono le indagini tecniche esaminate, ma anche a tutt’oggi o, quanto meno, alla data della elevazione dell’imputazione.
Deve considerarsi, infatti, che si tratta di impianti di produzione a ciclo continuo; che essi, nel frattempo, non hanno subìto sostanziali trasformazioni (al fermo delle batterie nn. 3 – 6, per esempio, si è accompagnata la riattivazione di quelle nn. 1-2); che tutti i suindicati testimoni abitanti nei quartieri limitrofi all’area industriale, nonché alcuni dei politici locali (dei quali, però, ci si può fidare di meno, stante l’enorme incidenza dell’”Ilva” nel tessuto economico-sociale dell’area jonica, e quindi anche nei meccanismi di formazione del consenso – o del dissenso – elettorale), hanno rappresentato la sostanziale identità della situazione ambientale rispetto agli anni precedenti; che tale giudizio, quantunque empirico ed estemporaneo, trova tuttavia conforto nel già ricordato “III Rapporto A.P.A.T.”, il quale si fonda su dati relativi al 2006; che, infine, ancora nel più recente degli “atti di intesa”, stipulato il 23 di ottobre del 2006, si è sostanzialmente riconosciuta la persistenza di tali fenomeni, dal momento che è stato “ritenuto necessario procedere ad ulteriori interventi di riduzione delle emissioni delle polveri pesanti”, e l’”Ilva” si è impegnata, per esempio, ad adottare specifici “sistemi protettivi dall’azione del vento sui cumuli dei parchi materie prime”.
3.6. - Come già è avvenuto per i reati oggetto del precedente capitolo, fino ad ora si è parlato genericamente dell’”Ilva”; ma – com’è noto – societas delinquere non potest (almeno per i reati di cui si va trattando). All’interno dell’organizzazione di quella, quindi, si debbono individuare i responsabili.
Questi sono, anzitutto gli imputati Emilio Riva e Capogrosso, in quanto titolari delle posizioni di vertice, rispettivamente, nella struttura amministrativa ed in quella tecnica dell’azienda. Riguardo alle posizioni di costoro, in verità, ben poco v’è da aggiungere rispetto a quanto già significato a proposito del delitto di cui all’art. 437, cod. pen. (retro, cap. II, §§ 4.1. e 4.2.). Basta solamente ricordare, ancora una volta, la loro precedente condanna, sempre per il reato di cui all’art. 674, cod. pen., e sempre per lo sversamento di polveri dai parchi minerali, sancita definitivamente dalla Cassazione con la sentenza del 28 settembre 2005 (alla quale, per il resto, si rimanda).
A differenza di quanto sostenuto nelle sue conclusioni dal Procuratore della Repubblica, che evidentemente ha valorizzato a tal fine la delega esclusiva in materia – anche – ambientale, conferita dal c.d.a. della società al presidente Emilio Riva, il giudicante ritiene invece di dover giungere ad un giudizio di colpevolezza anche per l’imputato Claudio Riva, quale amministratore delegato di quella.
In proposito, già si è accennato al § 4.1. del precedente capitolo alla impossibilità di eliminare od anche soltanto di ridurre significativamente quei fenomeni di inquinamento senza imponenti investimenti economici e senza una complessiva riorganizzazione aziendale, riservati, in quanto tali, al c.d.a. aziendale e non al solo presidente.
Inoltre, i tempi della delega esclusiva conferita a Emilio Riva (ottobre del 1999) appaiono francamente sospetti, essendo essa intervenuta allorchè era in pieno svolgimento la campagna di rilevamenti dei periti nominati dal G.i.p..
Peraltro, se veramente il consiglio di amministrazione fosse stato estraneo alla specifica attività aziendale in materia ambientale, sarebbe stato lecito attendersi da parte di esso, a fronte delle innumerevoli prescrizioni, contestazioni ed osservazioni rivolte negli anni alla società dalle più diverse autorità amministrative, per lo meno una diffida, un invito od un qualsiasi altro moto di sollecito al presidente, affinchè si attivasse e, in tal modo, evitasse di esporre la società a conseguenze negative, anche giudiziarie: invece, nessuna iniziativa in tal senso è mai stata adottata da quell’organo.
E’ del tutto ragionevole desumere, allora, che quest’ultimo, nel quale sedevano peraltro vari figli di Emilio Riva, fosse del tutto in sintonia con le scelte del presidente e fornisse a queste il necessario avallo economico.
Quella delega di funzioni, quindi, finisce per assumere il sapore di un mero escamotage, destinato, nelle intenzioni del c.d.a., a rovesciare sul quasi ottuagenario Emilio Riva le conseguenze dei possibili sviluppi negativi delle indagini giudiziarie in corso, nella consapevolezza che egli, quanto meno per ragioni anagrafiche, non avrebbe corso seri rischi di soggiacere a sanzioni privative della libertà personale.
Del resto, la più eloquente conferma del pieno coinvolgimento personale di Claudio Riva nella gestione della “vertenza ambientale” tarantina si rinviene nel fatto che egli, pur dopo quella delega, abbia personalmente sottoscritto, per conto dell’azienda, gli “atti di intesa” siglati l’8 gennaio 2003 ed il 27 febbraio 2004.
Della contravvenzione in esame, infine, va dichiarato colpevole anche il responsabile del reparto cokerie Roberto Pensa.
A differenza di quanto si è detto per il delitto di cui all’art. 437, cod. pen., le emissioni inquinanti rivenienti dalle batterie nn. 3 – 6 dipendevano, ed in larga misura, anche dalle condizioni di manutenzione ordinaria di quegli impianti e, soprattutto, dalle modalità operative.
Come illustrato dal “collegio Liberti” nella sua consulenza (vds., in part., § 2.5, pagg. 38 ss.), il funzionamento di quelle batterie, durante le campagne di rilevamento effettuate, è stato connotato da una serie continua di disfunzioni, di fermate, di rallentamenti del regime produttivo, che – come tutti i tecnici intervenuti nel processo hanno confermato – contribuiscono in modo decisivo ed esponenziale alle ricadute inquinanti di tali impianti. Inoltre, sia quel collegio di tecnici che i rappresentanti del “Comitato tecnico misto” comunale hanno posto in evidenza come quelle batterie funzionassero ad un regime troppo “spinto”, rispetto a quello che rendevano consigliabile le loro condizioni strutturali estremamente precarie (vds. pure test. Colavini, pag. 43 s., trascr. verb. ud., nonché gli atti di quel comitato, acquisiti all’udienza del 27.3.2006, tra i quali si segnala una nota dello stesso Colavini, già dirigente di primo livello dell’”Ilva” pubblica, il quale, calcolando i regimi di funzionamento degli impianti e la produzione di acciaio dichiarati dalla stessa “Ilva”, ipotizzava un significativo eccesso di produzione di coke, non giustificato dalle necessità dell’impresa).
Ne consegue che anche Pensa, cui spettava la gestione operativa di quegli impianti, conducendoli in tal modo, ha contribuito in misura decisiva a quelle “emissioni eccedentarie… con ovvi riflessi sulla sostenibilità ambientale dell’area cittadina circostante”, sì come denunciate all’epoca dal dott. Virtù e poi effettivamente accertate.
Tutti coloro nei confronti dei quali è stata elevata l’imputazione in discorso, dunque, vanno dichiarati colpevoli.
Soltanto un cenno merita, da ultimo, il rilievo difensivo secondo cui la mancata contestazione del concorso di persone e della cooperazione colposa nel reato (artt. 110 o 113, cod. pen.) imporrebbe una pronuncia assolutoria per tutti, poiché il mancato impedimento delle emissioni non sarebbe causalmente riconducibile in via esclusiva alla singola condotta dell’uno o dell’altro.
L’argomento non ha pregio.
Come già evidenziato nella sentenza emessa dalla Suprema Corte nel processo relativo – per dirla in breve – soltanto ai parchi minerali (sez. III, n° 1653/2005, più volte rammentata, alla quale si fa integrale rinvio), sotto un profilo meramente formale, la mancata indicazione degli articoli 110 o 113 nel capo di imputazione è del tutto insignificante, dovendo darsi rilievo esclusivamente alla descrizione del fatto in quello contenuta.
Nel merito, poi, dev’essere evidenziato che la contestazione è stata elevata a ciascuno degli imputati “nelle rispettive qualità”: qualità cui corrispondevano, in capo ad ognuno, altrettante posizioni di garanzia, seppur distinte e di diversa ampiezza, ma ciascuna qualificata da un connesso obbligo di impedire l’evento.
In altri e più semplici termini, la contestazione del concorso (o della cooperazione) serve a conferire penale rilevanza alle condotte diverse da quelle tipiche, ma che, accedendo a queste ultime od affiancandosi ad altre a loro volta atipiche o parziali, contribuiscano a perfezionare in tutti i suoi elementi costitutivi la fattispecie astratta. Nel caso oggetto del processo, invece, le condotte ascrivibili a ciascuno degli imputati contenevano, ognuna, tutti gli elementi costitutivi della fattispecie, avendo ognuno di essi contribuito a provocare le emissioni, seppur in modo diverso in relazione al differente ruolo ricoperto, ed avendo ciascuno di essi uno specifico obbligo di controllo delle relative sorgenti di pericolo.
3.7. – Poche considerazioni, infine, sull’elemento psicologico del reato.
Trattandosi di contravvenzione, sarebbe sufficiente anche soltanto la colpa: e già per il sol fatto che tali emissioni di polveri, i.p.a. e benzene sono state determinate dal mancato adeguamento degli impianti alla migliore tecnologia disponibile, come ammesso dagli stessi vertici della società negli “atti di intesa”, tale coefficiente psicologico sarebbe certamente individuabile in capo agli imputati che quelle posizioni rivestono, ovvero Emilio Riva, suo figlio Claudio e Capogrosso.
Se a tanto si aggiunge che, con particolare riferimento alle cokerie, codeste immissioni nocive, sia all’interno degli ambienti di lavoro che nell’area urbana, hanno ricevuto un decisivo impulso non soltanto dalle carenze impiantistiche ma anche dal funzionamento a regimi incompatibili con le loro condizioni strutturali, non v’è dubbio che un rimprovero di negligenza possa essere mosso anche all’imputato Pensa.
In realtà, ad avviso del giudicante, nelle condotte degli imputati non va ravvisato esclusivamente un mero difetto di diligenza, bensì un vero e proprio dolo, se non altro nella forma indiretta o eventuale.
Tutti costoro, invero, erano perfettamente a conoscenza del fenomeno e delle sue reali dimensioni: stanno ad attestarlo, se non altro, il D.P.R. contenente il piano di disinquinamento dell’area, gli “atti di intesa”, la precedente sentenza di condanna per fatti del tutto analoghi, le ordinanze del Sindaco di Taranto, la pletora di segnalazioni pervenute alla società dal dirigente del “Dipartimento di prevenzione” della “A.s.l.”. Nonostante tutto questo, le cokerie nn. 3 – 6 hanno continuato a produrre a ritmi per loro insostenibili e senza essere dotate di dispositivi di abbattimento o contenimento delle emissioni, largamente impiegati anche su altri impianti della stessa azienda; ed i “parchi minerali” hanno continuato ad essere allocati nello stesso punto e senza essere dotati anch’essi di efficaci dispositivi di contenimento dello spolverio dagli stessi riveniente, nonostante gli impegni presi nei vari “atti di intesa”: al punto che, ancora in quello stilato pochi mesi fa, ossia ad ottobre del 2006, si parla della necessità, da parte della società, di “procedere ad ulteriori interventi di riduzione delle emissioni delle polveri pesanti”, e di adottare specifici “sistemi protettivi dall’azione del vento sui cumuli dei parchi materie prime”.
Non vi può esser dubbio, quindi, che ognuno degli imputati, pur essendo consapevole della natura e della portata di tali emissioni, abbia continuato, per la parte di rispettiva competenza, ad omettere le cautele necessarie affinchè quelle fossero evitate, in tal modo accettando il rischio che esse – come poi, in effetti, avveniva prima, è avvenuto poi ed avviene tutt’ora – arrecassero grave molestia alle persone.
Anzi, alcune circostanze rilevate dai consulenti del “collegio Liberti” durante le campagne di rilevamento da loro eseguite appaiono addirittura rivelatrici di malafede: basti pensare ai continui fermi della produzione, verificatisi in tutti i cicli produttivi esaminati, ad eccezione di uno solo; al costante prolungamento dei tempi di distillazione, protrattisi mediamente dalle 23 alle 25 ore, con punte anche di 32 ore, a fronte del dato medio dichiarato dall’azienda in 21 ore; alla riduzione della sovrapressione nelle celle, sostanzialmente dimezzata rispetto a quella dichiarata dall’azienda come ordinaria; al fatto che tali situazioni, tutte incidenti in modo positivo sulle ripercussioni emissive, si siano verificate essenzialmente durante la seconda campagna di rilievi eseguita dai consulenti tecnici, laddove nel corso della prima i risultati erano stati altamente negativi; alla distonia, infine, dei dati rilevati attraverso il monitoraggio d’area e quello biologico, tra loro sostanzialmente congruenti, rispetto a quelli ottenuti con il campionamento personale, ovvero con i rilevatori portatili installati su ciascun operaio, i cui risultati sono evidentemente condizionati dal leale comportamento dei singoli portatori (vds. relaz. c.t., pag. 66 s.; test. Liberti, pagg. 17-19, 24, 49, 52).
Si tratta, all’evidenza, tanto più perché rilevati simultaneamente, di comportamenti che lasciano ragionevolmente ipotizzare la precisa ed artificiosa risoluzione dei competenti organi aziendali di offrire ai consulenti del Pubblico Ministero un quadro della situazione più roseo di quello realmente esistente. E questo, ovviamente, non può che confermare l’esistenza del dolo in chi, come gli odierni imputati, in base alle rispettive funzioni e competenze, concorreva alla formazione della volontà aziendale.
Quanto, poi, alla opinata inesigibilità di un comportamento diverso da quello da costoro tenuto, non rimane nulla da aggiungere rispetto a quanto già significato al cap. II, §§ 3.1.e) e 3.2.f): ai quali, pertanto, si rinvia.
4. – Il danneggiamento di arredi urbani ed edifici pubblici (capo F).
Le considerazioni appena svolte a proposito del reato di cui all’art. 674, cod. pen., si possono riproporre tal quali con riferimento al delitto di danneggiamento rubricato sub F), costituendo quest’ultimo, nell’impostazione accusatoria, null’altro che l’effetto determinato dalle descritte emissioni inquinanti sulle strade, sul cimitero cittadino e sugli altri edifici pubblici situati nel quartiere “Tamburi”: i primi dei quali, come si può evincere, ad esempio, dalle carte topografiche allegate all’atto di intesa dell’8 gennaio 2003 e con questo prodotte in udienza, distano dall’area dei “parchi minerali e fossili” soltanto poche decine di metri in linea d’aria!Peraltro – sia detto per inciso – proprio attraverso quelle carte, nelle quali è pure indicato un campo da calcio (del quale si dirà da qui a qualche rigo), si ha la rappresentazione visiva della superficie occupata da quei “parchi”, pari a svariate decine di volte rispetto a quella del medesimo campo.
Dunque, nel trattare di tale delitto di danneggiamento, non rimane nulla da aggiungere per quanto concerne la natura di quegli agenti inquinanti; la loro provenienza dal locale stabilimento della società “Ilva” (che – guarda caso – ha pagato essa stessa i lavori di ripulitura del cimitero cittadino: test. Mirelli, pag. 16, trascr. verb. ud.); l’individuazione dei responsabili; la consapevolezza di questi ultimi circa le conseguenze derivanti da codeste emissioni; l’accettazione, da parte di costoro, del rischio degli effetti a quelle connessi; la concreta possibilità di adottare delle cautele che avrebbero potuto impedire dette conseguenze.
In effetti, l’unico vero argomento a discarico offerto al giudice dalle difese degli imputati risiede nella configurazione giuridica dei fatti emersi in istruttoria: se, ossia, quei fenomeni di imbrattamento, indubbiamente verificatisi in conseguenza delle anzidette emissioni, integrino il contestato delitto di danneggiamento aggravato o, piuttosto, quello di “deturpamento e imbrattamento di cose altrui”, previsto e punito dall’art. 639, cod. pen.: il quale, però, nello specifico risulterebbe improcedibile, in quanto non è stata mai presentata la querela necessaria a tal fine.
4.1. - Allorchè si tratti di deterioramento di una cosa, il danneggiamento produce “una modificazione della cosa altrui che ne diminuisce in modo apprezzabile il valore o ne impedisce anche parzialmente l’uso, così dando luogo alla necessità di un intervento ripristinatorio dell’essenza e della funzionalità della cosa stessa”; il deturpamento, invece, determina “solo un’alterazione temporanea e superficiale della res, il cui aspetto originario, quale che sia la spesa da affrontare, è comunque facilmente reintegrabile” (così Cass. pen., sez. II, 16.6.2005, n° 28793, ric. Cazzulo; idem, 7.6.2002, n° 22370, ric. P.G. in proc. Biason: le quali hanno riconosciuto il delitto di cui all’art. 635, c.p., nei casi, rispettivamente, di foratura di un pneumatico e di sfregio della carrozzeria nei confronti di autovetture; in senso conforme, vds. pure Cass. pen., sez. VI, 20.1.2004, n° 1271, ric. Misuraca, in fattispecie relativa agli esiti di colpi sferrati con una mazza di ferro sul cofano di un’automobile).
Ed anche in letteratura, voce autorevolissima (Mantovani) si è espressa nel senso che il deturpamento ex art. 639, cod. pen., “deve limitarsi ad una semplice alterazione dell’estetica o della nettezza della cosa, facilmente e completamente eliminabile, senza pregiudicare per un tempo giuridicamente apprezzabile l’utilizzabilità o il pregio della stessa”.
E’ doveroso evidenziare – per offrire una panoramica essenziale della giurisprudenza della Cassazione nella materia – che, pur in applicazione di tali princìpi, si registrano conclusioni oscillanti con riferimento all’ipotesi di insozzamenti mediante vernici. In tali casi, infatti, è stato riconosciuto il delitto di cui all’art. 639, cod. pen., “mancando un’immanenza degli effetti dannosi sul bene deteriorato, sempre che possa comunque ripristinarsi, senza particolari difficoltà, l’aspetto ed il valore originario del bene”: e questo, nonostante si fosse resa necessaria una completa ritinteggiatura del muro (sez. VI, 16.11.2000, n° 11756, ric. Albano; analogamente, sez. I, 17.7.1989, n° 10428, ric. Cortiglioni). Si è ritenuto sussistente, invece, il danneggiamento nel caso di una saracinesca imbrattata con vernice a spruzzo, sul presupposto del carattere indelebile di quest’ultima (sez. VI, 13.10.1982, ric. Casamenti).
4.2. - Così stando le cose, non vi può essere alcun dubbio sulla configurabilità, nell’ipotesi oggetto di giudizio, del contestato delitto di danneggiamento, ai sensi dell’art. 635, co. 2, n° 3, cod. pen..
Eloquenti appaiono, a tal fine, già le rammentate immagini fotografiche rilevate dai Carabinieri del “N.o.e.”: manti stradali, segnaletica, guard-rails completamente trasformati dal loro differente colore originario e divenuti tutti indistintamente rossastri; al pari dei marmi dei rivestimenti delle cappelle cimiteriali, sui quali, per la verità, forse perché esaltati dal primitivo candore della pietra, si scorgono anche addensamenti grigi e neri.
E, in effetti, come già si è avuto modo di accennare, la compromissione delle strutture cimiteriali ha comportato un consistente intervento di ripristino, peraltro pagato proprio dalla società “Ilva”, nonostante le resistenze all’ordinanza del Sindaco che tanto le imponeva, protrattesi per circa due anni (l’ordinanza, il ricorso dell’”Ilva” al T.A.R. della Puglia, ed altri atti relativi alla vicenda sono allegati al verbale d’udienza del 20.11.2006).
Ebbene, basta scorrere alcuni di tali atti, per avere una rappresentazione inconfutabile della grave degenerazione strutturale e funzionale dell’area cimiteriale, che quelle emissioni determinavano.
Nella nota n° 2618 dell’11 ottobre 2003 del dirigente del “Dipartimento di prevenzione” della “A.s.l.”, ad esempio, si parla della necessità di “una radicale pulizia dell’area con asportazione delle polveri minerali ivi depositate”.
Nel “piano di lavoro per la bonifica da polveri dell’area cimiteriale di S. Brunone”, predisposto nell’ottobre 2003 dalla locale “Azienda municipalizzata di igiene urbana (A.M.I.U.)”, si evidenzia che “le polveri presenti sulle aree e sui manufatti cimiteriali, per la loro composizione chimico-fisica e per la pluriennale durata dell’evento, sono di difficile rimozione poiché, ormai, non sono solo depositate ma hanno reagito con il supporto (marmi, tufi, pietre, etc.)”.
Ma ancor più dettagliato ed eloquente si presenta il preventivo dei lavori da eseguirsi per il ripristino di quell’area, stilato nel settembre del 2003, dalla “Direzione gestione patrimonio e lavori pubblici” del Comune di Taranto”. Ivi si parla, infatti, solo per citare alcune delle voci, di “asportazione meccanica del terreno fino alla profondità di cm. 15”; di “eventuali rappezzi di intonaco”; di “sgrassaggio delle superfici con solventi clorurali”; di “scarificazione di massicciata stradale (tappetino), eseguita con mezzi meccanici, nonché rifacimento della… pavimentazione stradale mediante applicazione di strato di usura in conglomerato bituminoso”; di “ripristino di terreno erboso”; di “rimozione… di siepi ammalate o secche”; di “rimozione di segnaletica direzionale verticale e a muro, corrosa e non più idonea”.
Sembra proprio difficile, allora, ritenere di essere in presenza solamente di mere alterazioni temporanee e superficiali, che non diminuiscano in modo apprezzabile il valore o non impediscano anche solo parzialmente l’uso, secondo i surricordati insegnamenti di dottrina e giurisprudenza.
E non è nemmeno tutto.
Già un paio d’anni prima, e precisamente il 15 marzo del 2001, l’arch. Bartolomeo Zizzi, funzionario tecnico del Comune di Taranto, aveva eseguito un sopralluogo dell’area urbana limitrofa allo stabilimento ILVA, redigendo una relazione scritta, prodotta dal P.M. all’udienza del 20 novembre 2006 con il consenso delle difese, e dunque pienamente utilizzabile.
Gli esiti di codesto sopralluogo, che aveva interessato un’area di circa 800 metri dalla recinzione esterna dello stabilimento, per un fronte di circa 1,5 km., ed aveva riguardato infrastrutture viarie, edifici pubblici, aree di verde urbano, segnaletica stradale, illuminazione pubblica e quant’altro, sono riportati nella relazione nei seguenti termini testuali: “la situazione generale dal punto di vista ambientale e manutentivo si presenta in pessimo stato di conservazione con evidente necessità di intervento urgente (…). Ogni cosa esistente nell’area… è colorata di rosso e grigio fumo; questa colorazione è tanto più intensa e visibile quanto più ci si avvicina alla recinzione dello stabilimento ILVA. (…) … la causa scatenante aumenta con il passare del tempo e… i manufatti, attrezzature, verde, etc. già danneggiati, finiscono per diventare inservibili e quindi non più ristrutturabili o recuperabili. (…) … in occasione delle piogge o per semplice effetto dell’umidità notturna tali polveri si fissano su ogni elemento diventando parte unica (…). La rimozione, quindi, è difficoltosa e può avvenire solo con lavorazioni costose che richiedono: la ricopritura mediante vernici, pitture, intonaco, compresa la scrostatura, asporto di fanghi e aratura. (…) azione più incisiva del danno… per effetto della possibile acidità delle sostanze. (…) il danno è ingente in quanto le opere a farsi sono molteplici, di notevole costo e… interessano un’area di… circa 12 Ha”.
Infine, un’ulteriore e significativa conferma degli effetti delle immissioni pulverulenti nell’area del quartiere “Tamburi” si ritrova nella vicenda di quel campo di calcio al quale s’è fatto cenno dianzi.
Con nota n° 2938/I/SIP dell’8 ottobre 2001, ancora una volta il dirigente del “Dipartimento di prevenzione” della “A.s.l.” segnalava che, a sèguito di sopralluogo eseguito nei giorni precedenti da suoi funzionari presso quell’impianto sportivo, denominato “Tamburi vecchio”, era stata ivi rilevata la presenza di alcuni operai, che, su incarico del Comune, stavano eseguendo dei lavori, tra altri, di “spalatura con pala meccanica di uno strato di circa 7/8 centimetri di polvere scura, depositatasi nel tempo e presente su tutto il triangolo [rectius, “rettangolo”: n.d.e.] di gioco e sulle zone perimetrali in modo quasi del tutto uniforme e senza soluzioni di continuità”.
Campioni di quella polvere venivano, quindi, prelevati e sottoposti ad analisi, all’esito delle quali si accertava la “presenza di notevole quantità… di sostanze minerali (FE, MG, Al, PB)” (vds. nota n° 3254/i/SIP del 5.11.2001, inviata dal dirigente del “Dip. prevenzione” al Sindaco, in atti). Nessun dubbio, quindi, sulla provenienza di essa dalla, pressochè contigua, area dei “parchi minerali” dell’”Ilva”.
Ma quelle polveri raccolte presso il campo sportivo “Tamburi vecchio” venivano anche pesate, e il 17 giugno del 2002 il presidente della municipalizzata “A.M.I.U.” comunicava al Sindaco i risultati: quasi 655 tonnellate (654 e 980 kg., per la precisione: vds. nota presidente “A.M.I.U.”, in atti). Ogni commento, francamente, appare superfluo.
Ed allora, in conclusione: si tratta di immissioni massive; esse provengono per lo più dai cumuli di materiali stoccati nell’area dei “parchi minerali”, come dimostra la predominante colorazione rossastra, ma anche dalle cokerie e da altri settori dello stabilimento, come attestato dal colore grigio-nero, anch’esso piuttosto diffuso (vds. foto CC. – “N.o.e.” e relazione dell’arch. Zizzi), e dall’alta densità di i.p.a. e benzene in esse riscontrata nel corso di varie indagini (retro, § 3.5.); tali immissioni non hanno determinato soltanto un mutamento estetico delle strutture, agevolmente rimovibile mediante una superficiale ripulitura, ma, compenetrandosi ai relativi supporti, hanno alterato indelebilmente la composizione di questi ultimi, incidendo negativamente sul pregio (si pensi, per esempio, alle strutture murarie delle cappelle funerarie) od addirittura sulla funzionalità di essi (si rammentino la necessità della “scarificazione di massicciata stradale… eseguita con mezzi meccanici, nonché rifacimento della… pavimentazione stradale”, ovvero le 655 tonnellate di polvere tirate via dal campo di calcio); è sì vero, infine, che tutti gli atti rammentati in questo paragrafo risalgono ad epoca posteriore a quella indicata in contestazione (inspiegabilmente – verrebbe da dire – fissata al 10 luglio 2000), ma, come agevolmente si evince dalle lumeggiate dimensioni del fenomeno e come, del resto, espressamente attestato in molti di quegli stessi atti (relazione dell’arch. Zizzi, “piano di lavoro” dell’“A.M.I.U. per gli interventi al cimitero, nota n° 2938/I/SIP dell’8 ottobre 2001 del dirigente del “Dipartimento di prevenzione”), si trattava di situazioni stratificatesi nel corso di svariati anni, ben prima, quindi, del luglio 2000.
Tutti gli imputati di questo reato, quindi, debbono essere dichiarati colpevoli dello stesso.
² ² ² ²
capitolo IV – I REATI CONTESTATI AI DIRIGENTI “AGIP” (capi G, H ed I dell’imputazione)
1. – La violazione dell’art. 25, D.P.R. n° 203/1988 ed il danneggiamento (capi H ed I).
Le due imputazioni, ancorchè distinte tra loro e fondantisi su presupposti sostanzialmente differenti, possono essere trattate congiuntamente, in quanto si fondano su di un presupposto di fatto comune: l’immissione di polveri in atmosfera e l’eventuale loro ricaduta al suolo.Infatti, così come s’è visto in precedenza per l’”Ilva”, anche per la raffineria “Agip” l’ufficio del Pubblico Ministero ha scelto di contestare la contravvenzione ex art. 25 del D.P.R. n° 203/1988 esclusivamente con riferimento alle “polveri totali sospese”. E quanto, poi, al danneggiamento di arredi urbani ed edifici pubblici, anch’esso non può che derivare – o, per lo meno, così è stato accertato nel processo – da polveri, evidentemente sedimentabili.
Gli è, però, che la raffineria in questione non emette polveri, quanto meno in misura significativa ed apprezzabile ai fini che qui interessano.
Gli stessi periti del G.i.p., infatti, hanno escluso che l’attività di quella determini fenomeni di movimentazione o di produzione di polveri grossolane, dando vita, semmai, a polveri da combustione, le quali, però, essendo convogliate nei camini, ricadono al suolo nell’area urbana soltanto in quantità estremamente esigue (vds., per tutte, le testimonianze di Ziemacki e Viviano, pagg. 3 e 20, trascr. verb. ud.).
Anche per questo motivo – oltre che per le ragioni già esposte parlando dell’omologa contestazione elevata ai dirigenti dell’”Ilva s.p.a.”, da intendersi quivi riproposte – gli imputati Moroni ed Elefante debbono essere mandati assolti dalla contravvenzione ex D.P.R. n° 203/1988, perché il fatto non sussiste.
Ad identica conclusione si deve giungere, poi, anche relativamente all’imputazione di danneggiamento aggravato di beni pubblici, non perché il fatto non sussista, bensì perché non lo hanno commesso, essendo quello attribuibile esclusivamente alle emissioni rivenienti dallo stabilimento “Ilva” e non dalla locale raffineria dell’”Agip Petroli s.p.a.”.
2. – La contravvenzione prevista dall’art. 674, cod. pen. (capo G).
La raffineria in questione non emette polveri grossolane, ma si tratta pur sempre di un impianto che ha ricadute non insignificanti sull’assetto ambientale dell’area.“Sensibile è l’impatto sull’ambiente ad essa associabile, ed in particolare nei confronti dei comparti aria e rischio di incidente rilevante”: così si esprimeva il D.P.R. del 23 aprile 1998 contenente il piano di disinquinamento (pag. 170), che coerentemente imponeva alla società gerente una serie di interventi migliorativi dell’impianto (vds. “Tabella 2”, pagg. 194 ss.).
Gli stessi consulenti della difesa, Frascaroli e Giacomello, hanno affermato come dai camini di quell’impianto fuoriescano anidride carbonica (Co2), monossido di carbonio (Co), anidride solforosa (So2) ed ossidi di azoto (NOx), che rappresentano certamente dei significativi agenti inquinanti (sebbene quei consulenti abbiano rivendicato, senza ricevere smentita, come le relative emissioni siano risultate sempre ampiamente inferiori ai valori limite previsti dalla legge).
I periti del G.i.p., poi, hanno significato come l’agente inquinante tipicamente prodotto dalla raffineria dell’”Agip” è costituito dal benzene, per il quale, tuttavia, essi hanno rilevato valori paragonabili a quelli del traffico urbano, nonché pari a circa la metà di quelli da loro stessi accertati, ad esempio, all’interno del reparto cokeria dell’”Ilva” (esami Carbotti, pag. 23, e Spartera, pag. 32, trascr. verb. ud.).
Vanno, inoltre, rammentate le sommarie informazioni testimoniali rese il 27 aprile 1998 alla polizia giudiziaria, su delega del P.M., da tale Blè Gaetano, allora presidente del Consiglio circoscrizionale del quartiere cittadino “Paolo VI”. Nel relativo verbale – acquisito in udienza sull’accordo delle parti – quegli così si esprimeva: “…quando spirano venti provenienti dall’area industriale di Taranto, si ha modo di avvertire cattivi odori e presenza di polveri scure (…). La presenza di queste polveri e di cattivi odori… comporta dei disturbi generali e comunque di fastidio. Infatti spesso e volentieri mi capita di sentire quel cattivo odore che è sempre percepibile quando si percorre la strada per Reggio Calabria all’altezza della raffineria”.
E di odori molesti irraggiantisi sui quartieri “Tamburi” e “Paolo VI” e provenienti dalla raffineria, o comunque identici a quello avvertito nel transitare lungo la strada statale “106 jonica” all’altezza di tale impianto, hanno riferito pure i testi De Gregorio, Crocco, Gentile, Guarino, Gulino e De Pasquale.
Poiché – come s’è detto ampiamente al capitolo precedente – la contravvenzione di cui all’art. 674, cod. pen., è configurabile anche nel caso di propagazioni di cattivi odori, tali testimonianze, valutate unitamente alle ulteriori emergenze appena prima illustrate, non consentono di giungere illico et immediate ad una pronuncia assolutoria, tanto più ove si consideri l’ampia nozione di “molestia” elaborata dalla giurisprudenza.
Gli approfondimenti istruttori evidentemente necessari a tal fine, però, risultano inutili.
Le difese degli imputati, infatti, hanno prodotto, in copia, il verbale del consiglio di amministrazione dell’”Agip s.p.a” tenutosi il 2 luglio 1999, nel corso del quale l’imputato Moroni era stato revocato dalla carica di presidente ed era stato sostituito dall’ing. Gilberto Callera (vds. pure l’ordine di servizio n° 1027 del 5 luglio seguente, anch’esso prodotto in copia).
Inoltre, e sempre in copia fotostatica, hanno prodotto l’ordine di servizio n° 1086 dell’1.6.2000, a firma del presidente della società, dal quale si evince che, a far data dal 1° luglio seguente, l’ing. Elefante aveva assunto delle funzioni dirigenziali presso lo stabilimento di Priolo ed era stato sostituito, nel ruolo di direttore della raffineria di Taranto, dall’ing. Bernardo Casa (come del resto confermato anche dal m.llo Mastromarino, nel corso della sua testimonianza all’udienza del 10.4.2006).
E’ evidente, quindi, che, trattandosi di contravvenzione e non potendo essa addebitarsi agli odierni imputati anche per l’epoca successiva alla dismissione delle rispettive cariche, questo reato deve considerarsi abbondantemente prescritto.
A norma dei previgenti art. 157, co. 1, n° 5, e 160, ult. co, ult. parte, cod. pen., applicabili al caso specifico in quanto più favorevoli rispetto alla diversa disciplina introdotta con la legge comunemente nota come “ex-Cirielli”, il termine di prescrizione massimo e prorogato è pari a quattro anni e sei mesi, da computarsi, appunto, dalle date in cui gli imputati sono cessati da quegli incarichi. Ne deriva che, per Moroni, codesto termine è spirato il 2 gennaio 2004; mentre, per Elefante, il 1° gennaio 2005.
Poiché, quindi, ai sensi dell’art. 129, co. 2, cod. proc. pen., laddove ricorra una causa di estinzione del reato, qual è appunto la prescrizione, una pronuncia assolutoria nel merito può aversi soltanto quando dagli atti processuali ne risulti “evidente” la ragione; poiché, per quanto s’è detto sopra, tale evidenza non ricorre nel caso specifico; siccome, infine, nessuno degli imputati ha rinunziato alla prescrizione, chiedendo al giudice un giudizio nel merito, non può che giungersi alla declaratoria di improcedibilità, per sopraggiunta estinzione del reato per prescrizione.
² ² ² ²
capitolo V – TRATTAMENTO SANZIONATORIO E STATUIZIONI CIVILI
1. – Le sanzioni penali principali ed accessorie.
Ricapitolando: Emilio Riva e Capogrosso sono colpevoli e debbono essere condannati per i reati di cui ai capi A), C), D) ed F) dell’imputazione; Claudio Riva e Pensa, invece, solo di quelli rubricati sub D) ed F).1.1. – Le circostanze evidenziate nei precedenti capitoli connotano di non comune gravità i fatti oggetto del processo.
Alcune di quelle hanno carattere obiettivo e riguardano, perciò, tutti gli imputati, ed in particolare i due Riva, padre e figlio, nonchè Capogrosso, in virtù della loro posizione di primazia nella struttura dell’azienda.
Ci si riferisce, ad esempio: all’imponenza del fenomeno dell’inquinamento dell’area jonica, la quale si colloca, sotto questo profilo, ai vertici assoluti nell’ambito dell’intero territorio nazionale; alla ascrivibilità di tale fenomeno, per la quasi totalità, allo stabilimento dell’”Ilva”; all’annosa inerzia di questa società nel porre rimedio all’insostenibile stato di vetustà delle batterie di forni nn. 3-6; al costante utilizzo di queste al di sopra dei regimi dalle stesse sostenibili; al comportamento malizioso verosimilmente serbato durante l’espletamento della consulenza tecnica del “collegio Liberti”, con la riduzione di quei regimi operativi, le frequenti fermate degli impianti e l’incongruenza dei risultati del campionamento personale degli operai rispetto a quelli dei monitoraggi d’area e biologici, non spiegabile se non con un ordine di condotta venuto dall’alto; alla protervia, infine, mostrata dall’azienda nel non volersi tempestivamente assoggettare al provvedimento di sequestro preventivo disposto dal G.i.p., alla sentenza del Tribunale di Taranto del 15 luglio 2002, oltre che alle varie ordinanze sindacali, così mostrandosi sprezzante nei confronti delle pubbliche autorità.
Insomma – per dirla semplicemente – l’atteggiamento della dirigenza “Ilva”, quale si evince anche dai vari “atti di intesa”, nei quali si ritorna sempre sui medesimi aspetti, è costantemente apparso quello di chi magari è pure disposto ad adottare gli accorgimenti dovuti secondo le norme giuridiche e la tecnica, ma soltanto se e quando quelli siano compatibili con le esigenze della produzione e del profitto; a meno che – è il corollario che abitualmente fa da pendant – non si vogliano sacrificare i già precari livelli occupazionali dell’area.
Questo atteggiamento padronale ha trovato alcune spie significative nel processo.
Ad esempio la deposizione del teste Vipera, l’unico, tra tutti gli operai sentiti, ad essere ancora alle dipendenze dell’”Ilva”, il quale, in sede di indagini, ha rifiutato di sottoscrivere il verbale di sommarie informazioni rese alla p.g., e, in dibattimento, ha offerto una rappresentazione delle condizioni di lavoro decisamente più rosea rispetto a quella data dai suoi colleghi, altresì curandosi di sottolineare la tendenza ad un netto e costante miglioramento.
E così, pure, non si spiega altrimenti l’argomento difensivo secondo cui andrebbero esclusi qualsiasi dolo o colpa degli odierni imputati, perchè il “gruppo Riva”, da quando ha acquisito l’”Ilva”, avrebbe speso per le cokerie qualche centinaio di miliardi di lire (e poco importa quindi – parrebbe di capire – che quegli impianti continuassero ad essere obsoleti, fatiscenti, pericolosi per la salute del lavoratori ed inquinanti).
E poi, quanto meno per Emilio Riva e Capogrosso, un simile atteggiamento è stato stigmatizzato da una sentenza irrevocabile di condanna per il reato di violenza privata continuata, tentata e consumata, relativo ad una serie di episodi di c.d. “mobbing”, protrattisi dal dicembre 1997 al novembre 1998 e consistiti “nell’avere minacciato numerosi lavoratori dipendenti, in maniera diretta o indiretta, che ove uno di loro… non avesse rinunciato alla prosecuzione della causa di lavoro e ove tutti gli altri non avessero accettato la proposta novazione del rapporto di lavoro con declassamento dalla qualifica di impiegato a quella di operaio, con conseguente mutamento peggiorativo delle relative mansioni, sarebbero stati trasferiti (come poi è avvenuto) alla palazzina LAF, ove era sicuramente prevedibile l’inevitabile sottoposizione ad un regime lavorativo umiliante e peggiorativo rispetto alle loro legittime aspirazioni, regime consistente nella mancata assegnazione di qualunque tipo di incarico e attività operativa, sì da dover trascorrere, peraltro in un ambiente non decoroso e trascurato, le ore prescritte in una situazione di assoluta inerzia, lesiva della dignità dei lavoratori, con ciò determinando, da un lato, il prevedibile ed inevitabile peggioramento delle loro capacità professionali e, dall’altro, l’avvilimento del loro legittimo diritto ad espletare un’attività lavorativa decorosa” (il brano è tratto dalla sentenza n° 376/2006, emessa dalla IV sezione penale della Cassazione l’8 marzo 2006 e depositata il 21 settembre successivo, pagg. 2 s.).
Per Capogrosso, poi, a tanto debbono aggiungersi ulteriori condanne irrevocabili per violazioni della disciplina antinfortunistica contro gli agenti chimici etc. (D.L.vo n° 277/1991), per danneggiamento aggravato, per omissione colposa di cautele antinfortunistiche (art. 451, c.p.), per omicidio colposo con violazione, ancora una volta, delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro (art. 589, co. 2, c.p.).
Valutate, dunque, tutte tali circostanze ai sensi dell’art. 133, cod. pen., le pene per gli imputati Emilio Riva, Capogrosso e Claudio Riva meriterebbero di attestarsi in misura prossima ai massimi edittali. Non può non considerarsi, tuttavia, che gli interventi strutturali richiesti alla società “Ilva”, per evitare che si verificassero i reati di cui si va trattando, erano economicamente ingenti, ma soprattutto necessariamente collegati ad un più ampio programma di ristrutturazione di un’azienda di enormi dimensioni, e, come tali, di soluzione nient’affatto agevole.
Conseguentemente, si stima maggiormente aderente ad esigenze di prevenzione generale e speciale irrogare delle pene collocantisi intorno ai medi edittali.
In ogni caso, quei segnalati indici di gravità dei fatti, nonché, per Emilio Riva e Capogrosso, gli anzidetti precedenti penali, e, per Claudio Riva, la sua qualità sostanziale di vicario ed alter ego del padre Emilio, escludono la possibilità di riconoscere loro le attenuanti generiche.
1.2. – Nell’àmbito, poi, delle diverse posizioni individuali, ed assimilando innanzitutto quelle di Emilio Riva e Capogrosso, poiché colpevoli dei medesimi reati, una pena maggiore, seppur di poco, va infitta al primo, potendo ragionevolmente ritenersi che Capogrosso abbia rappresentato il fidato braccio operativo di scelte tuttavia operate dai vertici amministrativi o, al più, da questi ultimi con lui concordate.
Nei riguardi di Capogrosso, inoltre, va esclusa la recidiva, in quanto il più recente dei delitti a lui ascritti (art. 437, c.p., capo A) risulta contestato fino al settembre del 2002, epoca nella quale nessuna delle ulteriori sue condanne per delitti era ancora divenuta irrevocabile.
Non altrettanto dicasi per Emilio Riva, già attinto da condanna (recte, applicazione di pena, ma non cambia nulla: vds. art. 445, co. 1-bis, ult. parte, cod. proc. pen.) per delitto, irrevocabile sin dal 1992 (si veda, in proposito, il certificato del casellario giudiziale inserito sin dall’origine nel fascicolo del dibattimento; quello più recente, infatti, allegato al verbale dell’odierna udienza, risulta intonso soltanto perché, nel frattempo, Riva ha superato gli ottant’anni d’età e, pertanto, sono state cancellate tutte le precedenti iscrizioni, in conformità a quanto previsto dall’art. 8, co. 1, lett. a, D.P.R. n° 313/2002).
Sempre nell’ottica di una distribuzione delle responsabilità e delle sanzioni in misura direttamente proporzionale al livello di collocazione dei singoli nell’organigramma aziendale, si reputa equo valutare con minor rigore la posizione di Pensa: il quale non era certamente tenuto, sotto il profilo giuridico, ad ubbidire ed a dare corso alle scelte illegali compiute dalla dirigenza, tecnica ed amministrativa, ma, del tutto verosimilmente, non poteva sottrarsi alle stesse a cuor leggero.
Per questa ragione, oltre che per la sua incensuratezza, Pensa è l’unico che merita di vedersi riconosciute le circostanze attenuanti generiche: solamente, però, con giudizio di equivalenza alla aggravante di cui all’art. 635, co. 2, contestatagli al capo F), rimanendo immutata la gravità obiettiva dei fatti che egli ha contribuito a porre in essere.
1.3. – Infine, prima di passare alla specifica determinazione delle pene per ciascuno degli imputati, va precisato che per tutti costoro ed in relazione a tutti i reati ad ognuno contestati, può riconoscersi il vincolo della “continuazione”, a norma dell’art. 81, co. 2, cod. pen.. Si tratta, infatti, di reati tutti dolosi e riconducibili ad un medesimo disegno criminoso, poichè espressivi di quella censurabile gestione aziendale appena descritta, poco o nulla attenta alle esigenze di tutela dei lavoratori e dell’ambiente.
“Violazione più grave” – dovendo aversi riguardo, per tale aspetto, alle pene edittali – dev’essere ritenuta, per Emilio Riva e Capogrosso, quella dell’art. 437, cod. pen., mentre, per Claudio Riva e Pensa, quella dell’art. 635, cod. pen..
Un cenno specifico va riservato agli aumenti di pena ex art. 81, cit.. Si ritiene equo, ossia, fissare in misura piuttosto contenuta quelli per i reati di cui ai capi C) ed F), essendo certa per il primo, e realisticamente possibile per il secondo, la maturazione della prescrizione durante i successivi gradi di giudizio. Ove tale eventualità non si fosse prospettata, infatti, indubbiamente più elevati codesti aumenti sarebbero stati.
1.4. – Tutto ciò posto, le pene principali per ciascuno degli imputati vanno così stabilite:
● RIVA Emilio: – pena base (ex art. 437, c.p.): due anni e nove mesi di reclusione; – aumento per la recidiva, un mese recl.;
- aumenti per continuazione: 15 gg. recl., per capo C); 15 gg. recl., per capo D); un mese recl., per capo F);
- pena finale: tre anni di reclusione.
● CAPOGROSSO Luigi: – pena base (ex art. 437, c.p.): due anni e sei mesi di reclusione; – aumenti per continuazione: 15 gg. recl., per capo C); 15 gg. recl., per capo D); un mese recl., per capo F);
- pena finale: due anni ed otto mesi di reclusione.
● RIVA Claudio: – pena base (ex art. 635, co. 2, c.p.): un anno e cinque mesi di reclusione;
- aumento per continuazione: un mese recl.;
- pena finale: un anno e sei mesi di reclusione.
● PENSA Roberto: – pena base (ex art. 635, co. 1, c.p.): sei mesi di reclusione;
- aumento per continuazione: 15 gg. recl.;
- pena finale: sei mesi e 15 giorni di reclusione.
1.5. – Quanto alle statuizioni accessorie, è obbligatoria per legge, anzitutto, la condanna solidale di tutti gli imputati alla rifusione delle spese processuali verso l’Erario anticipatario (art. 535, co. 2, prima parte, cod. proc. pen.).
Nei confronti degli imputati Emilio Riva e Capogrosso, poi, vanno altresì disposte, poiché anch’esse obbligatorie ope legis, le pene accessorie della interdizione dall’industria da loro esercitata nonché della incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, come previste, rispettivamente, dagli articoli 30 e 32-ter, codice penale.
La prima, infatti, consegue ad ogni condanna per delitto commesso – per quel che qui interessa – in violazione dei doveri inerenti ad una industria (art. 31, ult. parte, cod. pen.): e, nel caso di specie, il delitto di cui all’art. 437, cod. pen., è stato da costoro commesso in violazione, per lo meno, del principale dovere dell’imprenditore verso i propri dipendenti in materia di sicurezza sul lavoro, quale è sancito dall’art. 2087, cod. civ., ma anche di quelli previsti dagli artt. 20 e 21, D.P.R. n° 303/1956, e 62, D.L.vo n° 626/1994.
La seconda, invece, accede – a norma dell’art. 32-quater, cod. pen. – alle condanne per una serie di delitti espressamente elencati, tra i quali v’è quello di cui all’art. 437, cod. pen., che siano commessi “in vantaggio di un’attività imprenditoriale o comunque in relazione ad essa”: circostanze, queste, innegabilmente ricorrenti nei fatti oggetto di causa, alla luce di quanto si è venuti fin qui illustrando.
Per ragioni di simmetria con le pene principali e consentendolo i limiti di durata stabiliti, relativamente ad ognuna, dagli artt. 30, co. 2, e 32-ter, co. 2, cod. pen., nonché apparendo aderente al principio generale fissato dall’art. 37, stesso codice, in materia di durata delle pene accessorie, si stima equo determinare tale durata in misura eguale a quella delle pene principali a ciascuno inflitte.
1.6. – Essendo l’unico completamente incensurato (anche Claudio Riva, infatti, vanta una precedente condanna irrevocabile, benchè risalente ai primi anni ’90 e relativa ad una bagattellare violazione del Codice della navigazione) nonchè quello in posizione sottordinata e di minor rilievo, l’imputato Pensa è il solo a meritare i benefici della sospensione condizionale della esecuzione della pena e della non menzione della condanna, a norma dell’art. 175, cod. pen., potendo ragionevolmente confidarsi, proprio per tale sua posizione, in una sua futura astensione da ulteriori condotte analoghe.
Peraltro, non avendo egli posto in essere alcuna condotta riparatoria delle conseguenze dei reati da lui commessi, il termine di durata di codesta sospensione va fissato in quello ordinario di cinque anni.
Per Claudio Riva, invece, non essendosi registrata alcuna netta e decisiva inversione di tendenza nelle cc.dd. politiche ambientali dell’azienda, come dimostra l’ultimo “atto di intesa” dell’ottobre scorso (dove ancora si parla della necessità di ulteriori interventi per ridurre il fenomeno della ricaduta delle polveri minerali sull’area urbana), non v’è spazio per la prognosi favorevole richiesta dall’art. 164, co. 1, cod. pen..
2. – Le statuizioni civili.
Così definite tutte le questioni di carattere tipicamente penale, v’è ora mestiere di soffermarsi sulle azioni risarcitorie civili inserite nel processo dalle parti civili “U.I.L. provinciale di Taranto” e “Legambiente”.Val la pena trattare le due posizioni distintamente, presentando ciascuna dei profili di peculiarità.
2.1. – Riguardo alla legitimatio ad causam della “U.I.L.”, v’è poco da aggiungere rispetto a quanto già evidenziato nell’ordinanza con la quale, nella fase degli atti preliminari al dibattimento, è stata disattesa la richiesta di esclusione di essa dal processo, avanzata dalle difese degli imputati. Ordinanza, pertanto, alla quale si fa rinvio.
Giova, tuttavia, ribadire che la garanzia della sicurezza sui luoghi di lavoro rappresenta, evidentemente, una delle forme di manifestazione più significative e qualificanti della tutela dei lavoratori, intesa nella sua più ampia accezione, come sancito, del resto, dallo stesso “Statuto dei lavoratori”.
Pertanto, essendo l’istituzione sindacale quella naturalmente preposta a tale tutela ed alla garanzia dei diritti dei lavoratori, è indiscutibile che tutte le organizzazioni di tal specie, senza eccezioni, annoverino tra i loro scopi qualificanti ed i loro interessi essenziali quello di adoprarsi affinchè l’ambiente lavorativo sia sicuro e le norme antinfortunistiche siano osservate.
Ne riviene che l’interesse dal sodalizio “preso a cuore ed assunto nello statuto a ragione stessa della propria esistenza ed azione” è, in quanto tale, “oggetto di un diritto assoluto ed essenziale dell’ente”: così che la legittimazione di quest’ultimo a costituirsi parte civile deriva dalla esigenza di protezione di un proprio diritto della personalità, in conseguenza del “discredito derivante alla propria sfera funzionale” (l’affermazione, elaborata dalla Corte di Cassazione per lo più in materia di costituzione di parte civile delle associazioni ambientaliste, è tuttavia estensibile a quelle sindacali, mutando esclusivamente la specie dell’interesse “preso a cuore”; si vedano, ad esempio, sez. VI pen., 10.1.1990, n° 59, ric. Monticelli; sez. III pen., 6.4.1996, n° 3503, ric. Russo).
A diverse determinazioni non può condurre la nota “sentenza Iori” delle SS.UU., richiamata dalle difese degli imputati.
Essa, infatti, anteriore alle surricordate pronunzie e probabilmente aliena da quel progressivo affinamento di sensibilità mostrato dalla giurisprudenza in materia di responsabilità aquiliana, innanzitutto non si è posta affatto la questione della immediata inerenza alla personalità dell’ente degli interessi che ne rappresentano la ragion d’essere. In ogni caso, muovendo dalla lettura dell’art. 9, St. Lav., si è soffermata sulla questione della titolarità non già del diritto alla sicurezza dell’ambiente lavorativo, che qui viene in rilievo, bensì di quelli – soltanto strumentali ad esso – al controllo dell’applicazione delle normative antinfortunistiche ed alla promozione dell’attività per l’attuazione delle necessarie cautele (che tale sentenza ha riconosciuto alla collettività dei lavoratori e non alle loro rappresentanza sindacali).
Ciò premesso, e rilevato che il diritto alla sicurezza dei luoghi di lavoro è stato violato, nello specifico, tanto dalla condotta costituente il reato di cui all’art. 437, cod. pen., quanto da quella rilevante ex art. 674, stesso codice, non vi può esser dubbio sul diritto della parte civile “U.I.L.” al risarcimento del danno conseguente a tali reati (oltre che a quello previsto dall’art. 650, cod. pen.; non così, invece, per il danneggiamento, attenendo questo a beni non riferibili nemmeno indirettamente alla sfera giuridica del sindacato).
Peraltro, val la pena rammentare che una siffatta interpretazione, proprio riguardo ai rapporti tra “Ilva” ed “U.I.L. provinciale di Taranto”, trova l’avallo di alcune sentenze irrevocabili: ad esempio, quella emessa dalla Corte di Appello di Lecce – sez. dist. di Taranto il 12 maggio 2005 (prodotta dalla difesa di parte civile all’udienza del 9.1.2006), che ha condannato Capogrosso per una fattispecie finitima a quella dell’art. 437, cod. pen, qual è quella tipizzata dal successivo art. 451; oppure la già evocata pronuncia di condanna di Riva e Capogrosso per i fatti di “mobbing”, con riferimento al più generale principio del diritto del sindacato al risarcimento dei danni in presenza di condotte atte ad incidere negativamente “sulla consistenza numerica degli aderenti…, sulla sua immagine e sul suo potere contrattuale” (vds. pag. 9 della motivazione).
Le difese degli imputati hanno contestato tale diritto al risarcimento altresì sul presupposto dell’intervenuta stipulazione degli “atti di intesa”: ed in particolare di quello del 15 dicembre 2004, nel quale le parti convenivano sulla “necessità di eliminare le controversie attualmente pendenti nelle sedi giudiziarie, attraverso la revoca delle costituzioni di parte civile”; nonché di quello di ottobre 2006, in cui tale necessità è stata espressamente ribadita.
La difesa di parte civile ha però replicato che tali atti di intesa non sono stati sottoscritti dalla “U.I.L. provinciale”, bensì da quella “regionale”, con la quale, tuttavia, v’è un rapporto – per così dire – orizzontale, quali diverse articolazioni della medesima e più ampia confederazione, operanti su basi territoriali solo parzialmente coincidenti e senza vincoli di gerarchia.
Ma, a monte di tale rilievo, ve n’è ancora un altro, che esime dal dover approfondire tale aspetto organizzativo del sindacato e che attiene alla natura giuridica di quegli “atti di intesa”.
Essi appaiono, infatti, essenzialmente delle dichiarazioni di intenti, tanto significative dal punto di vista politico, quanto prive di valore vincolante sotto il profilo strettamente giuridico. Basti pensare, ad esempio, alle numerose clausole generiche, alla mancata previsione di sanzioni (anche soltanto attraverso un generico e complessivo richiamo a quelle previste dal codice civile o da altri testi normativi) od alla reiterazione, pressochè pedissequa, dei medesimi impegni.
Non vi può esser dubbio, allora, sul fatto che, quand’anche la parte civile Sorrentino, nella sua qualità di legale rappresentante della “U.I.L. provinciale”, li avesse sottoscritti, o quand’anche vi fosse stato un vincolo gerarchico tra “U.I.L.” regionale e provinciale, nessuna preclusione giuridicamente rilevante del diritto di agire in giudizio ne sarebbe derivata per quel sindacato.
Così acclarato l’obbligo risarcitorio, può apparire addirittura superfluo specificare che esso grava solidalmente su tutti gli imputati. Come s’è visto, infatti, ciascuno di essi ha contribuito, con la propria personale condotta, poco importa se integrante tutti o solo alcuni dei reati per i quali è intervenuta condanna, ad arrecare quel nocumento alla sicurezza sui luoghi di lavoro ed alla correlata incolumità dei lavoratori, nel quale si sostanzia il danno patito dal sindacato.
Un cenno dev’essere riservato, in chiusura, al quantum del risarcimento.
Trattasi di un danno che, coinvolgendo un diritto della personalità – si potrebbe quasi dire, se si trattasse di una persona giuridica riconosciuta – o comunque un bene immateriale di un ente, risulta del tutto peculiare ed essenzialmente non patrimoniale (quantunque ovviamente risarcibile: artt. 185, cod. pen., e 2059, cod. civ.). In dibattimento, poi, la parte attrice non ha offerto nessuna prova, anche soltanto parziale, della entità di esso.
Dovendo, peraltro, procedersi ad una liquidazione essenzialmente equitativa, appare più giusto che ad essa provveda il giudice civile, istituzionalmente deputato a ciò, secondo i parametri da lui abitualmente utilizzati a tal fine.
Per le stesse ragioni, non pare nemmeno opportuno stabilire una provvisionale, la quale, per evitare di porre eccessivi vincoli al prudente apprezzamento del giudice civile, rischierebbe di essere determinata in misura talmente minima da apparire irrisoria rispetto all’ampiezza della vicenda di causa. Del resto, nessun serio periculum in mora corre la parte civile, sì da rendere necessario garantirle un ristoro immediato, ancorchè parziale.
2.2. - Probabilmente un po’ più complessa è la posizione di “Legambiente”, poiché al dibattito dottrinario ed alle oscillazioni della Cassazione, ancora attuali, si è aggiunto, da ultimo, il novum normativo del D.L.vo n° 152/2006, contenente il nuovo c.d. “T.U. ambiente”.
Quanto alle varie posizioni – ci si passi la definizione breve – ante Testo Unico, ma che, come si dirà tra breve, rimangono in parte attuali, un’ampia rassegna critica, doviziosamente arricchita dalla citazione di numerosi precedenti per ognuna, si rinviene in una recente sentenza, ovviamente della terza sezione penale: ossia la n° 33887 del 9.10.2006, ric. Strizzolo.
Rinviando a codesta sentenza per l’indicazione specifica dei vari precedenti, le facoltà di volta in volta riconosciute alle associazioni ambientaliste ed i relativi riferimenti normativi possono così sintetizzarsi: a) diritto di intervento analogo a quello della persona offesa dal reato, ai sensi degli artt. 91 ss., c.p.p, e perciò subordinato al consenso di questa (normalmente l’ente territoriale); b) diritto di costituirsi parte civile nel processo penale, ma non anche di ricevere il risarcimento del danno, quand’anche questo venga accertato, spettando alle associazioni, in questo caso, soltanto il ristoro delle spese processuali; c) diritto, ma solo per le associazioni riconosciute ex artt. 13 e 18, L. n° 349/1986, di esercitare in sede giudiziaria le azioni risarcitorie per danno ambientale spettanti agli enti territoriali, surrogandosi agli stessi in caso di loro inerzia: tuttavia, ove la domanda sia accolta, il risarcimento dev’essere liquidato a tali enti, mentre all’associazione dev’essere riconosciuta soltanto la rifusione delle spese giudiziali, secondo quanto previsto dall’art. 9, D.L.vo n° 267/2000; d) diritto di tutte le associazioni, anche di quelle non formalmente riconosciute dal Ministero dell’Ambiente, di agire in giudizio per ottenere il risarcimento, iure proprio, del loro interesse statutario all’ambiente, purchè esse siano qualificate da un sufficiente radicamento nell’àmbito territoriale di riferimento: è tale collegamento col territorio, infatti, che distingue tra soggetti portatori di interessi diffusi, non azionabili né risarcibili, ed enti esponenziali di interessi legittimi collettivi, pacificamente suscettibili di tutela giurisdizionale anche risarcitoria, dopo la svolta operata dalle Sezioni Unite civili della Corte di cassazione con la sentenza n° 500 del 22 luglio 1999.
E’ certamente quest’ultima – come già si è avuto modo di esporre nella surrichiamata ordinanza di rigetto della richiesta di esclusione delle parti civili, resa in limine litis all’udienza del 6 marzo 2006 – l’opinione preferibile.
Risulta insuperabile, infatti, l’argomento fondantesi su quel giudicato delle Sezioni Unite civili, che ha segnato un’autentica rivoluzione copernicana della materia.
Muovendo da esso, la giurisprudenza qui condivisa ha evidenziato “che il danno ambientale presenta, oltre a quella pubblica, una dimensione personale e sociale quale lesione del diritto fondamentale all’ambiente salubre di ogni uomo e delle formazioni sociali in cui si sviluppa la personalità; il danno in oggetto, in quanto lesivo di un bene di rilevanza costituzionale, quanto meno indiretta, reca una offesa alla persona umana nella sua sfera individuale e sociale. Tale rilievo porta alla conclusione che la legittimazione a costituirsi parte civile per danno ambientale non spetta solo ai soggetti pubblici, in nome dell’ambiente come interesse pubblico, ma anche alle persone singole o associate in nome dell’ambiente come diritto fondamentale di ogni uomo. Di conseguenza la legittimazione in oggetto spetta anche alle associazioni ecologiche quando hanno subito dal reato una lesione di un diritto di natura patrimoniale (ad esempio, per i costi sostenuti nello svolgimento della attività dirette ad impedire pregiudizio al territorio o per la propaganda) o non patrimoniale (ad esempio, attinente alla personalità del sodalizio per il discredito derivante dal mancato raggiungimento dei fini istituzionali che potrebbe indurre gli associati a privare l’ente del loro sostegno personale e finanziario). (…)
Non sono legittimati a costituirsi parte civile gli enti e le associazioni quando l’interesse perseguito sia quello genericamente inteso all’ambiente o, comunque, un interesse che, per essere caratterizzato da un mero collegamento con l’interesse pubblico, resta diffuso e, come tale, non proprio del sodalizio e non risarcibile.
Quando, invece, l’interesse alla tutela dell’ambiente non rimane una categoria astratta, ma si concretizza in una realtà storica di cui il sodalizio ha fatto il proprio scopo, esso cessa di essere comune alla generalità dei consociati.
In questo caso, possono costituirsi parte civile le associazioni che sono centri di tutela e di imputazione dell’interesse collettivo all’ambiente che, in tale modo, cessa di essere diffuso e diviene soggettivizzato e personificato.
Perché una associazione si possa considerare ente esponenziale della collettività, in cui si trova il bene oggetto della protezione, necessita che abbia come fine statutario essenziale la tutela dell’ambiente che diviene la ragione dell’ente, sia radicata sul territorio anche attraverso sedi locali, sia rappresentativa di un gruppo significativo di consociati, abbia dato prova di continuità della sua azione e rilevanza del suo contributo a difesa del territorio” (in questi termini testuali si è espressa Cass. pen., sez. III, 2.12.2004, n° 46746, ric. P. civ. in proc. Morra, già menzionata nella ordinanza pubblicata all’udienza del 6 marzo 2006; vds., in senso conforme, pure la surricordata sentenza n° 33887/2006, ric. Strizzolo, relativa proprio all’associazione “Legambiente”, nonché, tra le ultime, sez. III, 15.1.2007, n° 554, ric. “Verdi ambiente e società onlus”).
I difensori degli imputati, però, sono andati oltre, adducendo che il precedente sistema, che trovava i suoi riferimenti normativi essenziali nell’art. 18, L. n° 349/1986, e nell’art. 9, D.L.vo n° 267/2000, ed al quale, al limite, si poteva attagliare quella giurisprudenza, è stato travolto dal nuovo “T.U. ambiente” dell’aprile scorso.
La questione non è stata esaminata dalle sentenze appena citate, nemmeno da quelle successive all’emanazione di quel testo normativo, e dunque val la pena intrattenersi sul punto.
Il Testo Unico, invero, non soltanto ha espressamente abrogato quegli articoli di legge [vds. art. 318, co. 2, lett. a) e b), D.L.vo n° 152/2006], ma ha pure predisposto una ristrutturazione funditus della materia del risarcimento del danno ambientale (parte VI, titoli I – III, artt. 299 – 318).
In base all’art. 311, co. 1, infatti, “il Ministro dell’ambiente… agisce, anche esercitando l’azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale”.
Di qui, quelle difese hanno concluso per la legittimazione del Ministro, unica ed esclusiva, a costituirsi parte civile in caso di danni ambientali, e per la conseguente reiezione della domanda risarcitoria di “Legambiente”.
Tale approdo ermeneutico, però, non può essere condiviso, per ragioni plurime ed operanti su piani diversi.
Occorre evidenziare, infatti, che la legittimazione esclusiva del Ministro riguarda il “danno ambientale”: quello, ossia, che consiste in “qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima”, stando all’espressa definizione offerta dal medesimo Testo Unico all’art. 300, co. 1 (ovvero in qualsiasi alterazione, deterioramento o distruzione in tutto o in parte dell’ambiente, secondo la nozione – più generica, ma anche più ampia, od almeno così sembra – che si ricava dal successivo art. 311, co. 2).
Nulla toglie, però, che il medesimo fatto produttivo di codesto “danno ambientale” possa ad un tempo ledere ulteriori e differenti situazioni giuridiche soggettive, diritti soggettivi od interessi legittimi che siano, di cui siano titolari altri soggetti, anche privati: ai quali non può certo essere negato il diritto di agire in giudizio a tutela degli stessi.
Tale aspetto, peraltro, è stato ben presente anche ai conditores del Testo Unico, che infatti, all’art. 313, co. 7, ult. parte, hanno stabilito: “Resta in ogni caso fermo il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi”.
Né si può obiettare che questa norma riguardi solamente i danni alla salute od alla proprietà. A parte l’irrazionalità ed i correlativi dubbi di costituzionalità di una disciplina così congegnata, che restringerebbe, senza ragioni evidenti od altrimenti spiegate, l’area delle situazioni giuridiche soggettive meritevoli di tutela, quale tracciata negli anni dal progressivo affinamento della giurisprudenza, dovrebbe prendersi atto che detta norma, se interpretata in quel modo, si risolverebbe in un’insanabile aporia. Poiché, infatti, non è discutibile che salute e proprietà integrino altrettanti diritti soggettivi perfetti, rimarrebbe senza spiegazione l’espresso riconoscimento di tutela giudiziale anche per gli “interessi lesi”.
Si può, allora, concludere che una cosa è il “danno ambientale” stricto sensu, per il cui risarcimento, in forma specifica o per equivalente, è legittimato ad agire soltanto il Ministro; altro sono i diritti soggettivi (proprietà, salute, iniziativa economica privata, e così via) e gli interessi collettivi legittimi (principalmente, appunto, quello alla salubrità ambientale di una determinata area territoriale) che possono risultare lesi dal medesimo fatto produttivo del danno ambientale. Per queste situazioni giuridiche soggettive, dunque, come già avveniva prima del Testo Unico del 2006, sono legittimati ad agire in giudizio ed ad ottenere il risarcimento del danno i loro titolari, pur se si tratti di soggetti privati, ed in particolare – per quel che qui interessa – di associazioni ambientaliste rappresentative della collettività dell’area territoriale interessata, secondo gli indici dianzi indicati.
L’obiezione difensiva, però, si infrange ancora contro un altro ostacolo, di natura processuale o, se si vuole, formale.
Già in base alle regole generali ed ordinarie, le norme di legge, salve espresse eccezioni, non possiedono efficacia retroattiva, e quindi possono disporre soltanto per l’avvenire. Ne consegue che, se un soggetto risultava titolare di un diritto al momento in cui ha agito in giudizio per la tutela di esso, non può vedersi pregiudicato dallo ius superveniens.
Tanto più ciò dicasi, se, come nell’ipotesi che qui rileva, si tratti di norme di carattere processuale, le quali soggiacciono – com’è noto – al principio tempus regit actum: proprio valorizzando tale aspetto, ad esempio, è giunta a riconoscere la perdurante legitimatio ad causam di “Legambiente” l’unica pronuncia della Corte di Cassazione che, ad oggi, è dato di conoscere sullo specifico punto in esame: I sez. pen., sentenza n° 865, dep. 8.9.2006, ric. Pezzotti + 1.
Ma pure ai giudici di questa sentenza sembra essere sfuggito un dato normativo risolutivo, che ribadisce ex professo quanto essi hanno correttamente concluso sulla base dei princìpi generali del nostro ordinamento.
L’art. 303, co. 1, lett. f), dello stesso Testo Unico ha stabilito, infatti, che “la parte sesta del presente decreto… non si applica al danno causato da un’emissione, un evento o un incidente verificatisi prima della data di entrata in vigore della parte sesta del presente decreto”. E, poiché la parte sesta è quella che contiene anche l’art. 311, ne consegue che per i danni anteriori, sia quelli “ambientali” in senso stretto, che quelli ad essi correlati, si debbono continuare ad applicare le regole preesistenti.
Se così è, risulta innegabile il diritto al risarcimento del danno invocato dalla parte civile “Legambiente Puglia”: e ciò, con riferimento tanto al reato di cui all’art. 674, cod. pen., quanto al danneggiamento di cui al capo F), attesa l’entità del fenomeno e la vastità dell’area interessata.
Infatti, scopo essenziale e qualificante di codesta associazione è appunto “la tutela e la valorizzazione della natura e dell’ambiente,… delle risorse naturali, della salute collettiva,… del territorio e del paesaggio…”, secondo quanto si legge nell’art. 1 del suo Statuto regionale (allegato all’atto di costituzione di parte civile).
E’ altamente verosimile, dunque, che le pervicaci condotte lesive dell’ambiente poste in essere dall’”Ilva” ed esaminate nei capitoli precedenti abbiano arrecato a “Legambiente Puglia”, se non altro, un “discredito derivante dal mancato raggiungimento dei fini istituzionali, che potrebbe indurre gli associati a privare l’ente del loro sostegno personale e finanziario” (per richiamare la parole di Cass. pen., sez. III, 2.12.2004, n° 46746, dianzi citata).
Si tratta, inoltre, di un’associazione storica – si potrebbe dire – tra quelle costituitesi a difesa dell’ambiente, radicata ed operante su tutto il territorio nazionale, nonchè notoriamente promotrice di numerose e continue iniziative a quel fine, come indirettamente confermano, peraltro, i vari precedenti giudiziari ad essa relativi, tra quelli citati a vario titolo in questo paragrafo.
A tale proposito, con precipuo riferimento all’area jonica, ed a testimonianza dell’attività già da tempo intrapresa da quest’associazione riguardo alla questione ambientale che affligge questo territorio, può essere utile rammentare che essa si era costituita parte civile anche nel più volte evocato processo ex art. 674, cod. pen., contro Riva, Capogrosso ed altri, relativo ai cc.dd. “parchi minerali”, ottenendo anche in quella sede il riconoscimento della sua legittimazione ad agire iure proprio (sebbene la Corte di Cassazione, aderendo ad uno degli altri indirizzi giurisprudenziali prima ricordati, le abbia poi riconosciuto soltanto il diritto alle spese processuali, peraltro compensate tra le parti).
Anche per questa parte civile, infine, valgano le considerazioni già rassegnate con riferimento alla “U.I.L.”, riguardanti: a) la inopportunità di procedere ad una liquidazione, anche soltanto parziale del danno; b) l’ascrivibilità solidale dell’obbligazione risarcitoria in capo a tutti gli imputati. Sostanzialmente identiche, infatti, salvo che per la specie del bene-interesse leso, si presentano le posizioni di entrambe le parti civili.
2.3. - Il riconoscimento pressochè integrale delle ragioni di queste ultime non lascia spazio – ad avviso del giudicante – per una compensazione delle spese relative alle azioni civili, che dunque debbono essere interamente accollate agli imputati condannati, anche in questo caso in solido tra loro.
Le stesse, inoltre, debbono essere liquidate nella misura di cui al pedissequo dispositivo, tenendo conto del numero delle udienze (22), delle numerosissime testimonianze assunte (57, oltre a svariati verbali di sommarie informazioni acquisiti sull’accordo delle parti), dell’imponente mole di documenti riversati in atti, della non comune difficoltà della materia trattata.
² ² ² ²
DISPOSITIVO
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale di Taranto, in composizione monocratica, visti gli artt. 529, 530, 531, 533, 535, 538-541, 544, co. 3, cod. proc. pen.:dichiara RIVA Emilio colpevole dei reati in rubrica ascrittigli ai capi A), C), D) ed F), tutti unificati tra loro per continuazione, e lo condanna alla pena di tre anni di reclusione;
dichiara CAPOGROSSO Luigi colpevole dei reati in rubrica ascrittigli ai capi A), C), D) ed F), tutti unificati tra loro per continuazione, e, esclusa la contestata recidiva, lo condanna alla pena di due anni e otto mesi di reclusione;
dichiara RIVA Claudio colpevole dei reati in rubrica ascrittigli ai capi D) ed F), unificati tra loro per continuazione, e lo condanna alla pena di un anno e sei mesi di reclusione;
dichiara PENSA Roberto colpevole dei reati in rubrica ascrittigli ai capi D) ed F), unificati tra loro per continuazione, e, riconosciutegli circostanze attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, lo condanna alla pena di sei mesi e quindici giorni di reclusione.
Condanna tutti i predetti, in solido tra loro, al pagamento delle spese del procedimento.
Dichiara RIVA Emilio e CAPOGROSSO Luigi interdetti dall’industria esercitata ed incapaci di contrattare con la pubblica amministrazione, per la durata delle suddette pene principali loro rispettivamente irrogate.
Ordina che, per PENSA Roberto, l’esecuzione delle predette pene principali ed accessorie rimanga sospesa per cinque anni, alle condizioni e con gli effetti di cui agli artt. 163-168, cod. pen., ed altresì che della presente condanna non sia fatta menzione nel certificato del casellario giudiziale, spedito a richiesta di privati e non per ragioni di diritto elettorale.
* * * *
Dichiara non doversi procedere nei confronti di RIVA Emilio, CAPOGROSSO Luigi e PENSA Roberto, in ordine alla contravvenzione loro contestata al capo B) della rubrica, perché estinta a norma dell’art. 24 del D. L.vo 19 dicembre 1994, n° 758.
Dichiara non doversi procedere nei confronti di MORONI Alfredo ed ELEFANTE Domenico, in ordine alla contravvenzione loro contestata al capo G) della rubrica, perché estinta per intervenuta prescrizione.
Assolve RIVA Emilio, RIVA Claudio, CAPOGROSSO Luigi e PENSA Roberto dall’imputazione di cui al capo E) della rubrica, perché il fatto non sussiste.
Assolve MORONI Alfredo ed ELEFANTE Domenico dall’imputazione di cui al capo H) della rubrica, perché il fatto non sussiste; nonché dall’imputazione di cui al capo I) della rubrica, per non aver commesso il fatto.
* * * *
Condanna RIVA Emilio, RIVA Claudio, CAPOGROSSO Luigi e PENSA Roberto, in solido tra loro, al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili “U.I.L. Provinciale”, in persona del suo segretario e rappresentante legale pro tempore, e “LEGAMBIENTE PUGLIA”, in persona del suo presidente e rappresentante legale pro tempore, da liquidarsi per entrambe in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese di costituzione e difesa sostenute dalle medesime parti civili, che si liquidano, per ognuna, nella misura di € 7.500,00 per diritti ed onorari, oltre I.V.A. e C.P.A. come per legge.
* * * *
Riserva di depositare la motivazione nel termine di 70 giorni.
Taranto, 12 febbraio 2007.
IL GIUDICE
dott. Martino ROSATI
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