Operai in bici/Pellegrinaggio? No, rivoluzione
Antonello e Domenico, due operai Ilva, hanno percorso la Via
Francigena, antica via di pellegrinaggio per sensibilizzare l’opinione
pubblica sulla tragedia ambientale di Taranto. Hanno incontrato la
solidarietà di tutti e visto le montagne vere, non quelle di scorie
metalliche
Con la voglia di portare in giro un messaggio, quello di “Taranto
Libera”, di far conoscere una situazione che ancora, nonostante il
susseguirsi delle vicende, sembra sia lontana da un risvolto positivo
per la città e i suoi abitanti, con le loro biciclette mountain bike
hanno percorso per quasi tutta l’Italia la Via Francigena. Questa via è
un percorso di pellegrinaggio, che conduceva alle tre principali mete
religiose cristiane dell'epoca medievale: Santiago de Compostela, Roma e
Gerusalemme. Il percorso italiano prevede la partenza dal Piemonte o
dalla Valle D’Aosta per terminare a Roma, a Brindisi o se si vuole
chiudere in bellezza, a Gerusalemme. Antonello e Domenico, due operai
Ilva di 40 e 50 anni, hanno approfittato del contratto di solidarietà
per impiegare una settimana in bici per la Via Francigena, con tappa
finale ad Assisi. Tornati stupefatti, perché piacevolmente colpiti dalla
solidarietà che hanno incontrato e dalle emozioni provate, Domenico ha
voluto raccontare a noi di Extra la loro avventura.
Come è nata l’idea di fare questo pellegrinaggio?
«Ci stavamo preparando da un po’ di tempo, perché io e Antonello,
ambientalisti entrambi, volevamo lanciare una nuova provocazione. Ogni
domenica mattina, alle prime ore del giorno, ci siamo allenati
percorrendo 40-50 km per la Provincia di Taranto. E’ capitato anche in
settimana, quando eravamo liberi. Successivamente, abbiamo deciso di
percorrere la Via Francigena, la via che portava i crociati a
Gerusalemme, passando da Roma e Brindisi; abbiamo pensato che fosse
bello portare il nostro manifesto con il messaggio “Taranto Libera” e
diffonderlo per il percorso».
Perché Assisi come tappa finale?
«Tra le tappe non rientra Assisi, ma abbiamo scelto questa città
perché è la patria di San Francesco, che è anche il simbolo
dell’incontro cristiano, oltre che essere una persona fortemente
rispettosa dell’ambiente e degli animali; un ambientalista ante litteram
insomma. Abbiamo scaricato il percorso da Internet con le varie tappe,
deviando alla fine per Assisi».
Perché con la bicicletta se il percorso è previsto a piedi?
«A piedi non avremmo avuto tempo a sufficienza; avremmo impiegato 40
giorni, essendo 39 tappe, calcolando una media di 25 km al giorno. La
bici è un mezzo che va riscoperto, che per noi tarantini potrebbe
diventare un simbolo e uno strumento di rivolta. E’ stato bello portare
in giro il manifesto di “Taranto Libera”, per capire cosa percepisce
la gente, cosa le arriva oltre l’informazione dei mass media.
L’obiettivo del percorso è stato quello di diffondere la nostra
situazione, della città di Taranto, raccontata da due operai Ilva. La
curiosità è stata quella di verificare ciò che la gente realmente
conosce a riguardo».
La gente come ha reagito? E’ rimasta stupita?
«Certo, rimanevano sbalorditi. Ci dicevano che in un momento di crisi
come questo, non può chiudere una fabbrica così potente, la prima in
Europa per la produzione di acciaio. Quando spiegavamo loro la
situazione che siamo costretti a vivere a Taranto (che non si può
barattare lo stipendio con quel 30% di bambini che ha il piombo nel
sangue, che le mamme non possono allattare i proprio figli), cambiavano
subito posizione, esortandoci a scendere in piazza e ribellarci.
Ricordo una donna di Lucca che ha esclamato: “Cosa aspettate a reagire,
tutto ciò è agghiacciante!”. Probabilmente la loro attenzione era
maggiore, perché a diffondere questo messaggio, erano due operai Ilva.
La gente ci sosteneva, perché crede nella nostra causa».
In che modo comunicavate il vostro messaggio?
«Arrivavamo in una piazza con la nostra maglia e fissavamo il nostro
manifesto “Taranto Libera”; la gente si incuriosiva e si avvicinava per
fare domande. L’unica città che non ci ha concesso di fissare il
manifesto, è stata Siena a Piazza del Campo, per via dei preparativi del
Palio».
Ci vuoi spiegare il vostro percorso?
«Si è svolto in una settimana; siamo partiti di domenica in pullman
sino a Torino, pagando il supplemento per le biciclette. Da lì è
cominciato il nostro percorso, andando a Susa al presidio “No Tav”, per
portare anche il nostro sostegno. Il giorno dopo siamo partiti da Susa a
Vercelli, attraversando la Val di Susa, poi Chivasso, Pavia sotto gli
Appennini dove ci ha colto un acquazzone. A quel punto abbiamo preso
il treno, perchè era impercorribile quella parte degli Appennini in
bici, poi ancora Sarzana dove abbiamo ripreso a pedalare fino a Lucca,
poi Poggibonsi, dopo Siena, e infine, l’ultimo stacco fino ad Assisi. Il
viaggio lo abbiamo fatto in estrema povertà, con lo stretto
necessario, giusto la biancheria e qualche maglietta che lavavamo ogni
giorno, affinché fosse asciutta per il giorno dopo».
Dove avevate la roba che avete portato?
«Avevamo il portapacchi da me costruito, montato dietro la bici. Oltre
agli indumenti, avevamo tutto quello che poteva essere utile per
riparare le biciclette; il primo e l’ultimo giorno abbiamo percorso una
media di 130-140 km, gli altri giorni 90 Km».
Dove avete alloggiato?
«Abbiamo dormito presso i conventi dei francescani, gli stessi
designati per le tappe del pellegrinaggio. A Vercelli siamo stati in un
convento gestito da diversamente abili, una cosa meravigliosa; la
direttrice, anche lei diversamente abile, ci ha chiesto la carta
credenziale, prevista dalla Via Francigena: ogni tappa prevede un timbro
da applicare sulla carta. Abbiamo avuto la possibilità di cucinare,
abbiamo mangiato assieme. Sono stato piacevolmente sorpreso, perché
pensavo che l’Italia fosse diventata molto più cinica, molto più
distratta nei riguardi dei problemi, pensavo che la crisi avesse indotto
gli italiani a chiudersi in sé stessi. Ora penso che la gente che ho
incontrato non merita la classe politica che ci governa, merita di più.
Ci vedevano per strada, quando ci fermavamo nei bar per ristorarci e non
sapevano cosa offrirci, la frutta, l’acqua fresca o altro».
Emozioni forti quindi?
«Fortissime! Per non parlare dei paesaggi che imperavano durante il
nostro tragitto; verde ovunque e montagne vere, altissime ma vere, non
quelle di minerale a cui noi siamo abituati dalla nascita». (extramagazine)
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