L'intervista al giornalista Carlo Vulpio su L'Unità
di Salvatore Maria Righi
Parliamo di Ilva e di Taranto con Carlo Vulpio, un collega del
Corriere della Sera che, come inviato, da oltre vent’anni racconta il
mondo e il suo mondo, la Puglia. Nel suo libro “La città delle nuvole”,
come in una premonizione, c’è più o meno tutto quello che è successo e
sta succedendo a Taranto. Il volume è del 2009.
Cominciamo dalla fine, dal caso Vendola. Il presidente si difende dalle accuse e replica che la sua storia non si tocca.
“Scusi,
lo dico senza polemica, ma cosa si intende con questo? Quale storia, mi
chiedo? Credo che la storia delle persone si faccia con atti concreti,
non con sorrisi e belle parole. Questo non vale ovviamente solo per lui,
ma per tutti quelli che fanno passerelle, ma lasciano le cose come
stanno. Lo stesso discorso potrebbe valere, per esempio, anche per il
presidente della Camera, Boldrini, riguardo al tema immigrati. O per
quelli che combattono la mafia solo facendo comizi . Il nome del partito
di Vendola parla di ecologia e libertà, ma se è per questo a Taranto
anche il tanto vituperato Cito faceva comizi contro l’Ilva. Anzi, da un
certo punto di vista è stato più ambientalista di lui, perché diceva in
pubblico che la voleva radere al suolo”.
Il tema della corruzione ambientale al centro dell’inchiesta della Procura sembra il vero male di Taranto.
“Non
è una novità, sono situazioni che c’erano già ai tempi dell’Italsider,
quando la fabbrica impiegava 30mila persone, pagava lo Stato e ai
sindacati andava bene tutto, perché per loro significava fette di potere
e tessere. Così come il problema ambientale che c’è da sempre, perché
da sempre ci sono stati dati e numeri taroccati, denunce ignorate e
magistrati che si giravano dall’altra parte. Il clima è cambiato di
ognuno con tutti, diciamo così, è cambiato solo dopo, quando sono
arrivati i morti come una lugubre cambiale all’incasso, per colpa di
veleni come la diossina, il benzoapirene e l’arsenico in una sequenza
precisa che ha fatto piangere intere famiglie: la malattia, la morte e
alla base di tutto l’inquinamento”.
Molti parlano di catastrofismo..
“Catastrofe
vuol dire cadere giù, ecatombe era il sacrificio di 100 buoi, a Taranto
sono stati abbattuti migliaia di capi di bestiame, quindi anche
etimologicamente non c’è nessuna forzatura. In realtà, è dagli anni
Novanta che con dati e numeri alla mano ho respinto al mittente certe
accuse. E non è vero che ho fatto da amplificatore alle inchieste e ai
magistrati, casomai il contrario. Mi spiace doverlo dire, ma nel mio
libro che è stato presentato quattro anni fa al Salone del libro di
Torino, c’è tutto quello che contengono gli atti della procura. Il
problema della salute era già presente a metà degli anni Novanta, anche
se all’epoca si vedeva soprattutto dal punto di vista degli operai
dell’Ilva, più che della popolazione”.
Il procuratore Sebastio, più volte, ha parlato del ruolo da supplente che è toccato alla magistratura.
“Ma
questo succede ovunque in Italia, non solo lì, come si può vedere dalle
inchieste aperte nel nostro paese. A volte è giustificato, a volte no.
Di certo a Taranto c’è stato un vuoto radicale della politica per tutti
questi anni, ma queste situazioni dovrebbero trovare una soluzione prima
che intervenga la magistratura, che arriva quando ormai le cose sono
degenerate e che comunque non è un corpo immacolato dello Stato. Anche
la magistratura, a volte, compie forzature, anche se non è il caso di
quella di Taranto. Certo tutto questo potevano farlo prima, in quella
Procura. Perchè tutto quello che è venuto fuori ora, su Taranto, lo
sapevano tutti da una vita. Non è stata certo una sorpresa”.
Era l’unico modo per spezzare il patto scellerato che ha soffocato Taranto?
“L’intera
classe politica che si è succeduta negli anni non ha fatto niente per
la città, e questo ha giovato a tutti, sia nel periodo dell’Italsider
che in quello Ilva. Lo stesso Vendola, nella telefonata di cui si è
parlato in questi giorni, dice una cosa molto illuminante: il nostro
miglior alleato è la Fiom. All’origine di tutto questo, però, credo ci
sia un problema più generale e culturale legato alla parola lavoro”.
Cioè?
“La
sua sacralizzazione dettata dall’articolo 1 della Costituzione, il
fatto che in suo nome si possa anche arrivare ad uccidere e avvelenare.
Certamente è un valore primario, basilare, ma non può essere un totem
che condiziona tutto il resto fino alle estreme conseguenze. L’articolo 1
dovrebbe essere fondato sulla persona umana, non sul lavoro”.
Questa storia, invece, è stata impostata sulla dicotomia salute-lavoro.
“E’
un dibattito vecchio di un secolo, fuori luogo riproporlo ancora
adesso. Il tema non è essere pro o contro l’acciaio, per dire. Il punto è
produrre acciaio con le migliori tecnologie possibili, perché una sola
vita persa per l’inquinamento vale più delle centinaia di milioni di
euro dei profitti. Il punto è ripensare quella fabbrica con un modello
industriale più adatto ai tempi, più piccolo e più adatto al mercato e
alla compatibilità ambientale, come succede in tutti i paesi sviluppati
come Germania o Stati Uniti, dove stabilimenti grandi ed inquinanti come
l’Ilva sono stati trasformati in fabbriche modello anche come impatto
su salute e ambiente”.
Però ci vogliono soldi. Molti soldi.
“Gli
esperti veri, i tecnici che davvero ne sanno, dicono che ci vogliono
8-10 miliardi per risanare l’Ilva e trasformarla in una fabbrica
moderna. La domanda allora è conviene spenderli o abbattere il mostro?
Non è una questione giudiziaria o di mercato, così come è ora, Ilva è
condannata a chiudere perché è una fabbrica obsoleta e decrepita. Ed è
probabile che la proprietà cerchi di arrivare alla fine delle
autorizzazioni derivanti dal protocollo di Aarhus per poi chiudere i
battenti”.
Cosa può succedere, ora?
“Le
strade sono due, secondo me. Il rischio è che ci si accontenti di
quello che loro chiamano ambientalizzazione, interventi minimi per
300-400 milioni che non possono fare quasi nulla, considerando le vere
cifre che servirebbero. Oppure, con più coraggio e tanti più
investimenti, si cerca di percorrere la strada della bonifica che
vorrebbe anche dire, seppure in ritardo, riprendersi da una sventura
immensa e recuperare il tempo perso. Si potrebbe dare lavoro per decine
di anni a migliaia di persone, dopo la chiusura dell’Ilva”.
Ma al momento pagherebbe lo Stato, non chi ha inquinato.
“Il
principio del chi inquina paga è sacrosanto, ci mancherebbe. Ma la
politica e chi fa scelte per la collettività non possono aspettare le
decisioni della magistratura. Per cominciare il processo di bonifica e
pulizia, per ridare un futuro alle persone, il primo passo tocca allo
Stato, poi finito il processo toccherà ai responsabili risarcire gli
italiani. L’importante è che cambi il modello industriale di
riferimento”.
Si riferisce alla riconversione dell’Ilva?
“Faccio
l’esempio di Pittsburgh, negli Stati Uniti, che era la capitale
mondiale dell’acciaio e che aveva un impatto inquinante simile. Adesso
gli Usa producono il 60% dell’acciaio con materiali di recupero, quindi
senza produrre, e per il resto lo ricavano da impianti puliti. In
Germania c’è il limite di 0,1 nanogrammi di benzoapirene per metro cubo,
e lo rispettano tutti. Da noi ci sono impianti vecchi e chi sostiene
queste cose è subito accusato di anti-industrialismo. Di essere un
incosciente. Incosciente, invece, è chi uccide le persone avvelenandole.
A Taranto c’è l’occasione per ripensare tutto il modo di fare
siderurgia, con l’utilizzo di quello che il progresso mette a
disposizione come la bioingegneria e le nanotecnologie. Dire queste cose
non significa non volere l’acciaio, significa togliere l’idea della sua
centralità quantitativa. Acciaierie come l’Ilva di oggi non le vogliono
più nemmeno in paesi in via di sviluppo come il Pakistan, dove i
contadini hanno accolto a fucilate chi ne voleva fare una”.
Taranto si può ancora salvare?
“E’
tardi, tardissimo. La politica non ha fatto altro che entrare a gamba
tesa per metterci una pezza, ma mai in modo decisivo. I protocolli e le
intese firmate da Regione e governo nel corso degli anni sono come
quelli dei saggi di Sion, poco più che carta straccia, perché sono state
petizioni di principio, larghe intese e mai niente di concreto. Se
dovessi puntare un euro sul futuro, la logica indurrebbe ad essere
pessimista, perché non c’è niente che non faccia pensare a questo, ma
preferisco sospendere il giudizio con un atteggiamento più da storico:
vediamo cosa succede”.
Intanto la strage continua: gli ultimi dati epidemiologici sono impressionanti.
“E’
una strage silenziosa che dura da sempre, c’erano tutti i sintomi già
tanto tempo fa. Ma già allora si occultavano notizie, non si dava un
quadro chiaro della situazione e intanto si riempiva tutto di veleni, la
terra, l’aria e il mare. Dico solo un particolare per fare capire
tutto: il controllo delle emissioni, che nominalmente toccava alla
Regione attraverso l’Arpa e i suoi organismi, era di fatto affidato ad
una compagnia che faceva capo ad Ilva”.
Chi controlla i controllori, il problema dei problemi.
“Infatti
il problema di persone come il direttore Giorgio Assennato, che compare
anche tra i nomi dell’inchiesta, è che sono cariche di nomina politica,
in questo caso dalla presidenza regionale, quindi non faranno mai nulla
che non sia gradito a chi lo ha messo lì. Ci vorrebbero entità diverse
non comunicanti tra loro”.
Il libro e tutto il resto: mai pentito di aver remato contro?
“Mai,
assolutamente. Per meglio dire, non sono e non voglio essere come
altri, non voglio vivere di rendita sui morti e sulla drammaticità delle
situazioni. Ho avuto la soddisfazione di essere stato un organo di
libertà, di averci creduto e di aver fatto questo mestiere senza
influenze e pregiudizi politici. Se mi chiedono perché non sono
diventato direttore del Corriere della Sera, potrei dire che c’entrano
anche queste cose, ma ho fatto una scelta e non mi sono mai pentito,
nemmeno un giorno, di averla fatta”.
Nessun commento:
Posta un commento