Taranto, cozze inquinate e distrutte, sotto accusa in 17 nell'inchiesta Ilva
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In duecentocinquantotto, fra cittadini privati e società, sono considerati parte danneggiata nel procedimento «Ambiente svenduto» che, lungo le produzioni inquinanti dell’Ilva e l’esercizio delle attività gestito dalla società siderurgica, avrebbe individuato rapporti contaminati fra i vertici dell’industria dell’acciaio e il mondo della politica.
All’Ilva però, e alle modalità di produzione del suo stabilimento, è imputata dalla procura di Taranto anche la contaminazione dello specchio acqueo del primo seno del Mar Piccolo.
In parole povere, all’Ilva è addebitata la cattiva sorte dei mitili, la cui produzione negli anni scorsi è stata al centro di una polemica, talvolta pure strumentale, finalizzata a togliere dal mercato la «cozza tarantina».
In realtà, sarebbe invece stato effettivo, e del tutto concreto, l’inquinamento della produzione locale che ora, alla luce delle conclusioni formulate dal procuratore della Repubblica Francesco Sebastio e dei magistrati del pool che indaga sull’Ilva, potrebbe ritenere di aver individuato gli autori del disastro che ha travolto decine e decine di cooperative di mitilicoltori.
A pagina 18 dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, notificato fra gli altri anche al governatore della Puglia Nichi Vendola, al sindaco tarantino Ippazio Stefàno, ai vertici e ai dipendenti dell’Ilva e ad altri soggetti cinvolti a vario titolo nel procedimento, il “disastro” compiuto in Mar Piccolo è stato formalizzato.
In quella pagina, infatti, si parla di sversamento di sostanze nocive provenienti dalle produzioni del siderurgico che hanno provocato, e comunque non impedito, la contaminazione di quello specchio d’acqua, «ove insistevano numerosi impianti di coltivazione dei mitili, in tal guisa cagionando l’avvelenamento da diossina, Pcb e metalli pesanti di diverse tonnellate di mitili che venivano distrutti per ragioni sanitarie, in quanto pericolosi per la salute umana».
La contestazione della procura si ferma al 20 giugno del 2013, periodo in cui la parte rilevante delle indagini dei finanzieri e del Noe si era conclusa.
Proprio per questo, la magistratura di Taranto imputa la permanenza del reato commesso «anche in epoca successiva al provvedimento di sequestro di tutta l’area a caldo dello stabilimento siderurgico e nonostante il tribunale del Riesame, con ordinanza dell’agosto 2012, avesse disposto l’utilizzo degli impianti solo al fine di risanamento ambientale, con l’aggravante del numero delle persone concorrenti nel reato».
Nello specifico, sono indagati per concorso nell’avvelenamento delle sostanze alimentari Emilio, Nicola e Fabio Arturo Riva, Luigi Capogrosso, i fiduciari Lanfranco Legnani, Alfredo Ceriani, Giovanni Rebaioli, Agostino Pastorino, Enrico Bessone e poi i dirigenti Marco Andelmi, Angelo Cavallo, Ivan Dimaggio, Salvatore De Felice, Salvatore D’Alò, Girolamo Archinà, Bruno Ferrante e il direttore di stabilimento Adolfo Buffo. (Quotidiano)
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