Intervista di Francesca Sironi pubblicata su L'Espresso
Il ciclone sardo, 16 morti, oltre 2mila sfollati, era imprevedibile. Ma c'è molto che si potrebbe fare per tutelare persone, case, strade e città da questi eventi. Investendo per proteggere l'ambiente. Ma dal governo non arriverà che un decimo di quello che serve, anche quest'anno. Parla Alessandro Trigila, tecnico dell'Ispra
di Francesca Sironi
Pioggia. Tanta, troppa, torrenziale: 450 millimetri in 12 ore. Fermare il fango, a quel punto, è diventato impossibile. E l'acqua ha inghiottito 16 persone, ne ha costrette più di duemila a scappare. Un evento estremo, legato però a una prassi costante: quella di divorare l'ambiente. «Il rischio non si riesce mai a portare a zero, ma si può far molto per prevenire i danni più gravi», spiega Alessandro Trigila, ricercatore dell'Ispra (Istituto superiore per la protezione dell'ambiente) ed esperto di frane e dissesto idrogeologico: «È ancora presto per valutare gli effetti del ciclone, capire cosa si sarebbe potuto evitare, ma un dato è certo: il consumo di suolo c'entra. Eccome».
Lo si ripete ad ogni emergenza: bisogna ridurre la cementificazione, fermare quegli otto metri quadri al secondo di terra che vengono rimpiazzati, anche in questo istante, dall'asfalto. Parole che però restano nel vuoto: le costruzioni aumentano e al posto di frenarsi su boschi o pianure le alluvioni si abbattono su strade, palazzi, capannoni. «Nel 1956 era urbanizzato il 2,8 per cento del territorio. Oggi è il 7: più di due volte tanto. Consumare il suolo a questa velocità significa aumentare l'esposizione delle persone alle conseguenze dei fenomeni naturali». Anche perché malta e mattoni non hanno seguito affatto il passo della popolazione: «Nel 1961 l'Italia aveva 50 milioni di abitanti, nel 2011 sono diventati 57. Il 12 per cento in più. Nello stesso periodo però le case sono passate da 14 a 27 milioni. Con un aumento del 50 per cento».
La fotografia è desolante, e ben nota. «Ma non è irrimediabile», insiste Trigila: «Per prevenire i danni gli interventi si possono fare: mettere in sicurezza i letti dei fiumi, costruire argini più forti, de-localizzare i luoghi più esposti, attivare sistemi efficaci di allarme, aggiornare costantemente le carte dei rischi e tenerne al corrente la popolazione». Interventi possibili, ma costosi. E il portafoglio dello Stato è sempre più risicato: «Nel 2008 lo stesso ministero dell'Ambiente aveva valutato in 40 miliardi di euro i fondi necessari a mettere in sicurezza paesi e città. In 15 anni ne sono stati spesi 4,25. Ovvero 300 milioni all'anno: troppo poco. E come se non bastasse nell'ultima legge di stabilità i finanziamenti a questo scopo sono stati ridotti ancora, a un decimo: 30 milioni».
Nel frattempo poi, sono iniziati gli effetti, concreti, del cambiamento climatico, per cui «eventi atmosferici gravi come le alluvioni», spiega il ricercatore: «che prima si ripetevano a grandi distanze di tempo, oggi sono sempre più intensi e ravvicinati», per cui tutte le infrastrutture che non li avevano considerati affatto ora sono molto più esposte.
«Per questo è fondamentale il monitoraggio», conclude Trigila: «Noi lo facciamo con le frane: un database nazionale pubblico e consultabile dove c'è traccia delle 487mila frane segnalate dai tempi dei romani, così come i luoghi in cui potrebbero avvenire». Per le alluvioni a tenere conto dei dati sono i bacini territoriali, ora in via di riorganizzazione. Un riferimento costante, nazionale, non c'è: «Quello che sappiamo è che ci sono 12.873 chilometri quadrati di suolo a criticità idraulica, senza nemmeno considerare gli scenari più catastrofici», come quello che ora ha colpito la Sardegna.
«Bisognerebbe essere rigidi, oggi, almeno sui vincoli: vietare di aumentare i rischi nei piani regolatori», chiede Trigila. Ma questo, nelle mani dei politici, significherebbe molti soldi in meno nelle casse dei comuni. Per cui più che un consiglio, è una speranza.
19 novembre 2013 © Riproduzione riservata
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