Taranto. La salute dopo l’Ilva. Sviluppare ricerca per proteggere
benessere dei cittadini
Alla fine della mattinata di
lavori, concluse le relazioni scientifiche, il pubblico raccolto nella sala
dell’Università si alza per una pausa. Restano seduti, abbracciati e in lacrime,
un uomo e una donna. È un’immagine inconsueta in un convegno di medicina, ma
assolutamente comprensibile in questo caso.
Perché il convegno
Salute, ambiente, lavoro nella città dell’acciaio ha raccolto
interventi e dati sulla salute a Taranto, dove gli stabilimenti e i loro fumi
sono parte del panorama quotidiano e dove le preoccupazioni non sono astratte,
ma concretissime e riguardano la propria vita e quella delle generazioni
future.
Non si tratta di fare “allarmismo”, come ha ripetuto più volte
Cosimo Nume, presidente dell’Ordine dei medici di
Taranto e organizzatore del convegno insieme a Emanuele Vinci, presidente
dell’Ordine di Brindisi. Si tratta piuttosto di raccogliere i dati, perché, come
ha detto Vinci: “Ora non si può non sapere”.
Introdotto da Valentina
Petrini, giornalista di Piazza Pulita, è Agostino Di
Ciaula (della sezione ISDE di Taranto, tra i promotori del
convegno) che ricorda come i primi dati siano ormai del 1987, e oggi mostrano un
aumento di incidenza per carcinomi e Bpco e un elemento in pericolosa
controtendenza: l’aspettativa di vita media in quest’area si è abbassata di due
anni, mentre nel resto del Paese continua a crescere. E
Raffaella Depalo (Policlinico di Bari)
aggiunge dati che mostrano un aumento dell’infertilità, che raggiunge il 20-25%,
mentre un numero crescente di donne che arrivano anticipatamente alla
menopausa.
A spiegarne le ragioni è Alberto Mantovani
(Iss) che illustra come gli agenti inquinanti, e in particolare gli interferenti
endocrini, entrino nel ciclo ambientale, arrivando agli alimenti e quindi ad
interagire con l’organismo umano.
Un’interazione che, come illustra
Ernesto Burgio (presidente del comitato scientifico ISDE)
investe gli esseri umani, ma ancor più embrioni, feti e gameti. Secondo questa
lettura epigenetica, Burgio ha detto che “quel che si genera adesso lo
percepiremo tra 20 anni”, citando in particolare l’aumento di incidenza
dell’autismo, per il quale Lancet parla ormai di pandemia nelle zone
fortemente inquinate.
Un dato che purtroppo è confermato a Taranto, come
hanno ricordato molti interventi del pubblico, numeroso, composto dai medici
provenienti da tutta Italia (il convegno ha avuto il sostegno della Fnomceo e
sono quindi affluiti rappresentanti da tutti gli Ordini provinciali) e da
medici, studenti e cittadini della regione.
E molti interventi hanno
sottolineato la necessità di sviluppare maggiori ricerche sulla realtà sanitaria
della zona, anche offrendo maggiori servizi alla popolazione locale. Purtroppo,
come ha spiegato Depalo, per i suoi studi sono stati utilizzati in un primo
tempo fondi privati e solo in un secondo momento si è attivato un progetto
ministeriale, mentre non c’è stato alcun intervento da parte della
Regione.
Ma perché, pur conoscendo ormai la situazione di rischio, non
abbiamo ancora messo in campo misure adeguate? Al di là delle ragioni politiche,
giuridiche ed economiche, affrontate nella seduta pomeridiana del convegno
guidata da Sandra Amurri (il Fatto quotidiano),
potrebbe esserci una ragione antropologica. Il nostro cervello, ha spiegato
Paolo Rognini (Università di Pisa) ha un software vecchio,
capace di riconoscere solo i pericoli materiali, ma che non si attiva invece
davanti a pericoli resi evidenti solo da dati scientifici non percettibili
attraverso i sensi.
Eppure, qualcuno si è reso conto del rischio già
molti anni fa. Come Alessandro Leccese, ufficiale sanitario a
Taranto negli anni in cui si costruiva l’Italsider, o come Alberto
Arrò, medico di famiglia e primo presidente della sezione Isde di
Taranto. I due medici sono stati ricordati nel corso del convegno attraverso la
voce di Michele Riondino, attore noto al pubblico televisivo e
tarantino doc. (Quotidianosanità)
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