“I fiduciari hanno inquinato, ma non dovevano andare in carcere”
Parziale insussistenza delle esigenze cautelari per Enrico Bessone,
Agostino Pastorino, Giovanni Rebaioli e Alfredo Ceriani, totale per
Lanfranco Legnani, ex “direttore ombra” dell’Ilva di Taranto. In tre
diversi provvedimenti depositati ieri mattina, il tribunale del riesame
di Taranto ha spiegato i motivi per i quali Legnani non andava arrestato
e gli altri quattro fiduciari di Riva non dovevano essere sottoposti
alla custodia cautelare in carcere ma ai domiciliari, misura ritenuta
sufficiente per garantire le esigenze cautelari.
Il collegio della
Prima sezione penale (presidente Paola Incalza, a latere Filippo Di
Todaro e giudice relatore Benedetto Ruberto) ha confermato la presenza
dei gravi indizi nell’ipotizzato disastro ambientale a carico dei
cinque. Secondo il riesame, nel provvedimento restrittivo eseguito dalla
Guardia di Finanza il 6 settembre scorso, il gip Patrizia Todisco ha
“correttamente esposto, con dovizia di particolari, gli elementi emersi a
carico dei cinque indagati”. Il quadro indiziario non è stato scalfito
dai colpi dei difensori (fra i quali figurano gli avvocati Egidio
Albanese e Franz Pesare). Al contrario, i legali sono riusciti ad
ottenere un pronunciamento favorevole (in un caso totalmente, negli
altri parzialmente) sulle esigenze cautelari.
Riguardo a Legnani,
“le indagini – si legge nelle motivazioni – hanno dimostrato che ha
agito quanto meno sino al 2009 quale direttore ombra dello stabilimento
Ilva di Taranto”, come emerso dalle sommarie informazioni acquisite da
alcuni dipendenti della fabbrica e dalla data di risoluzione del
contratto con la Riva Fire spa (il 1° ottobre 2009). Inoltre, dal 2008
al 2010 ha fatto parte di un pool di vigilanza istituito dall’Ilva
“assumendo dunque – essendo direttore di fatto dello stabilimento – il
duplice ruolo di controllore e controllato”. Quindi, i reati di
inquinamento ambientale contestati ai Riva e a Capogrosso, secondo i tre
giudici, vanno attribuiti anche a Legnani in quanto “non si è limitato
ad una mera ingerenza nell’attività di direzione o al compimento di
specifici atti di gestione, essendo invece evidente, dalla durevole
attività svolta, relativa a tutte le problematiche inerenti lo specifico
settore di competenza (non escluso il controllo del lavoro dei
dipendenti), l’assunzione, non occasionale e con atti di significativo
rilievo, delle attribuzioni che costituiscono il profilo contenutistico
essenziale della qualifica di responsabile di una specifica area del
siderurgico”.
Pur confermando la presenza dei gravi indizi, secondo
il collegio, l’ordinanza del gip “va riformata sotto il profilo delle
esigenze cautelari accogliendo le eccezioni della difesa”. Esigenze
ritenute inesistenti per Legnani (i pm avevano chiesto la custodia
carceraria), ai domiciliari il 6 settembre, messo in libertà martedì
scorso dal riesame e parzialmente sussistenti per Ceriani, Bessone,
Pastorino e Rebaioli. Infatti, lunedì scorso sono stati scarcerati ma
sottoposti ai domiciliari.
Nelle motivazioni, giudici spiegano di
non ritenere attuali e concreti i requisiti del pericolo di fuga, in
quanto col loro comportamento hanno dimostrato di non volersi sottrarre
alla giustizia: “Pur avendo a disposizione notevoli disponibilità
economiche e pur sapendo di poter essere potenzialmente indagati non
hanno lasciato il territorio nazionale e si sono messi a disposizione
dell’autorità giudiziaria ai fini dell’esecuzione dell’ordinanza
applicativa della custodia cautelare“.
Nulla è emerso dalle
indagini, osserva il riesame, anche in ordine al rischio di inquinamento
probatorio e alla capacità (contestata ai vertici Ilva) di avvicinare
persone a fini di subornazione. Il riferimento è alla vicenda Liberti
della quale, ritiene il tribunale, i fiduciari potevano essere a
conoscenza ma una partecipazione, alla luce delle indagini, viene
esclusa. Legnani in particolare aveva chiuso il suo rapporto con l’Ilva
l’8 febbraio 2010, quindi prima dell’incontro fra il pr Archinà e il
professore (avvenuto il mese successivo).
Infine, il riesame ritiene
sia da escludere soltanto nei confronti di Legnani il rischio di
reiterazione del reato in quanto, cessato il rapporto con l’Ilva, nello
stabilimento non è più stata trovata traccia della sua presenza, come
non c’è traccia di contatti con gli indagati nelle intercettazioni, e,
evidentemente anche per ragioni anagrafiche, non ha più svolto
consulenze analoghe.
Al contrario, per gli altri indagati, si
profila “con solidità e concretezza, il pericolo che, lasciati in
libertà, reiterino analoghi fatti delittuosi”. Il rischio di recidiva
resta malgrado abbiano smesso di collaborare con l’Ilva, poichè, è la
tesi del riesame, potrebbero svolgere la loro attività lavorativa in
altre realtà industriali e “reiterare analoghe fattispecie delittuose,
avendo dimostrato totale indifferenza rispetto alla legge”.
Il
cosiddetto “governo ombra” è stato definito spesso “occulto”, pur
essendo noto a dipendenti e sindacalisti (alcuni dei quali lamentavano
vessazioni). Una definizione che il riesame ritiene corretta, malgrado
le argomentazioni dei difensori (“la presenza dei fiduciari era nota a
tutti”) in considerazione della “natura meramente fittizia del rapporto
contrattuale” il cui fine era quello di “dissimulare la reale finalità
della loro presenza nel siderurgico, ossia sovrintendere alla gestione
dello stabilimento, impartire le disposizioni da adottare al suo
interno, verificare che la condotta dei dipendenti fosse conforme alle
logiche aziendali”. I fiduciari indagati, è la conclusione dei giudici,
“erano i veri responsabili, verso la proprietà, della conduzione degli
impianti”. (A. Latartara - Corgiorno)
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