L’Ilva conferma: potrà fare a meno di un altoforno e di quattro batterie. E potrebbe disfarsi, progressivamente, dell’impianto di agglomerazione. Detto, martedì sera nell’incontro a Roma con i sindacati nazionali, dal commissario Enrico Bondi. Ridetto, ieri a Taranto, dal responsabile delle relazioni industriali Enrico Martino durante la riunione in fabbrica tra dirigenza aziendale e segreterie di Fiom Cgil, Fim Cisl e Uilm.
C’è una postilla: niente contraccolpi occupazionali
dalla chiusura degli impianti. Almeno così ha assicurato il management
aziendale, alludendo a una collocazione degli esuberi su altri impianti,
in particolare il tubificio. I sindacati, però, rimangono cauti.
L’Ilva potrà fare a meno di un altoforno e di “pezzi”
vitali alla produzione di ghisa, a quel ciclo integrale realizzato
nell’”area a caldo”, ritenuta altamente inquinante e sequestrata dalla
magistratura. Perché accada ciò, tuttavia, dovrà compiersi la
«rivoluzione verde» - pensate il paradosso - già annunciata dal
sub-commissario Ronchi ai consiglieri comunali di Taranto: l’utilizzo
dei pallets di ferro pre-ridotto che elimineranno il ricorso al parco
minerali, l’alimentazione a metano negli altoforni e nelle acciaierie.
Andando a buon fine la sperimentazione si potrà dire addio a un
altoforno (uno solo?). L’Ilva lo ha prospettato con chiarezza ieri.
Occorrerà quindi un po’ di tempo perché si vedano gli effetti di una
trasformazione ora in fase sperimentale.
Ieri, i vertici aziendali non hanno escluso, oparlando
ai sindacati, che l’azienda possa arrivare a una gestione autonoma delle
nuove tecnologie e dei materiali. Una vaga allusione alla necessità di
dotarsi, per esempio, di un rigassificatore per il trasporto del metano
(o shale gas)?
Non è un caso che la dirigenza dello stabilimento
siderurgico abbiano fatto coincidere l’annuncio con l’aggiornamento
sullo stato dei lavori previsti dall’Aia, l’Autorizzazione integrata
ambientale.
Perché da gennaio è spento l’altoforno 1, principale
indiziato tra gli impianti a rischio chiusura definitiva. E ferme sono
quattro batterie del reparto cokeria. Sul tema i sindacati hanno da
tempo incalzato la nuova gestione commissariale. Ieri si è aperto uno
spiraglio. L’Ilva ha ordinato il materiale necessario per avviare i
lavori all’altoforno 1 e c’è ottimismo sulla possibilità di iniziare a
breve, a parte lo stato di avanzamento in altre aree dello stabilimento.
A detta dell’Ilva, insomma, sono stati consegnati gli
ordini alle aziende chiamate a lavorare sull’eco-compatibilità degli
impianti. Lo stabilimento siderurgico continua, comunque, a lamentare
pesanti ritardi della burocrazia nella concessione della autorizzazioni
previste per i lavori.
Resta, però, la contraddizione di fondo: sarà
l’altoforno 1 a chiudere? O un altro? Oppure alla fermata dell’altoforno
1 si aggiungerà quella di un altro altoforno? Perché c’è anche da dire
che l’Ilva ha specificato ieri che il suo cronoprogramam prevede la
riapertura la prossima estate dell’altoforno 1 quando, a settembre si
fermerà per i lavori Aia il «cuore» della produzione, l’altoforno 5. I
conti non tornano. L’Autorizzazione integrata ambientale prevede,
infatti, che l’altoforno 5 sia chiuso a giugno. L’azienda chiederà uno
slittamento, già aveva paventato l’ipotesi, ma sui tempi bisognerà
chiarire ancora qualcosa.
«Aspettiamo il piano industriale a novembre» dice il
segretario generale della Uilm Antonio Talò. Gli fa eco il segretario
della Fim Cisl Mimmo Panarelli: «Il fatto che l’Ilva abbia escluso
ricadute occupazionali lo trovo positivo. Una cosa non capisco -
aggiunge Panarelli - perché la sperimentazione dei nuovi materiali deve
coinvolgere gli altoforni se riguarda cokerie e agglomerato». «Un po’ di
interrogativi dobbiamo porceli» chiosa Talò della Uilm. E aggiunge:
«L’Ilva ha un linguaggio contraddittorio. Di certo non ripartiranno un
altoforno e un pezzo della cokeria. Ne guadagnerà l’ambiente e sarà un
grandissimo risultato. Ma il prezzo da pagare potrebbe essere assai
salato in termini occupazionali. Occorrerà trovare una soluzione». 8gdM)
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