Pur di non chiudere l'Ilva rinunciando alla produzione del-l'area a caldo del siderurgico taran-tino, se ne inventano una al gior-no. A quanto pare, governo e sin-dacati stanno pensando di salvare capra e cavoli della siderurgia ita-liana, legando due realtà non trop-po diverse tra loro, seppur lontane geograficamente: Taranto e Piombino. Le quali hanno in comune oltre ad essere due città di mare, la produzione da ciclo integrale, il commissariamento anche se per ragioni diverse e la presenza presente e passata come commissario di Enrico Bondi. Per l'Ilva un futuro alla "toscana"? La storia dell'acciaieria di Piombino è lunga e complessa: basti pensare che prende il via nel lontano 1864. La storia degli ulti-mi 20 anni, ci dice invece che nel 1992lo stabilimento viene scorpo-rato dall'Ilva (proprietaria dell'ac-ciaieria dal 1988 dopo una serie di passaggi societari) e conferito alla nuova SpA "Acciaierie e Ferriere di Piombino" della quale fanno parte l'Ilva e la società privata bresciana "Gruppo Lucchini" pre-sieduta dal cavaliere Luigi Luc-chini. Tre anni dopo, nel 1995, il gruppo Riva compra dallo Stato l'Italsider di Taranto lasciando Piombino alla gestione privata del gruppo Lucchini diventando "Lucchini Siderurgica", che nel 1998 diventa "Lucchini SpA". Nel 2003 arriva per il gruppo Lucchini una grave crisi finanziaria che viene affidata alle "sapienti" cure di Enrico Bondi, che trasforma la Lucchini SpA in una holding finanziaria a capo delle Business Unità operative. In economia è l'unità presa come riferimento per definire la strategia, che può coincidere con l'impresa o rappresen-tare solo una parte di essa. Ad esempio, se un'impresa che commercializza un certo prodotto, opera sia all'ingrosso che al dettaglio, si avranno due business unit pre-e come riferimento per definire la strategia: una per il commercio all'ingrosso e l'altra per il commercio al dettaglio. Queste definizioni sono fondamentali per comprendere che, per una stessa organizzazione, si possono avere tre diversi livelli di strategia. Detto della Business unit, le prime due sono quella di impresa (che ha un'organizzazione economica il cui fine è il conseguimento di un profitto) e quella di gruppo (quando un'impresa, in genere una società per azioni, possiede azioni o quote di altre società in modo da poterle controllare direttamente o indirettamente. Si parla, allora di holding. La società che controlla tutte le altre è detta capogruppo e rappresenta il soggetto economico del gruppo). L'unità produttiva di Piombino diventa, nelle mani di Bondi, una di queste Business Unit, societarizzandosi con la denominazione di "Lucchini Piombino SpA". Le altre erano la francese Ascometal e la divisione Lucchini Sidermeccanica di Lovere (matariale rotabile ferroviario) poi Lucchini RS. Nel 2005, a seguito della ristrutturazione finan-ziaria e degli investimenti sugli impianti, la maggioranza (60%) del gruppo Lucchini passa, attra-verso un aumento di capitale, al gruppo russo Severstal (uno dei più grossi gruppi siderurgici al mondo). La famiglia Lucchini, invece, si lancia nel business ferroviario acquistando proprio da Severstal nel2007 il l00% della BU Lucchini RS con sede a Lovere (Bergamo) e filiali industriali in altri Paesi europei. La totale separazione tra Severstal e famiglia Lucchini avviene nel 2010, quando la Severstal acquista tutte le quote del gruppo Lucchini ancora in mano alla famiglia bresciana (alla data deteneva ancora una quota del 20%). Dunque, nonostante la quasi omonimia tra Lucchini SpA e Lucchini RS SpA, la proprietà viene totalmente distinta (a qualcuno tutto questo ricorda qualcosa?). Sempre nel 2010, dopo l'acquisto del 20% dal-la famiglia Lucchini, Severstal dà il via ad un processo di vendita dell'intero pacchetto azionario di Lucchini SpA, che si conclude senza acquirenti. Visto l'insuccesso, per deconsolidare il debito Lucchi-ni SpA dai bilanci Severstal, il 51% di Lucchini SpA viene ceduto ad una società cipriota facente capo a Mordashov (principale azionista e ad della Severstal), mentre il restante 49% resta di proprietà di Severstal. Dopo la nuova crisi industriale e finanziaria del 2011, il gruppo Lucchini vende la BU Ascometal al fondo di Private Equity "Apollo" per 325 milioni di euro. L'incasso viene utilizzato per redigere un piano di ristrutturazione, omologato a febbraio 2012 dal Tribunale di Milano, col quale si prevedeva di avere altri sei mesi di liquidità per trovare al più presto un compratore. Il 21 dicembre 2012, la società richiede l'amministrazione straordinaria al Ministero dello Sviluppo Economico, che nomina Piero Nardi commissario della Lucchini S.p.A. Il 7 gennaio scorso, il Tribunale di Livorno ha dichiarato lo stato di insolvenza dell'azienda, accogliendo la richiesta di accesso alle procedure previste dalla legge Marzano. Infine, lo scorso 26 aprile, il governo ha approvato il decreto legge n.43 per il rilancio industriale dell'area di Piombino (tra cui anche il Porto), che attende ancora di essere trasformato in legge (cinque giorni fa è arrivato il voto favorevole della Camera). Come dite? Bondi che fine ha fatto in tutto questo? Se n'era andato già ad inizio 2004 per iniziare l'avventura di salva-taggio della Parmalat. L'idea in un convegno Fim, Fiom e Uilm a Roma E così due giorni fa, nel convegno organizzato da Fim, Fiom e Uilm a Roma, dal titolo "Per una siderurgia ecosostenibile e compe-titiva", all'interno della tavola rotonda a cui hanno partecipato, con la moderazione del giornali-sta economico Giuseppe Cordasco, i segretari nazionali di Fiom, Rosario Rappa, e di Uilm, Mario Ghini, il direttore generale di Federacciai, Flavio Bregant, e il Sottosegretario allo Sviluppo Econo-mico, Claudio De Vincenti, proprio quest'ultimo, secondo quanto riportato dal quotidiano "La Nazione", avrebbe svelato il lavoro sotto traccia in atto da parte del Governo per salvare le due realtà industriali, legandole tra loro. A precisa domanda, De Vincenti ha risposto che il Governo sta lavorando per verificare le possibili condi-zioni di eventuali sinergie fra Taranto e Piombino e che quando avrà uno scenario chiaro, convocherà i commissari straordinari delle due aziende per discutere delle strade da seguire. Negli ultimi mesi, le voci sulla possibilità di unire le criticità dei due stabilimenti per risollevare le sorti di entrambe rianimando l'altoforno di Lucchini e rifornendo l'Ilva di semilavorati si erano susseguite numerose e decise. Stando a quanto avvenuto giorni addietro, pare che queste non siano più solamente voci. Forse è arrivato il momento di aprire gli occhi. (G. Leone, Tarantoggi)
Ilva traslocherà in Cina?
Non sarebbe la prima volta che accade un trasloco siderurgico. Nel 1994, ad esempio, un forno dell’acciaieria Arvedi fu smontato e portato in Cina.Perché produrre in Cina
Anche per Taranto si può fare tecnicamente così. Pezzo dopo pezzo gli impianti dell’Ilva – nonostante le loro dimensioni – possono essere smontati e trasferiti nella Repubblica Popolare Cinese. Il piano è semplice e affascinante: produrre senza controlli ambientali, senza il fiato sul collo della magistratura e degli ambientalisti e con prospettive di mercato decisamente migliori. E in più: costo del lavoro più basso ed energia a buon mercato. Il piano servirebbe anche a mettere in salvo impianti che potrebbero essere confiscati per risarcire gli eventuali danni.
Questo è lo scenario ipotizzato da chi avverte: non tirate troppo la corda altrimenti Ilva lascia l’Italia portando con sé il salvabile. Ossia un patrimonio che ammonta a 2,4 miliardi di euro.
Scenario mondiale con eccesso di capacità produttiva
Ma è uno scenario realistico quello sopra riportato? Vediamo se il piano funzionerebbe.
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Il 28 novembre 2012 un’analisi del Wall Street Journal ha evidenziato a livello mondiale un eccesso di capacità produttiva nel settore siderurgico: si produce più acciaio di quanto il mercato ne richieda. Oggi nel mondo dagli impianti siderurgici ogni anno si possono ottenere 1,8 miliardi di tonnellate, mentre se ne consumano solo 1,5. John Miller sul Wall Street Journal avverte che la capacità produttiva è enorme e continua ad aumentare. ”Il bilancio sarà ancor più squilibrato nei prossimi anni”, sottolinea Roberto Capezzuoli nell’articolo dal titolo “Il mondo dell’acciaio ha un problema, l’eccesso di capacità produttiva“.
Acciaio, la depressione dei prezzi
L’eccesso di capacità produttiva ha avuto effetti depressivi sui prezzi di mercato. Roberto Capezzuoli porta dati eloquenti: “Dall’inizio del 2008 ad oggi, negli Usa, i prezzi dei coils laminati a caldo hanno perso il 35%, arrivando a 636 dollari per tonnellata. Ne ha fatto le spese la RG Steel, il quarto gruppo siderurgico statunitense, che ha dichiarato bancarotta e ha fermato impianti la cui capacità è di 7,5 milioni di tonnellate annue”.
I coils sono lamiere di acciaio arrotolate in bobine, e l’Ilva è un grande produttore di coils.
Nubi nere dunque in America. Ma in Europa le cose vanno ancor peggio. Infatti i costi dell’energia sono superiori a quelli degli Stati Uniti e nella siderurgia l’energia è uno dei costi che incide di più.
L’Europa: eccesso di offerta e dipendenza dalle materie prime
Inoltre l’Europa presenta un eccesso di capacità produttiva di 80 milioni di tonnellate/anno (dentro le quali sono contemplati i 10 milioni di tonnellate/anno dell’Ilva), come ammette la Commissione Europea.
Il bilancio negativo non finisce qui: a dare la mazzata finale alla siderurgia italiana ed europea è l’aumento del costo delle materie prime: il prezzo del minerale di ferro, la materia prima del ciclo siderurgico, è schizzato alle stelle con un +65% nel febbraio di quest’anno.
Ma come mai sale il prezzo delle materie prime se in Italia e in Europa la domanda di acciaio scende? La risposta è purtroppo questa: il prezzo del minerale di ferro è trascinato in alto dalla crescente domanda dei mercati asiatici, forse anche da accordi di cartello. Attenzione: questo aumento dei costi delle materie prime non viene trasferito sui prezzi di vendita dei prodotti finiti che – come abbiamo visto – si deprimono per l’eccesso di offerta rispetto alla domanda di mercato. Dove si scarica allora l’aumento dei prezzi delle materie prime? Semplice: sui profitti. La siderurgia perde quindi profitti e non è più una gallina dalle uova d’oro che Riva aveva fatto razzolare nel suo cortile tarantino.
Ora c’è crisi e si scopre che Riva aveva fatto male i conti ad esempio raddoppiando l’attività di zincatura a caldo a Taranto.
“Situazione insostenibile”Jean-Luc Maurange, vicepresidente di Arcelor Mittal al 28° Steel Market Outlook ammette la difficoltà generata dall’eccesso di capacità produttiva: “Il riallineamento tra produzione e consumo non si è ancora concluso, specialmente in Europa meridionale, dove la capacità produttiva era aumentata maggiormente ed il consumo è calato in misura superiore”. Per esemplificare questa difficile situazione, Maurange ha citato la situazione dello zincato a caldo in Italia: mentre nel 2008 la domanda interna era di 3,2 milioni di tonnellate e la capacità produttiva installata di 4,4 milioni di tonnellate, nel 2012 il consumo è sceso sotto i 3 milioni di tonnellate e la capacità è schizzata a 6,3 milioni di tonnellate, “una situazione industrialmente insostenibile“.
La siderurgia attraversa quindi una crisi epocale perché la società non chiede tutto l’acciaio che viene prodotto, ragion per cui un colosso come ArcelorMittal, per esempio, nel 2008 aveva in funzione in Europa 28 altiforni, oggi ne ha 18.
Il Portale della Siderurgia Siderweb sottolinea “l’impossibilità futura per l’Europa di rimanere un produttore di commodity”. Commodity è un termine inglese che indica un bene (ad esempio l’acciaio grezzo) che si acquista indipendentemente da chi lo produce ed è l’equivalente in italiano di “bene indifferenziato” ad elevata standardizzazione.
Maurange trae conclusioni drastiche: “Non vedo un futuro per i produttori di acciaio europei concentrati solo sui mercati a basso valore aggiunto”. Ed è proprio questo il settore di mercato su cui è posizionata l’Ilva attuale. L’Ilva pertanto avverte tutto il peso della crisi attuale. L’economista Marcello De Cecco avverte: “L’industria italiana dell’acciaio rischia di fare la fine di quella della chimica di base”. La situazione della siderurgia italiana è quindi di grave difficoltà: “Il fermarsi della domanda di prodotti siderurgici nel mondo – prosegue De Cecco – è stato abbastanza improvviso, per il persistere del boom asiatico e specie cinese, dopo l’arrivo della crisi. Ma in Europa la domanda di prodotti siderurgici ha ristagnato sin dall’inizio della crisi, e la capacità di mantenere posizioni da parte dei produttori siderurgici italiani, come d’altronde di quelli tedeschi, è dipesa in maniera essenziale dalla loro capacità di esportare in quelle parti del mondo, i paesi emergenti, dove la crisi ha colpito assai meno. Fino al 2012 hanno mostrato di riuscirci, ma alla fine dell’anno scorso anche quello sbocco ha mostrato segni seri di esaurimento. E la tendenza si è fatta più chiara e grave nei primi mesi di quest’anno. La crisi del principale produttore italiano, l’Ilva, che domina il nostro mercato e si colloca in buona posizione anche a livello mondiale, ha dunque coinciso con quella della siderurgia mondiale”.
Crisi dell’acciaio: come uscirne?Quindi che fare di fronte a questa crisi siderurgica che attanaglia l’Ilva, l’Italia e l’Europa?
La prima risposta è quella di posizionarsi – come hanno le aziende tedesche – su settori innovativi della siderurgia, producendo ad esempio non solo acciaio ma anche tecnologie che risparmino energia e riducano l’impatto ambientale. Un esempio è la Siemens Metal Technologies, leader mondiale nella progettazione e costruzione di impianti siderurgici. Ma l’Italia non ha puntato su questo modello di siderurgia, ha basato solo a produrre e non a investire nell’innovazione e ora è in grave crisi. Il recente piano europeo dell’acciaio fa capire che o il settore si innova o altrimenti non può vivere di semplice speranza e di antiche glorie.
Il vantaggio competitivo dell’Ilva e la stagnazione della domandaIl vantaggio competitivo dell’Ilva sul mercato internazionale – specie in questi ultimi anni di rincaro dell’energia in Europa – si è basato sul ciclo integrale che – mentre produce ghisa negli altoforni – contemporaneamente garantisce energia a costi irrisori a tutto lo stabilimento, in quanto produce quel gas AFO che viene immesso nella rete di stabilimento per un auto consumo, mentre la restante parte viene recuperata tramite le centrali termoelettriche CET2 e CET3 di proprietà dell’Ilva. Anche il gas sprigionato nel processo produttivo delle cokerie viene oggi riutilizzato in quanto è principalmente costituito da idrogeno, metano, ossido di carbonio, biossido di carbonio, azoto, ossigeno, idrocarburi, ammoniaca e idrogeno solforato: dopo essere stato trattato viene utilizzato nelle varie utenze termiche di stabilimento. Qui sta dunque il vero asso nella manica del più grande stabilimento siderurgico d’Europa che può auto-prodursi l’energia in un momento in cui le altre acciaierie italiane ed europee dotate di forni elettrici devono pagare – a caro prezzo – quell’energia che incide per il 40% sui costi di produzione dell’acciaio.
Ma Ilva – cresciuta come gigante europeo – si scontra con una stagnazione della domanda che è ormai non più contingente ma strutturale in Italia e in Europa, cosa riconosciuta anche da Federacciai che parla – per bocca del presidente Antonio Gozzi – di “scenari di ulteriore contrazione dell’economia nell’anno in corso”.
Ed ecco allora che Ilva si rivela, in questa mutata situazione del mercato, come un gigante pieno di energia che rimane imprigionato in una stanzetta angusta.
Migrare in Cina: uno scenario realistico?Che fare dunque? La risposta può sembrare semplice e ovvia: si potrebbe migrare in Cina. E ci ricongiungiamo allo scenario iniziale, con quell’immagine degli impianti che – smontati pezzo per pezzo – partono dal porto di Taranto per approdare ai lidi cinesi apparentemente immuni dalla crisi. Ed eccoli gli altoforni e le odiate cokerie lasciare la città e migrare lì dove i magistrati tarantini non potranno più mettere il naso.
Lo scenario si chiude e il sipario si abbassa con un bel marameo al GIP Patrizia Todisco e al Procuratore Franco Sebastio, con pernacchia finale a quegli ingrati dei tarantini che sono scesi in piazza con i cartelli inneggianti alla salute e alla giustizia. La scena successiva è da film: tutto viene rimontato in un distretto produttivo cinese con la bandiera rossa issata su quei camini che un tempo guardavano sui tramonti dello Jonio.
Fine della storia.
Ma andrà a finire proprio così?Al nostro scenario – così suggestivo nelle conclusioni – manca una sola cosa: la verifica finale. Ossia: la Cina ha veramente bisogno dei dieci milioni annui di acciaio dell’Ilva?
‘Overcapacity’ della CinaEd ecco l’amara sorpresa per chi ha pensato realistico questo clamoroso finale. La Commissione Europea stima che dei circa 542 milioni di tonnellate di acciaio annuo ‘in più’ di capacità produttiva mondiale, ben 200 milioni di ‘overcapacity’ sono proprio in Cina. In altri termini: la Cina non saprebbe che farsene dell’acciaio dell’Ilva. I 10 milioni di tonnellate/anno di capacità produttiva supplementare consentita dagli impianti dell’Ilva infatti aggraverebbero ulteriormente quella che in gergo tecnico viene definita “overcapacity”: “Ability to produce more than is needed”, ossia la capacità di produrre più di quanto è necessario.
La Cina – se si caricasse sulle spalle anche l’Ilva – passerebbe da 200 a 210 tonnellate/anno di overcapacity, nel campo siderurgico. E dunque ecco che lo scenario di un’Ilva che migra in Cina crolla.
Cura dimagrante per le acciaierie cinesi
Già nel 2010 la Cina ha preso in considerazione una ‘cura dimagrante’ per la siderurgia. Questione ripresa l’anno successivo in quanto – come osserva Il Sole 24 Ore – quello siderurgico cinese è un “settore afflitto da anni da un eccesso di capacità produttiva”. E finalmente il nodo è arrivato al pettine: la Cina si prende dai 5 ai dieci anni di tempo per tagliare la propria capacità produttiva nel settore dell’acciaio. La notizia è recente ed è emersa nel diciassettesimo Shanghai Metallurgy Expo.
La Cina non accoglierà quindi impianti in fuga da Taranto.
Riconvertire per garantire i lavoratoriE l’unica prospettiva, dunque, è quella di includere Taranto – come Trieste – in un piano di riconversione industriale, utilizzando l’articolo 27 del Decreto Sviluppo 2012 (“Misure per la crescita sostenibile”).
L’articolo 27 recita:
Riordino della disciplina in materia di riconversione e riqualificazione produttiva di aree di crisi industriale complessaNel quadro della strategia europea per la crescita, al fine di sostenere la competitività del sistema produttivo nazionale, l’attrazione di nuovi investimenti nonché la salvaguardia dei livelli occupazionali nei casi di situazioni di crisi industriali complesse con impatto significativo sulla politica industriale nazionale, il Ministero dello sviluppo economico adotta Progetti di riconversione e riqualificazione industriale.La questione è certamente complessa. Ma visto che la crisi dell’Ilva sembra irreversibile, in un quadro gravato da una forte ‘overcapacity’, il nodo della riconversione è la questione chiave. Se non affrontata con anticipo e con competenza, rischia di essere un’occasione perduta per chi ha veramente a cuore la sorte dei lavoratori dell’Ilva e della siderurgia italiana. (Marescotti - FQ)
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